La prima cosa che mi è venuta in mente dopo aver guardato i due speciali di stand-up realizzati da Mohammed Amer (detto Mo) per Netflix – The Vagabond (2018) e Mohammed in Texas (2021) – non ha strettamente a che fare con la comicità, ma riguarda più che altro gli Stati Uniti d’America. In quale altro posto, infatti, a un palestinese richiedente asilo politico, a un rifugiato di guerra che è dovuto fuggire da bambino dal Kuwait per evitare di morire sotto i bombardamenti della prima Guerra del Golfo, a un arabo musulmano trasferitosi in un posto generalmente islamofobo a cui sono stati negati per più di vent’anni documenti e diritti di cittadinanza, in quale altro stramaledettisimo paese del mondo a un persona del genere sarebbe potuto venire in mente di dire “Ok: vista l’enorme precarietà della mia situazione ho deciso che da grande farò un lavoro stabile, sicuro e che prevede pochi spostamenti. Farò il comico stand-up”.

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The Vagabond

Solo gli Stati Uniti sono in grado di regalare quell’incoscienza superomistica – tenendo ben nascosti allo sguardo pio delle anime belle il mezzo milione di senzatetto, i due milioni di carcerati e i chissà quanti milioni di poveri finiti sotto un treno di oppioidi abbastanza infami da stendere un elefante –, quel fanatismo travestito da ottimismo incurante di qualsiasi tipo di realtà che non sia la migliore possibile; che poi è anche il loro più importante selling point culturale – quello diplomatico, invece, sono gli 801 miliardi di dollari di spese militari – e il motivo per cui tutti, chi prima chi poi, siamo stati innamorati di quel paese qui. Il posto dove i sogni si realizzano. E adesso gli unici rimasti a dare un’immagine realisticamente positiva degli Usa sono gli stessi a cui è stato messo ogni bastone in ogni ruota possibile nel loro percorso verso il successo o la realizzazione personale, e che quando raggiungono la condizione di avere una voce che riesce a farsi sentire, non dimenticano da dove sono arrivati e non le mandano a dire. Il modo in cui gli Stati Uniti vengono comunicati al e percepiti dal mondo si sta evolvendo a vista d’occhio già da qualche anno, si sta colorando di sfumature e di dettagli; e il lavoro di Mo Amer è uno degli esempi comici più illustri (anche per motivi biografici e contingenti) apparsi negli ultimi anni.

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The Vagabond

Il primo speciale, The Vagabond, è il coronamento di una lunga gavetta spesa in club – come al solito: rigorosamente fumosi – sparsi per tutto il paese e, più tardi e nonostante i problemi di documentazione, anche in giro per il mondo; ed è uno spettacolo che, fondamentalmente, punta ad andare molto sul sicuro. Amer sceglie la strada più sensata e più dritta, ovvero quella di prendere abbondantemente spunto dalla propria biografia, talmente bizzarra da essere valida e fertile ispirazione comica senza bisogno di strutture aggiuntive o particolari accorgimenti. Di più: per tutto lo spettacolo, il comico palestinese si affida largamente a stratagemmi di risata facile. L’esempio più lampante di tutti sono i numerosi accenti, anche se Amer ha uno spiccato talento nel riuscire a utilizzarli in maniera ideale, in modo da prendersi gioco di qualcuno senza scomodare banali stereotipi razzisti.

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The Vagabond

La parte facile sta nel fatto che Mo si immedesima (è) l’americano medio – di oggi, del 2022, non razzista e senza più la scusa di non essere abituato a gente che ha un colore della pelle diverso – che fa parte del suo pubblico, e quindi propone i suoi diversi accenti da quel punto di vista. Insomma, si coccola giustamente gli spettatori e li accomoda in poltrona nella maniera meno antagonistica possibile. Anche perché il senso dello spettacolo e di tutti gli sbattimenti della vita di Amer è precisamente quello: io sono americano, adesso (dopo 20 anni) finalmente lo dice anche il mio passaporto, non c’è nessuno che possa togliermi questo tipo di orgoglio e di senso di appartenenza. Sono uno di voi. Sono innocuo. E sono qui per mettervi il più possibile a vostro agio. Senza mentirvi o darvi un’immagine falsata o edulcorata della mia realtà, ma riservandomi spazio per l’omissione di qualche lato della medaglia più oscuro e scivoloso.

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Mohammed in Texas

Tre anni più tardi, il secondo spettacolo di Amer (Mohammed in Texas) si presenta sempre con la stessa, precisa impronta autobiografica; ma allo stesso tempo anche con un’evoluzione nel linguaggio che porta la stand-up del comico di origine araba in territori più rarefatti e meno faciloni. Già nella sequenza iniziale di questa routine, Amer si allontana dalle scelte più semplici cui aveva optato nello speciale precedente, avventurandosi in un dialogo fittizio con il governo federale americano il quale tenta di spiegare perché i fondi d’investimento vengono salvati da uno stato in debito mentre i privati cittadini sono stati costretti a casa dalla pandemia, senza stipendio, senza calmieramento delle spese vive e senza aiuti finanziari.

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Mohammed in Texas

Poi trova finalmente il tempo e il modo – finché non è arrivata la battuta non ne sentivo la mancanza, ma quando è apparsa ho capito che la stavo aspettando sin dall’inizio di The Vagabond – per scherzare anche sugli israeliani. Mohammed in Texas non è un testo più cattivo, gratuitamente provocatorio o fuori luogo rispetto allo speciale d’esordio di Mo. Ma è lo speciale di una persona che si sente man mano sempre più libera di potersi esprimere. Tanto da concludere lo spettacolo con con una postilla finale di una sincerità disarmante, che ti strappa il cuore rimanendo divertente e senza essere stucchevole né ricattatoria.



Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.