Vermin, il primo lungometraggio di Sébastien Vanicek in onda su Rai 4 il 29 settembre, non è solo un film di genere con un’invasione aracnide come detonatore narrativo. È anche un’opera stratificata, che usa il linguaggio del survival horror per raccontare la marginalità, l’isolamento, l’incomunicabilità e il bisogno di riconnessione, sullo sfondo di una banlieue troppo spesso distorta dai media. Sotto la tensione crescente degli attacchi di una creatura indesiderata, si muovono volti, corpi, storie e silenzi che raccontano molto più del pericolo immediato. Raccontano noi.

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Vermin (2023) scena

Quando l’invasione inizia da dentro

Nel film di Rai 4 Vermin, siamo a Noisy-le-Grand, in un caseggiato popolare segnato dal tempo e dalla disattenzione istituzionale. Kaleb, giovane orfano solitario, scopre nel suo appartamento una specie di ragno esotico, acquistato illegalmente. L’animale sfugge al controllo e innesca una catena di eventi catastrofici. Presto, l’intero edificio si ritrova infestato da creature sempre più numerose e aggressive.


Ma il cuore del film non è l’invasione in sé: è la reazione collettiva e individuale ad essa. Le relazioni tra gli abitanti, già fragili, si sfaldano o si rinsaldano in base a paure, incomprensioni e vecchie ferite mai rimarginate. L’edificio diventa una trappola, ma anche un campo di prova: per sopravvivere non basta barricarsi, serve imparare a convivere. Con l’altro, con il passato, con la propria paura.


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Kaleb e gli altri: chiudere la porta o aprirla davvero

Il protagonista, Kaleb (Théo Christine), è il perno emotivo e simbolico del racconto del film di Rai 4 Vermin. È giovane, chiuso, autodidatta della solitudine. Vive nella stanza che era di sua madre, tra pupazzi e traumi. All’apparenza duro, è in realtà congelato nel suo dolore. La sua evoluzione è una presa di coscienza: smettere di difendersi da tutto significa anche permettere alle cose buone di entrare. Solo così può diventare adulto.


Attorno a lui ruotano figure che compongono una piccola costellazione di ferite e tentativi. Manon, la sorella, con cui non riesce a fare davvero i conti con la perdita. Jordy, ex amico fraterno con cui il legame si è spezzato per motivi banali. Mathys, ancora presente ma incerto. Lila, la fidanzata di Jordy, e poi Claudia, Toumani, Moussa: tutti offrono angolature diverse sulla reazione al pericolo, e soprattutto sul valore della solidarietà. Nessuno è ridotto a cliché.


Il gruppo, nella dinamica del film, è centrale. Non solo per le regole del survival movie, ma perché Vanicek vuole mostrare l’umanità reale della periferia: una comunità che si aiuta, che si conosce, che litiga e si protegge, senza bisogno di drammi forzati o comicità da cartolina.

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Vermin (2023) scena

L’altro, la paura, la gabbia

Il ragno non è solo un mostro. È una metafora. Vive tra noi, si nasconde negli angoli, fa paura perché non la conosciamo. Come chi è percepito come diverso, fuori posto, da ignorare o schiacciare. Vanicek lo dice chiaramente: la paura dell’altro nasce dall’ignoranza. E la violenza è spesso la risposta automatica a ciò che non comprendiamo.


Nel film di Rai 4 Vermin, il ragno diventa il simbolo della xenofobia, dell’intolleranza, ma anche del riflesso condizionato che porta a distruggere prima ancora di capire. Le relazioni tra i personaggi riflettono questo. Kaleb e Jordy non si parlano più. Manon e Kaleb non riescono a condividere il lutto. I giovani e la polizia si guardano con sospetto reciproco. Tutti reagiscono prima di ascoltare.


Il film tocca anche la gestione politica dei problemi: quando l’immobile crolla, la soluzione proposta è solo estetica. Ricostruire senza risolvere. Cambiare la forma, non la sostanza. L’immagine del quartiere abbandonato, poi riedificato, è un’amara constatazione: il sistema cambia il contenitore, ma lascia invariati i meccanismi che generano emarginazione.


C’è poi la riflessione sul confinamento: l’eco della pandemia è evidente. Maschere, quarantena, autorità che impongono regole senza spiegazioni. Il panico si propaga più in fretta del pericolo reale. La claustrofobia è fisica, mentale, sociale.

La messa in scena come stretta alla gola

Vanicek arriva al suo primo lungometraggio con un bagaglio solido di corti e una visione chiara. La regia è nervosa, tesa, costruita su piani stretti, montaggio verticale, movimenti improvvisi. La tensione cresce senza mai ricorrere al jump scare gratuito. La paura viene dalla presenza costante, quasi invisibile, del pericolo.


I ragni, create in CGI ma anche con animatroni e animali veri, sono credibili, realistiche. Non sono mostri giganti, ma creature domestiche, disturbanti perché plausibili. L’invasione è un’infiltrazione.


La musica, tra organico, synth e hip hop, evita le percussioni per suggerire minaccia attraverso dissonanze sottili. Il lavoro sul suono è chirurgico, ogni cigolio di porte è pensato per amplificare il senso di insicurezza. Tutto vibra, ma niente esplode inutilmente.

Un film che non vuole solo intrattenere

Vermin non è un film horror. È un’opera politica, emotiva, sociale, mascherata da film di genere. Fa paura, sì, ma nel modo giusto: perché ci mette davanti a ciò che non vogliamo vedere. I suoi ragni sono specchi. Non ci aggrediscono: rispondono. Sta a noi decidere se schiacciare o ascoltare.


Vanicek firma un debutto che non chiede il permesso. Racconta la banlieue con autenticità, senza moralismi. E lascia una domanda che resta dopo i titoli di coda: chi è davvero il verme?

Autore

Redazione

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Filmografia

locandina Vermin

Vermin

Horror - Francia 2023 - durata 103’

Titolo originale: Vermines

Regia: Sébastien Vanicek

Con Finnegan Oldfield, Sofia Lesaffre, Jérôme Niel, Théo Christine, Lisa Nyarko

in TV: 29/09/2025 - Rai 4 - Ore 21.20

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