Quei cafoni degli americani, come loro solito, l’hanno fatta fuori dal vaso e sono scesi fin troppo nello specifico inventandosi il concetto di attronimo, ovvero di cognome che, fatalità, descrive anche il lavoro e il talento della persona che lo porta. Il grande regista ha un Bellocchio, l’ex capo della polizia si passa la mano sui Manganelli e l’artista dell’animazione ha appena finito il suo Bozzetto. Divertente. Però gli amici latini ci avevano già pensato illo tempore e senza limitarsi al solo mestiere. Loro dicevano che nomen omen, ovvero che il destino di una persona è inscritto nel suo nome. E se una persona viene battezzata come Eleazaro i casi possono essere solamente due: o lo trovi a predicare faccende mistiche per strada, mentre cerca di convincerti – rigorosamente a piedi nudi, ché in questi casi aumentano la credibilità – che la sua pettinatura non solo è voluta, ma è frutto di un miracolo: quei capelli in realtà erano caduti tutti, ma le divinità tricotiche hanno deciso di resuscitarne metà (quella inferiore) in attesa del giudizio universale parrucchiero che, in base a come ti sei comportato in vita, ti manderà o meno nel paradiso delle chiome folte; oppure lo trovi su un palco a fare monologhi comici sull’ironia di essere stato battezzato in quel modo lì nella Romagna degli anni ‘80 del ‘900, mica nella Galilea degli anni meno dieci prima dello zero.

Insomma, al signor Rossi è giustamente rimasto impresso il fatto che quando si presenta a un estraneo come Eleazaro venga praticamente sempre guardato come se avesse appena inculato la nonna dell’interlocutore, lasciandola di là ammanettata al termosifone. E questo dice già abbastanza sul suo modo di fare comicità – carismatico, sboccato, tecnicamente ben costruito, fantasioso, generosamente calcato sulla colloquialità vernacolare di certi colleghi americani, arrogante nel fottersene del giudizio altrui. Il comico originario di Forlimpopoli – che mai aveva pensato di farlo, quel mestiere lì, e si è esibito in pubblico per la prima volta solo a 35 anni in un open mic di un locale di Bologna – è uno di quei professionisti che incarnano una delle nature più ancestrali dello stand-up: il potere catartico di poter dire, nell’ambito di un palco situato in un locale rigorosamente fumoso, tutto quello che non si può dire nella vita normale perché ci sono i limiti sociali, la pudicizia, i bambini che ascoltano, le suore che passano, i tabù, i benpensanti che ti guardano molto male e via discorrendo. Però poi paghiamo volentieri qualcuno che abbia la faccia tosta di immaginare un rapporto anale gerontofilo con tanto di manette e radiatori, perché dall’alto del suo essere comico, Rossi sa creare il contesto giusto e dare il tono giusto alle battute che porta. Perché ricordiamolo ancora una volta tutti insieme: la comicità non si giudica estrapolando fuori contesto una battuta; e, soprattutto, su un palco di stand-up vale tutto.

Ve lo dice anche lo stesso Eleazaro – che, peraltro, di questi tempi è in tour con il suo nuovo spettacolo L’ora di religione – quando gli chiedono se si ponga dei limiti nella stesura dei suoi monologhi. E lui dice che sì e che no. Dice che un comico ha i limiti che si vuole porre e risponde al pubblico che si sceglie. E che i limiti che un comico decide di imporsi riguardando il comico e basta, non il pubblico. Quello che Rossi sta dicendo, secondo me, è che se sei un essere umano abbastanza immeritevole da aver voglia di fare comicità essendo seriamente razzista, sessista, omofobo, antisemita o transfobico: fai pure, nessuno te lo impedisce. In cambio, però, avrai il pubblico di decerebrati che ti meriti e il giudizio altrui che ne consegue.

Ma mettere tutta la cosiddetta comicità nello stesso mazzo – un Eleazaro Rossi che costruisce un bit complesso (e nel suo complesso sensato) sulle abluzioni alla vagina della figlia neonata, insieme a un Angelo Duro che chiama la compagna “Quella femmina là” – è sciocco, fuorviante e manicheo. In fondo non siamo in chiesa ed è anche giusto che la morale venga fatta da un’altra parte. Da questo punto di vista, Rossi ricorda molto da vicino un comico come Louis C. K. Non solo per la risata – è inquietante da quanto sono uguali identici quando ridacchiano, sembra di stare in una puntata di Ai confini della realtà. Ma soprattutto per la costruzione complessa dei loro bit e perché condividono la gioia fanciullesca (o più specificamente adolescenziale) di essere divertenti dicendo ogni volta – e con un tono pacato e mellifluo – la cosa più disgustosa possibile. Per poi ridacchiare all’idea di aver formulato davanti a tutta quella gente una battuta così “““proibita”””, tra molte virgolette perché abbiamo già appurato che non c’è niente di intrinsecamente proibito su un palco di stand-up. Esiste solo un modo giusto o sbagliato per costruire una battuta e performarla. Eleazaro Rossi è uno di quelli che ha trovato il modo giusto.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.