Universi alternativi - Intervista ai Daniels

Un film d’autori, per tutta la famiglia. Un film sul multiverso, prodotto dai fratelli Russo, e un film sulla depressione. Un film action con intrusioni dadaiste. Un film che discetta di esistenzialismo e bagel giganti. Per farla breve: un film dei Daniels. Everything Everywhere All at Once è l’opera seconda di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, successo primaverile a sorpresa che, con oltre 100 milioni di dollari d’incasso, è diventato il più redditizio della A24.

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Everything Everywhere All at Once

Che significato ha per due filmmaker lontani dall’idea di mainstream e di blockbuster conforme questo consenso di massa?
DANIEL KWAN:
 L’ultimo anno ci ha cambiato la vita in modi che non ci saremmo mai aspettati. Siamo fieri di questo film come di nessun altro progetto precedente (i due sono anche autori di corti e videoclip, ndr), ed è strano pensarlo inserito in uno scenario così grande. Ci sentiamo addosso una bella pressione, e la responsabilità di consegnare al mondo qualcosa che sia meritevole del tempo altrui.
DANIEL SCHEINERT: È un riscontro che in qualche modo ci legittima, dopo anni passati a spingere il masso su per il monte come Sisifo. Speravamo che proprio il contenuto strambo e provocatorio, se accolto, avrebbe spronato a tornare in sala le persone affamate di storie che esplorino il caos del mondo... Ma pensavamo che ad amarlo sarebbe stata una nicchia, non il grande pubblico. 

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Everything Everywhere All at Once

Parli del caos: in effetti è un film che cattura con accuratezza la folle realtà multimediale e iperconnessa in cui viviamo, questo soffocamento di immagini e stimoli, questa centrifuga che ci fa sentire come se potessimo accedere a tutto, vedere e essere tutto, ma che ci aliena e anestetizza.
DK: 
Ci sentivamo annichiliti anche dieci anni fa, ma adesso è peggio. Credevamo fosse importante raccogliere queste sensazioni in un film che testimoniasse questo stato delle cose, per il futuro, e per chiederci come cambiarlo. Sia sul piano personale sia su quello globale, se non capiamo come esistere in questo rumore, se non riusciamo a processarlo e non troviamo un senso al presente, arriveremo al collasso, perché senza comprensione non si possono prendere buone decisioni. Avevamo tante idee su come parlare del caos, ma per la maggior parte del tempo era difficile capire come saldarle le une alle altre, e non ci sembrava che, da sole, potessero funzionare. Abbiamo scritto e riscritto per un paio d’anni, e la sfida è stata anche ragionare in termini di tono, che è in costante mutazione: ci sono momenti che ti fanno piangere, altri stupidi e altri ancora sorprendenti, però alla fine volevamo che componessero la più classica delle esperienze cinematografiche.

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Everything Everywhere All at Once

Il film è anche un tributo al talento e alla carriera di Michelle Yeoh. Come avete lavorato con lei?
DS: Condividere la sceneggiatura con Michelle è stato un po’ spaventoso: siamo suoi grandi fan, e lei ha messo la sua immagine e la sua reputazione nelle nostre mani. Ma credo abbia detto sì perché il ruolo di Evelyn, e il film, così estremo, rappresentavano una prima volta per lei. Ci ha dato fiducia anche quando forse non la meritavamo, e durante le riprese ha trasportato ogni sequenza verso luoghi emotivi inattesi. A volte andavamo di corsa per riuscire a stare al suo passo.
DK: Sì, noi due abbiamo fatto ben poco, al di là di creare il personaggio, perché Michelle ti spiana la strada senza sforzo. Magari prima di iniziare a girare veniva da noi a dirci «non ho mai fatto niente del genere» oppure «oddio, questa scena è folle, non so cosa sta succedendo», poi però il ciak partiva e lei era in pieno controllo della situazione. Come registi, lavorare con qualcuno così naturalmente pronto e preparato è un piacere. Senza contare che aveva il copione invaso da segnalibri, post-it, annotazioni, come se l’avesse studiato per mesi.

