“L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui”: la citazione shakespeariana che dà il titolo al film Tutti diavoli sono qui non è solo un richiamo colto, è semmai una diagnosi. Barnaby Roper, al suo debutto alla regia cinematografica, costruisce Tutti i diavoli sono qui, su Paramount+ dal 18 novembre, come un’elegante trappola teatrale. Una fuga post-rapina che si trasforma presto in un incubo a tempo determinato, dentro una casa diroccata e fuori dal mondo. Un film che, più che raccontare una storia di gangster, li osserva morire a fuoco lento, logorati dalla fame, dal sospetto e da se stessi.
Quello che inizia come un heist movie prende rapidamente i contorni di un dramma claustrofobico e paranoico. Roper mescola archetipi da noir britannico, suggestioni horror folk e un’estetica cupa, curata nei minimi dettagli. Ma sotto questa superficie ben costruita, la vera forza del film è nella sua capacità di spingere i personaggi – e lo spettatore – verso un’unica domanda: quanto a lungo può un uomo restare umano, quando ogni via d’uscita è preclusa?

Il colpo andato storto
Il motore narrativo del film Tutti i diavoli sono qui è un piano criminale che deraglia subito. Quattro uomini, tutti sconosciuti tra loro, vengono reclutati per una rapina in banca orchestrata da un misterioso boss, Mr. Reynolds. Il gruppo è formato da Ronnie, il veterano; Grady, il violento instabile; Numbers, l’ambiguo contabile; e Royce, il giovane autista. L’operazione, inizialmente rapida ed efficace, si macchia di sangue quando Grady, per paranoia, uccide un impiegato. La fuga precipita nel caos quando l’auto travolge una figura sulla strada.
Da quel momento, il film cambia registro. I criminali raggiungono un cottage isolato nel Dartmoor, dove devono attendere per sette giorni, senza contatti, senza tecnologia, con scorte limitate e un’unica regola: non uscire mai. Lì comincia il vero assedio, non da parte della polizia o di nemici esterni, ma dall’interno stesso del gruppo.
Anime allo sbaraglio: un quartetto in rovina
I personaggi del film Tutti i diavoli sono qui sono maschere rotte, ciascuno a modo suo. Ronnie, interpretato con l’usura giusta da Eddie Marsan, è l’ultima eco di un’etica criminale ormai superata. Legge Dickens, gioca a solitario, cerca un appiglio morale in un contesto dove la morale non serve più. Ma la sua presunta saggezza non basta a evitare il disastro.
Grady, incarnato da Sam Claflin, è il caos incarnato. Un uomo che vive senza freni, prigioniero del proprio bisogno di dominio, di piacere e di distruzione. È la miccia sempre accesa nella polveriera del gruppo.
Numbers (Burn Gorman), invece, è un personaggio che si muove ai margini: ascolta vecchi dischi, si chiude a chiave, si droga in solitudine. È enigmatico, repellente, ma mai prevedibile. Il suo isolamento è calcolato, e nasconde qualcosa di più oscuro.
Royce (Tienne Simon), infine, è il più giovane, il più ingenuo, ma anche il più malleabile. In lui si riflette la tensione tra aspirazione e colpa, tra la voglia di uscire da un destino e l’impossibilità di farlo. È il vaso di Pandora in cui tutti cercano di infilare la propria influenza.
Con l’arrivo della misteriosa C (Suki Waterhouse), che annuncia l’estensione indefinita dell’attesa, l’equilibrio già precario crolla del tutto. I personaggi diventano frammenti impazziti, ostili, disperati. 
Ognuno reagisce come può: chi con il controllo, chi con la violenza, chi con la fuga mentale.

Dentro la scatola nera
Il tema centrale del film Tutti i diavoli sono qui non è il crimine, ma il confinamento. Il cottage diventa un laboratorio dove l’umanità si deteriora, come un corpo chiuso in una stanza senza ossigeno. L’assenza di via d’uscita non è solo fisica, è esistenziale. I personaggi non sono semplicemente bloccati: sono condannati.
Roper gioca volutamente con elementi horror (l’ambientazione isolata, la mancanza di contatti esterni, le interruzioni tra i giorni come capitoli da incubo), ma l’orrore non è mai soprannaturale. È tutto umano. La violenza, quando esplode, è grezza, dolorosa, mai stilizzata. È la logica conclusione di un logoramento inarrestabile.
Altro asse portante è la colpa. Non c’è redenzione, non c’è pulizia. Tutti portano qualcosa sulle spalle: omicidi, omissioni, decisioni sbagliate. Ma nessuno vuole davvero fare i conti con ciò che ha fatto. Preferiscono mentire, agli altri e a sé stessi, finché le maschere cadono.
E poi c’è l’inevitabilità. Il film si muove come un meccanismo a orologeria, dove ogni gesto sbagliato porta un passo più vicino al collasso. L’intreccio si arricchisce di flashback, frammenti che svelano connessioni precedenti, debiti nascosti, rancori latenti. Ma invece di chiarire, questi dettagli aumentano l’oppressione: il passato non è una spiegazione, è solo un altro inferno.
Quando il cinema si chiude a chiave
Tutti i diavoli sono qui è un film che parla di limiti: geografici, morali, narrativi. Si muove in uno spazio ristretto e in un tempo scandito da giorni che si somigliano sempre di più. Questa scelta non è un difetto, è una dichiarazione d’intenti. Roper non cerca di raccontare una grande epopea criminale: racconta una resa dei conti. E lo fa con una messa in scena raffinata, tesa, in cui ogni dettaglio – dalle luci agli oggetti, dai rumori ai silenzi – contribuisce alla sensazione che nessuno ne uscirà intero.
Se la sceneggiatura, nella parte finale, si lascia prendere dalla tentazione del colpo di scena a effetto, ciò che resta davvero impresso è la costruzione del vuoto: di umanità, di futuro, di salvezza. Nessun diavolo arriva da fuori. Sono già tutti dentro.

Shakespeare, Sartre e l’eterno ritorno della colpa
Il titolo chiama in causa Shakespeare, ma l’opera guarda anche a Sartre: l’inferno non sono gli altri, l’inferno siamo noi, chiusi in una stanza senza finestre e senza redenzione. Tutti i diavoli sono qui non cerca di rendere affascinante la criminalità: la smonta, la spoglia, la riduce a un residuo tossico di solitudine, paura e disperazione.
Barnaby Roper, pur con qualche sbavatura, firma un’opera prima ambiziosa, sporca e affilata. Il vero colpo non è la rapina iniziale, ma la lenta erosione di ogni legame umano. Il film si chiude senza liberazione, perché non c’è nulla da salvare. Non è un noir elegante, non è un horror gotico. È una storia di uomini persi che scoprono, troppo tardi, di esserlo sempre stati.
E noi, spettatori, restiamo con una domanda addosso: se fossimo stati lì dentro anche noi, quanto ci avremmo messo a diventare come loro?
Filmografia
Tutti i diavoli sono qui
Giallo - USA 2025 - durata 87’
Titolo originale: All the Devils are Here
Regia: Barnaby Roper
Con Sam Claflin, Suki Waterhouse, Eddie Marsan, Burn Gorman, Rory Kinnear, Ben Dilloway
            


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