Si è conclusa con la cerimonia di premiazione del 27 gennaio scorso la settima edizione dell’iniziativa dell’associazione Cinemaniaci dedicata al giornalista e critico cinematografico Giulio Cattivelli e diretta da Piero Verani. Il Premio Cat è un concorso nazionale di critica cinematografica suddiviso in categorie (film e serie tv) riservato a giovani tra 16 e 25 anni.
I premi assegnati sono stati i seguenti:
- Gran Premio “Film Tv”
- Premio migliore recensione-tweet
- Premio migliore recensione standard
- Premio migliore recensione lunga “Cinema e storia”
- Premio miglior saggio breve
Dopo una preselezione a cura di Piero Verani, direttore artistico, i testi in gara giungono in forma anonima all’attenzione della giuria, presieduta da Mauro Gervasini e composta da Ilaria Feole, Marzia Gandolfi, Roy Menarini, Paola Piacenza, Antonio Maria Orecchia (sezione tematica Cinema e Storia), Barbara Belzini e Roberto Roversi.
Qui di seguito riportiamo i testi di tutti i vincitori.
Gran Premio “Film Tv”
Film: Una sterminata domenica
Tre ragazzi di periferia ammirano ciò che gli è rimasto della vita: niente. Tra sogni al neon e passioni erosive Alain Parroni ci porta in un viaggio acido e malsanamente toccante. Il tutto in un giubilo di immagini e suoni che si distanzia dai canoni del cinema Italiano attuale.
Beatrice Varallo, 21 anni, Cavallino (LE), Alma Mater Studiorum
Motivazione
Molto apprezzato l’approccio entusiasta, notevole la sottesa conoscenza del panorama cinematografico italiano; corretta e sintetica la presentazione del film.
Migliore recensione-tweet
Film: Anatomia di una caduta
Storia di un processo, anatomia di un matrimonio: i confini sono labili. Triet scava nella coppia, nei rapporti di potere, nella distanza tra realtà e percezione. In un’aula di tribunale, palcoscenico di speculazioni, la verità è un vizio retorico. Inutile cercare il colpevole.
Silvia Alberti, 25 anni, Piacenza, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Migliore recensione standard
Film: Patagonia
In provincia sembrano tutti bravi a morire. Genitori presenti solo come assenze, ectoplasmi di acquapark, legami riciclati nel senso del dovere. Yuri è ingenuo, non ha ancora vent’anni ma sembra spacciato: la realtà in cui vive è una tomba a cielo aperto, una gabbia da cani. Allora basta un attimo, un gioco di prestidigitazione per bambini, e il suo mondo si immerge nello sguardo luciferino di un Altro: il suo incontro con un ragazzo selvaggio, tatuato e picaresco, diventa occasione per scoprire se stesso. Yuri e Agostino prendono il passato, insieme, e ne fanno un falò; ci buttano dentro ogni cosa, sputano sulle colpe dei padri cantando le loro canzoni. Ma quel che Yuri non sa, e che Agostino omette con le sue occhiaie colpevoli, è che ogni viaggio nasconde un sacrificio: il camper in cui vivono, non-luogo inscatolato nel non-luogo, è soltanto una gabbia più grande e più comoda della precedente, un nascondiglio dove è più semplice amarsi per finta. È inevitabile. La fuga amorosa si trasforma in catabasi, i bassi della comune nel deserto fanno traboccare i sentimenti techno, il collo sente stringere il guinzaglio e Yuri vomita come un Pinocchio sotto effetto. Così Bozzelli esordisce senza compromessi, raccontando il turbine delle dipendenze affettive e la sofferenza del volersi bene – ma quando lo schermo si spegne, alla fine, sentiamo il suo abbraccio sfiorarci la schiena.
Pietro Bocca, 25 anni, Roma, IULM
Migliore recensione lunga
Film: Oppenheimer
L’eccezionale potenza di Oppenheimer, ultima fatica di Christopher Nolan, è la risultante di uno scontro tra forze che, come nell’urto dei neutroni che innesca la fissione nucleare, produce un’inedita energia espressiva. Il film è costruito tanto formalmente quanto narrativamente come un campo in cui agiscono forze di segno opposto che, eludendo per lo più qualsiasi monolitica categorizzazione (blockbuster/film d’autore, buoni/cattivi), contribuiscono a esaltare la complessità di un periodo nevralgico della storia i cui echi sembrano riverberarsi quanto più angosciosamente oggi.
La pellicola, infatti, girata nel tanto pubblicizzato IMAX 70mm e con un intenso comparto sonoro capace ancor più di far immergere sensorialmente lo spettatore, fa sfoggio della più alta qualità e spettacolarità cinematografica non per mostrare una sequela di irrefrenabili scene d’azione ricche di effetti speciali, ma piuttosto per narrare una storia intimista che spesso si tinge delle note più quiete del legal drama. Il senso del macroscopico, che trova conferma nel formato cinematografico, dunque, viene acutamente messo al servizio di un’indagine microscopica non solo dei processi subatomici, ma anche dei drammi interiori dei personaggi.
