Qualche tempo fa, parlando di Bupkis - serie inedita in Italia che andrebbe recuperata - ci tenevo a presentare il suo deus ex machina Pete Davidson dicendo che è un tipo peculiare, uno che è diventato super famoso dal giorno alla notte dopo aver debuttato al Saturday Night Live a 20 anni, nel 2014, e che è stato adottato all’istante dal pubblico statunitense “perché è bravo, ha il carisma dello spacciatore simpatico, ha la faccia, l’incarnato e la tenuta fisica di uno di cui vorresti prenderti cura stile passerotto con la zampa rotta e soprattutto ha sempre tenuto in bella vista, su un vassoio, senza filtri e con ingenuità quasi invidiabile, la sua vita privata e il suo ego problematico e traumatizzato. Pete Davidson è il comico dei ventenni (ormai quasi trentenni) con un buon rapporto con gli psicofarmaci, che dice io, io, io ma senza incensarsi, bensì dandosi costantemente addosso. È, in buona sostanza, il Jerry Seinfeld di cui gli anni 2020 avevano bisogno”. Mi sento di confermare ogni singola parola anche dopo aver visto il suo ultimo speciale (disponibile su Netflix) Turbo Fonzarelli. Anzi. Davidson migliora ancora dal precedente monologo (Alive From New York del 2020) e fissa la sua estetica comica – sboccata, introspettiva e ombelicale – senza però chiarirci una cosa: perché Turbo Fonzarelli? Si sente di essere una versione extra e aggiornata di Fonzie, che le seduce sempre tutte senza sforzo nonostante l’intestino costantemente irritato, la passione per i sedativi da cavalli e più di uno squilibrio chimico al cervello? Non lo so. Ma la giacca siglata che indossa potrebbe effettivamente assomigliare all’interpretazione del chiodo di Fonzarelli scelta da un tardo millennial.

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Pete Davidson: Turbo Fonzarelli

In questo spettacolo l’estetica è estremamente curata. È un classico monologo di stand-up, non ci sono acrobazie registiche alla Bo Burnham o immensi video wall alla Hasan Minhaj. La scenografia e la messa in scena sono comunque minimali, ma ragionate. È uno show girato in bianco e nero, con un tappeto steso al centro del palco, uno sgabello nero con una bottiglietta d’acqua sopra, l’asta del microfono, occasionali inquadrature dal basso a un angolatura davvero particolare e prossima al performer e sullo sfondo alcune luci globulari, schermate dalle volute emesse da una macchina del fumo tenuta al minimo per tutto lo spettacolo. Vuole essere cool e memorabile. Apparecchia la tavola con ricercatezza ed eleganza , per poi stonare con la dissacrazione e le volgarità che gli escono di bocca quando mette alla berlina la propria sessualità – nel 2002, a Staten Island, nessuna donna era sexy come Leonardo DiCaprio all’epoca e a dieci anni pensava di essere innamorato di lui. Oggi riconosce che DiCaprio ha finalmente iniziato la sua trasformazione in Jack Nicholson – e quella della madre. Dopo aver esaurito il categorico intertempo sul suo rapporto con le droghe, Davidson parla della crisi di mezza età della mamma, 55enne single da quando il marito è morto nel crollo delle Torri Gemelle.

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Pete Davidson: Turbo Fonzarelli

Pete è in cerca di qualcuno di buono per lei – che sappia soddisfarla sessualmente senza robe troppo strane e che poi le proponga di vedere insieme Ballando con le stelle – e paragona gli organi genitali della madre agli interni di una Mustang del ‘68 con solo 3mila chilometri sul groppone. Il proprietario è morto giovane e il figlio l’ha tenuta in garage per 23 anni; meglio sbrigarsi a prenderla, altrimenti il ragazzo potrebbe pensare di tenerla per sé. Davidson ha sempre provato a fare il comico che osa e che tenta di spingersi laddove non si può; è sempre stata la sua cifra perché è il ruolo che si è scelto nel mondo dello spettacolo statunitense: l’adolescente problematico ma brillante che inventa storie matte per attirare l’attenzione. Dal suo stesso punto di vista un ragazzo mediocre – fisicamente, esteticamente e artisticamente – che è bravo a raccontare barzellette, a drogarsi e a mettersi insieme con donne famosissime. Prima è stato l’orfano adottato da tutti, ribelle ma fondamentalmente innocuo; anzi, mettendo in mostra le proprie insicurezze e i propri problemi psicologici e psichiatrici – senza risparmiarsi nel raccontare anche le relative terapie, sia mediche sia autarchiche – è diventato qualcosa di simile a un modello: un giovanotto traumatizzato che sta maturando in diretta tv. Oggi, da trentenne, continua a esplorare in pubblico lo stato in cui versa la sua e la nostra salute mentale. E continua a cercare attenzioni tentando di essere il più scabroso possibile, per poi scusarsi quando è convinto di aver proposto battute deboli o troppo crasse.

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Pete Davidson: Turbo Fonzarelli

Il lungo bit sulla sua stalker e sul conseguente processo legale è, apparentemente, un’altra scarica di umorismo fecale – giustificata, a livello comico, dal fatto di essere da sempre affetto dalla malattia di Crohn – per certi versi puerile, e provocatoria appena più di un bimbo di dieci anni che gira per il cortile della scuola urlando “merda, cazzo, stronzi, smegma” per attirare l’attenzione; ma è anche una parabola perfettamente calibrata che trasforma l’esperienza di una celebrità vittima di stalking in un rapporto romantico tossico, per esempio spiegando con perfetto senso logico perché regalare 20 paia di mutandine sgommate sia un gesto premuroso: “Un solo paio di mutandine fa schifo. È un insulto, un ‘Vaffanculo, beccati la mia merda’. Venti mutandine sono un crimine passionale”. Ci vogliono dedizione e disciplina per raccogliere tutte quelle mutande sporche. E questa premura, si immagina Davidson, potrebbe entrare sottopelle alla celebrità stalkerata. Potrebbe essere talmente lusinghiera da fargli venire le paranoie sui motivi per cui la sua stalker ha deciso di partecipare al processo da remoto. Alla fine quella stalker la condanneremo a sei mesi in una clinica di riabilitazione mentale. Ma così non è sicuro, dice il comico, quello è tipo il posto che frequento più regolarmente. E questo è tutto quello che so su Pete Davidson.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.