È appena finita la seconda stagione di LOL - Chi ride è fuori, che esattamente come la prima ha avuto come pregio migliore quello di esistere e di produrre una manciata di meme per il sollazzo di quelli che usano i social (e in generale l’internet) con una sana e leggera dose di distacco umoristico. La formula di LOL funziona soprattutto per estrazione, isolando lampi di comicità da un contesto che, essendo così peculiare, gli spettatori già conoscono.

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LOL - Chi ride è fuori

È un programma meno divertente, invece, da guardare nella sua interezza; perché, senza l’aiuto del super-montaggio da clip social, emerge tutta la disperazione di concorrenti costretti (per stipulazione) a essere divertenti ogni singola volta che si muovono o aprono bocca. Ed è un’impresa impossibile per un essere umano normodotato, quella di far ridere semplicemente essendo; quindi succede che si ricorre allo stratagemma, al repertorio, all’esperienza, al mestiere e, soprattutto, all’arma a doppio taglio più pericolosa nell’arsenale di un comico: il tormentone.

Per usare la definizione sintetica da accademici semiotici formulata da Umberto Eco all’inizio degli anni 80, il tormentone è «Il ritorno dell’identico». Sono ripetizioni più o meno insistite – di solito di tipo testuale, ma non solo: pensiamo a ritornelli, jingle, suoni isolati o ai già menzionati meme – che, se ben utilizzate, possono non solo aiutare la comprensione e la navigazione del pubblico, ma finiscono anche con l’assumere qualità estetiche, stilistiche e di poetica autoriale che lo spettatore si aspetta e accoglie con piacere.

Questo è quello che succede in un vuoto pneumatico da laboratorio, in condizioni contestuali ideali e quando l’utilizzatore del tormentone ha la consapevolezza e la grazia per sfruttare uno strumento così prepotente nel modo giusto. Il che non capita quasi mai, ed è esattamente il motivo per cui il personaggio di Nando Martellone in Boris – comico disperato che basa il suo successo su due tormentoni in croce, volgari e appena meno strutturati di quelli in voga all’apice di Colorado Café – è così azzeccato e memorabile.

Dunque il tormentone è complicato da usare, tenendo fede alla parola latina da cui deriva e che ingrossa, tormentum. Un grosso tormento, derivato a sua volta da torquēre, ovvero “torcere”, che andava anche a indicare una particolare forma di tortura. E non ci poteva davvero essere radice latina più azzeccata per uno strumento che, quando scappa di mano a comici poco preparati, pigri o costretti a scendere a compromessi televisivi, smette all’istante di essere apparecchio comico e diventa oggetto contundente da sbattere forte sulle povere rotule degli spettatori.

La morale della favola è: se sei un comico e hai necessità di lanciarti sul mercato sottostante dei tormentoni, sappi che quasi sicuramente avrai cinque minuti di gloria e poi finirai nel dimenticatoio del fastidio. Oppure, in alternativa, hai già la rara fortuna di essere un genio comico dal carisma strabordante come Corrado Guzzanti, luminosissimo faro nella nebbia della seconda stagione di LOL, e il concetto di tormentone l’hai addomesticato da più o meno trent’anni senza neanche centellinarlo – ai bei tempi della Rai, insieme a Dandini, Guzzanti andava in onda una volta a settimana – riuscendo miracolosamente a non farne mai un pessimo uso. Anzi. Elevandolo a forma d’arte, a modus comico che comunica (più spesso che no) qualcosa, laddove tutti gli altri tormentoni hanno come caratteristica principale quella di perdere il loro significato letterale (o qualsiasi altro significato) dopo la prima ripetizione.

In trent’anni abbondanti di carriera – e con una netta predilezione per gli anni 90, terreno fertile per il varietà comico televisivo popolato di programmi come Scusate l’interruzione, Avanzi, Tunnel, Pippo Chennedy Show, La posta del cuore, L’ottavo nano – Guzzanti ha creato un quantità di personaggi memorabili che (per i colleghi) ha quasi dell’imbarazzante. Non solo imitazioni azzeccate come poche altre, e anche loro provviste dei tormentoni del caso – il «Damme ‘a quattro. Stringolo. Zumma» di Funari, Venditti che canta il Grande raccordo anulare, Bossi Hannibal Lecter, la coprolalia con rotacismo di Tremonti, Rutelli che implora Berlusconi, Ghezzi fuori sincrono.

Ma anche, e soprattutto, personaggi originali, macchiette estranee alla tradizione comica italiana – il poeta Brunello Robertetti, l’annunciatrice Vulvia, il cinico Don Pizzarro, l’adolescente Lorenzo, il guru Quelo, il presentatore Pippo Chennedy – ognuna delle quali armata del proprio tormentone per renderne le apparizioni ripetibili ad libitum e riconoscibili. Guzzanti è l’unico comico, sicuramente in Italia, che più appare, più ci tormenta con i suoi cavalli di battaglia, più insiste con le sue creazioni, e più fa venire voglia di averne ancora. Per vedere con quale nuova accezione riuscirà a riformulare i suoi tormentoni, per godere del suo mimetismo da guitto timido, per ammirare l’istinto comico di un artista che inventa qualcosa di unico anche quando ripete fino allo sfinimento una formula vecchia di 30 anni.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.