La fotografia e il montaggio, scindendo il film in due parti (fissione e fusione, a colori e in bianco e nero) che si alternano e intrecciano lungo tutta la sua durata, mettono a fuoco accuratamente l’ambiguità degli eventi mediante la frizione tra scene non sempre temporalmente contigue. Ciò restituisce le mutevoli fattezze della psiche di J. Robert Oppenheimer, uomo la cui dubbia moralità è portata sul grande schermo dalla significativa interpretazione di Cillian Murphy. Seppur si riscontrino piccole goffaggini (ad esempio, la messa in scena della prima volta in cui il protagonista legge la celebre frase di Vishnu), il film riesce a restituire incisivamente tutta la complessità di un personaggio la cui spregiudicatezza, e il conseguente sofferto pentimento, è distillata oculatamente nella prima scena della mela avvelenata.
L’acme della contrapposizione tra tali elementi viene inevitabilmente raggiunto durante l’esecuzione del Trinity test, momento assolutamente sublime (il sublime tanto grande e terribile descritto dal Romanticismo) in cui il titanismo prometeico del protagonista, e la fascinazione che condividiamo con lui per aver replicato la potenza di Dio, viene inizialmente posto estaticamente davanti a immagini suggestive di protuberanze gassose incendiate; successivamente, però, l’orrore che ne consegue investe la sala cinematografica con un fragore assordante di morte.
La scena, inoltre, risulta particolarmente riuscita anche per una sua pregressa costruzione vertiginosamente ansiogena che sembra riprendere la lezione hitchcockiana sulla suspence, declinandola in chiave metastorica. Se per la creazione della suspence Hitchcock portava avanti l’esempio di una bomba che, all’insaputa dei personaggi ma non degli spettatori, stava per esplodere, in Oppenheimer, invece, La bomba è nota a entrambi, ma solamente gli spettatori conoscono il significato storico di quel primo atto che aprirà l’era atomica e la guerra fredda, diffondendo la paura di una mutua distruzione nucleare.
Proprio attraverso quest’ultima prospettiva, il film si inserisce in un dibattito tornato drammaticamente attuale, ponendo più volte la domanda (irrisolta) che rappresenta il più importante scontro di forze tra i cui estremi si muove anche la contemporaneità. Come Oppenheimer e Teller nella pellicola, prima con l’invasione russa dell’Ucraina, poi con il conflitto in Medioriente, siamo chiamati nuovamente a riflettere se La bomba, in qualità di deterrente atomico, abbia inaugurato un utopico periodo di pace grazie a quel primo atto di primigenia violenza fondativa; oppure, se, come sembra ammiccare il finale didascalico di Nolan, sia invece il prologo di una reazione a catena che un giorno porterà all’autoestinzione del genere umano.
Luca Cialfi, 25 anni, L’Aquila, Università degli Studi dell’Aquila
Miglior saggio breve
Serie: The Bear
Nel terzo episodio della seconda stagione di The Bear Sydney cammina per le strade di Chicago alla ricerca di spunti per assemblare il menu del nuovo ristorante: una rapidissima giustapposizione di immagini estrinseca il tumulto di stimoli e processi mentali che affollano la fantasia culinaria della giovane chef, dove la neve che cade sul fiume si traduce in parmigiano grattato su degli spaghetti, le geometrie moderniste dei grattacieli delineano le composizioni di possibili impiattamenti, e il mutamento degli ambienti urbani si porta dietro un groviglio di memorie e angosce. Quelle che in sceneggiatura sono, con ogni probabilità, poche indicazioni spaziali prive di dialogato, si trasformano in materiale visivo capace di rivelare, tramite libere associazioni intellettuali e sofisticate intuizioni formali, l’interiorità del personaggio, oltre che di evidenziarne il posizionamento – Sydney è ambiziosa, massimalista, il motore del nuovo corso dell’ex-The Beef – nell’economia del racconto.
Non si tratta di una soluzione isolata: per quanto la serie ideata da Christopher Storer palesi costantemente una scrittura stratificata e consapevole, è forse proprio attraverso un’incessante cura del linguaggio visivo, spesso esasperato ed espressionista, densissimo di informazioni di non immediata decodifica, che The Bear eccede le proprie premesse e si espande nella percezione dello spettatore. Fino dai primi momenti della stagione inaugurale, quando l’entità dei molteplici conflitti catalizzati dalla personalità sofferente e intricata di Carmy deve ancora trovare piena espressione, è lo stile a veicolare in modo inequivocabile l’identità della serie; l’incedere aggressivo delle immagini, articolato in brusche transizioni, primissimi piani mobili e soffocanti, sfocature e iterazioni – una su tutte: l’inesorabile zoom in avvicinamento sull’orologio, angosciante monito della costante assenza di tempo – plasma l’atmosfera soverchiante del The Beef e al contempo aderisce alla percezione dei personaggi, sul punto di soccombere a un caos che è la manifestazione concreta di un più intangibile smarrimento interiore.