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Everything Everywhere All at Once

La storia, pur stratificata, è ambientata in una singola location, un ufficio dell’Agenzia delle entrate: un po’ il simbolo dell’inferno della vita adulta ma anche un avamposto del capitalismo, dove vediamo figure abusanti nei confronti di famiglie immigrate e in difficoltà.
DK: 
Io soffro di ADHD, l’ho scoperto di recente e credo ne soffrisse anche mia madre, alla quale però non è stato mai diagnosticato. Ha avuto una vita dura, la nostra casa era costantemente piena di lettere di richiamo e ricevute... Come altre famiglie di immigrati parlava con molti avvocati ma il suo inglese era pessimo, si verificavano tante di quelle magagne legali e contenziosi... Lei mi diceva sempre: «Non diventare come me, impara a seguire un ordine nella vita, altrimenti per te sarà un mondo terribile». Oggi la tecnologia è cambiata, io sono avvantaggiato, ed è cambiato l’approccio alla salute mentale, tuttavia ho pensato che quella fosse una location perfetta per un film che parla di sentirsi sopraffatti e intrappolati.
DS: Volevamo ambientare questa storia in un posto divertente e terrificante, e che agita le persone. Però abbiamo sempre saputo che a un certo punto sarebbe diventato il luogo di un esercizio nell’empatia, per cui impari a capire il personaggio dell’ispettrice del fisco, e non la odi. Perché non pensiamo che le tasse o i revisori di conti siano intrinsecamente malvagi! E volevamo mostrare in che modo l’eroina alla fine empatizza con lei.

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Everything Everywhere All at Once

A proposito di empatia, è bello come raccontate il vuoto provato dalle nuove generazioni, e il fatto che gli adulti non possano fornire soluzioni definitive, soltanto la loro vicinanza. Come in Swiss Army Man - Un amico multiuso, in cui un cadavere parlante può bastare come ragione per continuare a vivere...
DK: 
Ci penso spesso: i giovani hanno sempre meno speranza, meno motivazioni, si sentono impotenti ed è un problema universale. Forse però ci sentiamo tutti, da sempre, come se il mondo stesse per finire. Camus dice che la domanda più importante è quella sul suicidio: vivere è soffrire, ma siamo qui, e la vita è caos. Viviamo o no? Nei nostri film proviamo ad affermare la vita, ma perché il messaggio passi dobbiamo riconoscere il dolore.
DS: Inoltre qui, a differenza di Swiss Army Man, la protagonista ha l’età dei nostri genitori, e quindi il film è un’esercitazione a comprendere cosa abbiamo in comune con loro, prendendo un po’ in giro il divario generazionale ma anche permettendo che il pubblico di qualunque età possa riconoscersi in Evelyn. Bisogna riflettere su quanto ci assomigliamo a vicenda, tutti, anche se passiamo il tempo a concentrarci sulle divergenze. I nostri genitori sono cresciuti con una loro personale mancanza di speranza, ed è stato catartico confrontarcisi. 

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Everything Everywhere All at Once

In Everything Everywhere All at Once fate convergere tante ispirazioni cinefile: Wong Kar-wai, Stephen Chow, Jackie Chan, Nobuhiko Obayashi, la Disney/Pixar...
DS: 
Siamo registi egoisti: scriviamo storie che ci diverte realizzare, per celebrare il cinema che ci piace. Essendo una storia sul multiverso abbiamo potuto adoperare il linguaggio cinematografico per far comprendere al pubblico il “reame” in cui si trovava di volta in volta, usando lo stile di determinati film e autori come nella stenografia. Ma non si tratta solo di questo: è così che noi vediamo il mondo, in termini prettamente cinefili.
DK: I nostri film possono essere tutto ciò che vogliamo e amiamo, fintanto che il punto focale resta la connessione tra gli esseri umani.

Fiaba Di Martino

Tutto e bene

Coerente con il significato del titolo del film di cui è protagonista (“tutto ovunque tutto insieme”), il personaggio di Everything Everywhere All at Once (tornato in sala sull’orlo delle 11 nomination agli Academy Award; su IWONDERFULL e IWONDERFULL Prime Video Channel disponibili contenuti speciali a tema) che ha regalato a Michelle Yeoh la candidatura agli Oscar è una persona normale che scopre di poter saltare da un piano all’altro del multiverso apprendendo nozioni dalle infinite iterazioni di se stessa per riuscire a raggiungere il suo massimo potenziale come essere umano. Non per sminuire il lavoro dei Daniels, ma forse la coppia di registi e sceneggiatori poteva inventarsi un modo meno arzigogolato e fantascientifico per girare un documentario dedicato alla carriera di Yeoh, interprete che - scherzi a parte - in quasi quarant’anni di carriera ha fatto davvero tutto e, specialmente, l’ha fatto bene.

