Domenica 27 marzo si è ripresentata, puntuale come le tasse e l’acidità di stomaco una volta passati i 35, una faccenda che si ripete ogni anno e che finisce sempre con il far arrabbiare, più giustamente che no, una buona fetta di umanità. E anche se calza a pennello con la descrizione: no, non stiamo parlando della maledettissima ora legale – adesso ne discutiamo però, le dedichiamo almeno un inciso avvelenato, perché bisogna finirla di togliere 60 minuti di sonno alla gente che lavora per colpa del culo pesante di chi si scoccia a svegliarsi alle 6 antimeridiane invece che alle 7 antimeridiane, aveva ragione Benjamin Franklin a proporre di mettere i cannoni in strada per svegliare la gente all’alba e gli appassionati di ora legale andassero a zappare la terra per vedere quanto gliene frega al gallo di quello che c’è scritto sul loro smartphone.
Dicevamo.
L’altra faccenda importante della giornata di domenica e che solitamente scontenta tanti, lascia indifferenti molti e soddisfa pienamente solo alcune strane forme di feticismo è la nottata degli Oscar. Un evento in cui se tutto va bene, succede la noia benvestita e ancor meglio acconciata; se tutto va male, invece, succede Moonlight.

Eppure, a parte le ultime tre edizioni passate a fare polemica su tweet vecchi 15 anni e a patire gli effetti di una pandemia globale, la serata degli Oscar e i suoi presentatori ormai rappresentano una tradizione consolidata; oltre ad aver creato un genere televisivo a sé stante, che per decenni si è nutrito del talento dei migliori comici in circolazione. Sembra di sentirla, la signora Hollywood, che si guarda allo specchio e si dice «Forse con gli Oscar e i Golden Globes e gli Emmy e i Grammy e i Tony ho un po’ esagerato con la masturbazione in pubblico. Meglio chiamare una persona buffa che presenti questi premi e si prenda un po’ gioco di tutto questo pomposo autocompiacimento».

Bob Hope
Eravamo sette fratelli (1955) Bob Hope

Il babbo di questo genere peculiare – chiamiamolo “Pagare qualcuno per farsi sbertucciare di persona e in diretta mondiale, tanto non cambia il fatto che rimaniamo i più ricchi, i più belli e i più famosi di tutti” – è stato Bob Hope, vero e proprio sultano a tutto tondo dell’industria dell’intrattenimento degli albori, pioniere del linguaggio brillante radiofonico e televisivo americano. C’è stato anche molto cinema, nella sua carriera bulimica, ma niente di particolarmente memorabile nonostante alcuni grandi successi al botteghino.

Bob Hope aveva un’ottima faccia da schiaffi e una schiera di autori ben pagati che riempivano le sue routine di battute fulminanti, barzellette, giochi di parole, prese in giro: insomma, quantità piuttosto che qualità a tutti i costi. Una filosofia di vita in generale, visto che Hope ha presentato gli Oscar 19 (diciannove) volte tra il 1940 e il 1978. Quasi come Pippo Baudo.

Dai tempi di Bob Hope, il sottogenere della Serata dei premi è rimasto praticamente inalterato nella struttura. Sono cambiate le persone che ci hanno messo mano, però. E si sono moltiplicate le occasioni, creando una sorta di mitologia, di competizione interna e di albero genealogico del genere. Negli anni si è anche scoperto che presentare un evento pieno di statuette non è faccenda per tutti. Alcuni comici enormi hanno fallito in maniera spettacolare in quelle circostanze, venendo accolti con imbarazzanti silenzi da un pubblico di narcisisti reso particolarmente suscettibile da chissà quale mix di psicofarmaci.

Chevy Chase



e David Letterman


sono fra i casi più clamorosi e memorabili, vista soprattutto la statura comica dei due presentatori.

Un altro che è finito nel tritacarne è stato Seth MacFarlane, ma nel suo caso si può dire con discreta certezza che c’è stato un grosso errore di valutazione nell’affidargli il compito: il suo senso dell’umorismo (cacca pupù tette scuregge) non è particolarmente adatto a ciò che la nobiltà hollywoodiana pensa di se stessa.



La svolta definitiva per il genere, l’idea geniale che lo ha portato a essere costantemente degno di nota, è arrivata dai Golden Globes. Che pare anche una cosa controversa da dire, fare l’elogio dei Golden Globes, visto che a quanto pare questi premi qui sono sempre stati un covo di mafiosi corrotti massoni e antipatici. Però hanno avuto quest’intuizione brillante che nessuno potrà mai togliere loro: hanno introdotto l’alcol nelle serate di premiazione, incentivando le sbronze degli spettatori in sala e dei presentatori, e di conseguenza rendendo tutto molto più divertente.

È stato un cambio di paradigma fondamentale, che ha alleggerito eventi la cui intrinseca pesantezza da autoreferenzialità vive serena e intatta anche senza ulteriori formalismi e piaggerie da parte del presentatore.

Il grimaldello di questa nuova era degli Award Show è stato Ricky Gervais,



non a caso un outsider di Hollywood e, in generale, uno a cui credi ciecamente quando ti dice che non gliene frega un cazzo di nulla ed è lì solo per fare il suo mestiere, far ridere la gente a casa e portarsi a casa un assegno sproporzionato.

Dal 2009, la prima edizione dei Golden Globes presentata da Gervais, è partita ufficialmente la gara al presentatore che regala il momento più memorabile, o il set più divertente.

Dal selfie di Ellen DeGeneres


al monologo di Chris Rock del 2016



per quanto riguarda gli Oscar, a cui va aggiunta la svolta hipster dei Film Independent Spirit Awards (i cui campioni sono stati Nick Kroll



e John Mulaney).



Anche se la migliore di tutte rimarrà per molto tempo la premiata coppia Amy Poehler e Tina Fey.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.