Che questo linguaggio frammentato e vorticoso costituisca un elemento complementare e integrativo della narrazione stessa sembra peraltro indicarlo l’esperienza di Storer e del direttore della fotografia Andrew Wehde, accomunati da una pluriennale esperienza nella realizzazione di spot pubblicitari e contenuti video per conto dei maggiori ristoranti stellati al mondo. C’è insomma, alle spalle di The Bear, non solo una cultura produttiva sensibile alla cura dell’immagine (tra i produttori esecutivi per FX figura Hiro Murai, che con Atlanta ha imposto un nuovo standard di qualità formale nel panorama televisivo nordamericano) ma anche un processo di osservazione e interiorizzazione dei ritmi, dei codici, degli spazi che caratterizzano una cucina, e quindi un’impalcatura tecnica e formale sulla quale la finzione si appoggia.
L’inesausta e quasi ritualistica riemersione delle tensioni che muovono i personaggi, scissi tra il ricordo di Mikey, morto suicida, e la volontà di dare nuova vita al ristorante, è dunque logicamente interrelata alle modalità espressive, che sfruttano le condizioni di perenne stress connaturate alla cucina per far emergere in modo progressivo le sfumature e i segnali di cambiamento di ciascuna personalità. Nella prima stagione conosciamo Carmy attraverso una sequenza che alterna al montaggio primissimi piani, tutti giocati su microespressioni e variazioni di luce nelle iridi di Jeremy Allen White, e fulminei inserti nel tessuto narrativo, tra fotografie di famiglia, dettagli di bollette da pagare o dello stato fatiscente a cui è abbandonato il ritornate; nel sesto episodio della seconda stagione, per la prima volta continuativamente fuori dal contesto lavorativo e in mezzo a un flusso pressoché ininterrotto di scontri verbali asprissimi, il cuore dei traumi che ingabbiano il protagonista è racchiuso nella marcata ripetizione del medesimo silenzioso reaction shot e in un raffinato sistema di raccordi di sguardo.
In modo simile, nell’episodio conclusivo, il climax dei percorsi individuali dei personaggi non prescinde certo da una scrittura acuta, capace di far esplodere i sottotesti rimasti più o meno latenti – è il caso di Richie, caratterizzato da un arco evolutivo strutturalmente perfetto, o di Natalie, figura in significativa crescita nel corso della nuova stagione –, ma trova nella dimensione visiva un veicolo espressivo altrettanto potente. Aperto da un protratto piano sequenza l’episodio trasla le polarità narrative sul piano delle immagini, facendo collidere l’illuminazione soffusa e il clima disteso della sala con l’irruenza dei neon bianchi della cucina, al cui interno lo spazio è tracciato tramite una ruvida alternanza di inquadrature ravvicinate dei volti assorbiti dal lavoro e di slittamenti fuori fuoco, tesi a carpire la rete di interazioni e movimenti coordinati cui tutti prendono parte. In prossimità del finale la polarizzazione assume poi un carattere ancor più perentorio e letterale: è l’inquadratura stessa ad essere scissa, isolando in termini spaziali e cromatici Carmy, recluso in una cella frigorifera, unico reale sconfitto della serata.
Emerge in modo netto, dunque, come il lavoro svolto dal già citato Wehde sulla fotografia (digitale, ma impreziosita dall’uso di lenti Panavision degli anni ’60, particolarmente sensibili alle oscillazioni cromatiche dei volti e degli ambienti), così come quello di Joanna Naugle e Adam Epstein nell’istituire dialoghi tra le immagini al montaggio, si configurino come una sorta di scrittura parallela, che amplifica la pregnanza delle metafore, esalta il valore semantico di gesti e segni, corroborando, in ultima analisi, l’impatto emotivo percepito dallo spettatore. Ed è quasi un automatismo, un impulso interpretativo involontario, tornare con il pensiero al mantra della seconda stagione, “every second counts”, che – come suggerito dalla chef interpretata da Olivia Colman in un cameo ovattato e bellissimo – è sì un’esortazione alla massima efficienza lavorativa, ma anche un più ampio invito a ricordare che il tempo, anche quello diegetico, ha un valore intrinseco e che pertanto merita di essere speso bene: in The Bear ogni informazione visiva è pesata, sapientemente relazionata alle esigenze narrative e alle risposte intellettuali ed emozionali attese; ogni immagine, ogni nervosa zoomata su un piatto in preparazione, ogni insistita permanenza su un volto appare insomma densa di valore significante e, in definitiva, spesa bene.
Giovanni Ceccatelli, 25 anni, Firenze, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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