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Everything Everywhere All at Once

Yeoh nasce in Malesia nel 1962 da genitori di etnia cinese, si trasferisce a Londra a 15 anni per studiare danza classica e, dopo essere stata costretta a rinunciare al balletto a causa di un infortunio alla schiena, decide di dare tregua (si fa per dire) al proprio corpo diventando una star del cinema action di Hong Kong e imparando dai migliori interpreti, registi e coreografi (Jackie Chan, Sammo Hung, Corey Yuen, Ching Siu-tung e Yuen Woo-ping) la pericolosa arte di girare le proprie scene d’azione senza controfigure. Notata dopo aver partecipato a uno spot con Jackie Chan, Yeoh viene rapita dalla catena di montaggio hongkonghese ed emerge dopo pochi anni di gavetta grazie al ruolo da co-protagonista in Police Story 3 Supercop - dove rischia la vita in almeno due incredibili stunt suicidi - e nell’action/fantasy al femminile (al fianco di Maggie Cheung e Anita Mui) The Heroic Trio, diretta da Johnnie To. Diva del cinema d’azione: fatto.

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007. Il domani non muore mai

Nel 1997 Yeoh sbarca a Hollywood e, in Il domani non muore mai, eclissa Pierce Brosnan nei panni di Wai Lin, la Bond girl che non ha alcun bisogno di essere salvata da 007. Nel 2000 Yeoh prosegue la sua ellittica conquista dell’Occidente, imparando per l’occasione il mandarino e contribuendo a fare di La tigre e il dragone un fenomeno globale. Diva del wuxiapian: fatto. Quindi abbandona temporaneamente l’action puro per confrontarsi con ruoli meno fisici e più prettamente drammatici in Memorie di una geishaSunshine The Lady; un’interpretazione nei panni del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, quest’ultima, che nemmeno la cafonaggine di Luc Besson può sminuire. Diva del cinema drammatico, in costume e di genere: fatto. Negli ultimi anni si sono aggiunti anche i tasselli della Marvel (in Guardiani della Galassia Vol. 2 e Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli), della commedia romantica (Crazy & RichLast Christmas) e delle serie tv (Star Trek: DiscoveryThe Witcher: Blood Origin). Come volevasi dimostrare: ha fatto davvero tutto e, specialmente, l’ha fatto bene.

Nicola Cupperi

Cinema di denuncia

C’è un film, in sala, che credo riesca a farsi sintesi di questioni, di crisi, di ferite, che attraversano, segnano, preoccupano il contemporaneo. Il cinema, ma come finestra sul mondo. È Smile di Parker Finn, sorpresa al botteghino (€ 1.181.382 di incasso, nel momento in cui scriviamo) e probabilmente non per nulla. È la storia di una psichiatra il cui trauma infantile riaffiora, nella forma di una giovane donna che si uccide di fronte ai suoi occhi, impossessata da un male che la costringe a soffrire, e a morire, con un inquietante sorriso sulle labbra. Un film dell’orrore grand public, certo, ma anche un’opera sulla depressione, sull’impossibilità di uscire da una stasi, sull’agonia di quell’impaludamento. Un film, in primis, che trova modi e immagini di genere per parlare di malattia mentale, aggiungendosi a un numero crescente di opere sul o dentro il tema (su Netflix c’è la serie di Francesco Bruni Tutto chiede salvezza), la messa in scena di un disagio psichico che non riesce a farsi ascoltare (in fin dei conti la malattia è sempre incredibile: «Ci hai fatto caso che sono sempre gli altri a morire?» dice l’Amanda di Carolina Cavalli), e dunque deve costringersi alla faccia rassicurante, al sorriso sedante, a un adeguarsi violento ma pacificante all’intorno. Così c’è, nell’audiovisivo contemporaneo, il ricorrente manifestarsi di una psicologia allegorico-didattica, racchiusa in simboli semplicissimi, e un continuo rimarcare, in un andirivieni temporale dimostrativo, il lavorio del passato sul presente, i segni che i padri lasciano sui figli, un ritornare alle (scene) madri (si pensi a Blonde, al montaggio di Il colibrì, al finale di Io sono l’abisso).

Donato Carrisi
Io sono l'abisso (2022) Donato Carrisi

È così che la malattia si fa tic e modo del racconto, così che attraversa e forma il linguaggio di cinema e tv, diventa stile, omologa, si fa modello, moda, crisi condivisa. C’è un che di politica di genere, di slancio #MeToo (non è una parolaccia), nel fatto che in Smile sia la voce di una donna a non essere ascoltata, esattamente come non lo sono, per stare ai film in sala o su piattaforma, la protagonista di She Dies Tomorrow (un ulteriore film sulla depressione), quella di Don’t Worry Darling o, ancora, quella impaurita dell’adolescente abusata di Io sono l’abisso, l’Irene di Il colibrì. E c’è un che di politico nel fatto che questa malattia si diffonda (come in It Follows o nel film succitato di Amy Seimetz) per contagio (lo aveva capito perfettamente il vero padre di Smile ovvero Joker, uno dei film sociologici cruciali, piaccia o non piaccia, sull’oggi): perché sì, è un film sulla depressione, ma anche un film su un comune stare immobili, in balia del proprio trauma, dei propri sogni, delle fughe da fermo, in quella palude infinita che è il vero stato del contemporaneo (lo dice bene Sandro Veronesi con il suo Il colibrì, che batte le sue ali per stare immobile, ma anche suo malgrado il trucco fallimentare del film di Archibugi, che non riesce a far passare il tempo). Di tutto questo parla Smile.

Jamie Lee Curtis, Michelle Yeoh
Everything Everywhere All at Once (2022) Jamie Lee Curtis, Michelle Yeoh

Ed è questo che mette in forma perfetta (tra il godimento e l’allarme) uno dei maggiori film sul presente (non ascoltate chi dice il contrario), ovvero Everything Everywhere All at Once dei Daniels: di ferite che si tramandano di madre in figlia, di un perdersi nelle sabbie mobili della propria cittadella interiore, di voci che necessitano di un ascolto. Sono questi i punti dell’oggi che il cinema denuncia.

Giulio Sangiorgio

La recensione di Film Tv

Il multiverso è vivo. Più che mai, e anche troppo: abbasso il multiverso! Intendiamoci: ci si diverte un mondo con l’opera seconda dei film & videomaker Daniels, avventurona con un’inedita Michelle Yeoh proprietaria di una lavanderia e ultima speranza dell’universo, minacciato da un villain che ha i mille volti e il cuore spezzato di sua figlia. Ma in questo marasma in cui ogni cosa è ovunque tutta in una volta, ogni remix, ogni esistenza possibile, alternativa o parallela, è un dolore in più: è la prova di quanto siamo intercambiabili, sostituibili e perciò insignificanti.

Michelle Yeoh
Everything Everywhere All at Once (2022) Michelle Yeoh

In questa follia perturbante delle immagini (Satoshi Kon primo nume tutelare, ma ve ne verranno in mente molti altri), per la generazione Z le potenzialità infinite vogliono dire perdita: del valore del presente, del peso delle cose, del desiderio. Tutto tutto uguale niente niente. Il multiverso è una multinazionale, che omologa e ricicla, come la Disney/Pixar/Marvel, dove Ratatouille è ormai indistinguibile da Rocket Raccoon; e il parco giochi a tutta birra non dissimula la disperazione, né il trauma (e la sua ciclicità, il suo loop) si annulla con uno schiocco di dita (che meravigliosa beffa, gli autori di Avengers: Endgame alla produzione). Come si torna a vedere, e a vivere? Come si combatte il buco nero dell’occhio che divora (così simile all’alieno-camera di Nope)? Con un occhio giocattolo, il terzo occhio taoista, che rovescia il nichilismo assieme alla resistenza gentile dell’amore fra tasse e bucato, neon e una luce in fondo al tunnel: quella del proiettore, quella di un cinema che sa ancora immaginare senza confini.

Fiaba Di Martino

Il film

locandina Everything Everywhere All at Once

Everything Everywhere All at Once

Fantasy - USA 2022 - durata 140’

Titolo originale: Everything Everywhere All at Once

Regia: Dan Kwan, Daniel Scheinert

Con Michelle Yeoh, Ke Huy Quan, Stephanie Hsu, Jamie Lee Curtis, James Hong, Andy Le

Al cinema: Uscita in Italia il 06/10/2022

in streaming: su Apple TV Amazon Video Rakuten TV Chili