Vi siete mai fermati a pensare, anche solo per un breve momento potenzialmente da rimpiangere, alla vita di merda che fanno i poveri influencer? Solo sotto certi aspetti, ci mancherebbe. Nessuno li ha costretti e certamente non stanno in miniera: lungi da me alimentare l’eventuale piagnisteo di gente giovane, bella, ricca, in gamba, popolare e sempre perfettamente rasata anche nei posti che non ti aspetti. Però che vita di merda, dai. Tra pressioni, aspettative, ambizioni, concorrenza spietata, commenti malevoli, bisogno di inventarsi ogni giorno una nuova acrobazia o un nuovo comando tipo i cani: tutta questa perpetua incessante necessità di offrire se stessi come prodotto – in un mercato umano che ha la memoria di un pesce rosso con scarse risorse cognitive – alla lunga diventa parossistico e a volte inquietante. Quindi ci pensate mai a quanto assurdo dev’essere stato trascorrere gli anni formativi più fondamentali in un periodo in cui anche Topolin faticava a credere che i mille e mille sogni di un bambin prevedessero di diventare celebri e benestanti esponendosi al pubblico ludibrio?

Perfettamente in linea con il mezzo e con l’epoca che prima lo hanno cresciuto e poi gli hanno dato visibilità e opportunità, lo youtuber classe 1992 Trevor Wallace inaugura il suo primo speciale – Pterodactyl, disponibile su Prime Video – con uno sketch in cui, grazie a un po’ di green screen, infila i camei di se stesso e dei suoi soci nei panni dei diversi personaggi protagonisti dei video che lo hanno reso celebre e virale sull’interwebz. Spesso, ai millennial e specialmente a quelli come Wallace nati dopo gli anni 90, è stato imputato di essere la generazione dell’io io io, dell’ammiratemi, del guarda mamma senza mani; sono quelle persone, per l’appunto, che sono cresciute con il sogno di diventare ricchə influencer su YouTube o Instagram, pagatə per essere creatori di contenuti, per sponsorizzare roba sfruttando la fiducia di persone che accettano di farsi manipolare e per creare e mantenere una persona social che non potrà mai spegnersi né fermarsi, pena l’oblio. È una vita complicata, quella dei tardi millennial. È una vita piena di tare terribilmente vane, di insicurezze affrontate nudi di fronte a un pubblico con la bava alla bocca, che ricorda da vicino delle feste di piazza con la ghigliottina in mezzo: in un contesto di benessere e salute, mi sembra che questo sia uno dei modi più stressanti di formarsi come persona. E la comicità di Wallace rispecchia, consapevolmente, tutto questo vissuto generazionale.

Per assicurarsi il favore del pubblico, Wallace apre furbescamente con una battuta che sembra fatta e finita, ma è in realtà una preparazione mascherata – sotto forma di ingiuria ai peggiori stereotipi sui texani bifolchi, ignoranti e chiassosi – a cui collega una punchline a sorpresa che invece rigira l’insulto verso il comico stesso. La fa spesso, di ribaltare la battuta per sminuirsi doppiamente, e gli riesce sempre bene. Anche quando tira fuori un lungo bit dove esaurisce quasi ogni battuta di scherno possibile sul suo prominente naso aquilino e sulle scemenze che si inventano i nasoni pur di non accettare di essere nasoni. Vincendo lo stereotipo sul karma che ricompensa i nasuti muniti di pene con altrettanta abbondanza laddove la puzza si annida, Wallace si prende abbondantemente per il culo sminuendosi anche il pisello, che è come il cavo per la ricarica dell’iPhone: lungo abbastanza per fare il suo mestiere, ma comunque non sarebbe male se avesse quella manciata di centimetri in più per farlo arrivare al letto.

Al contrario di Matt Rife, di tre anni più giovane e già fra i primi a malgiudicare l’utilizzo tossico dei social media costruendo con essi un rapporto distaccato e utilitaristico, Wallace si definisce senza problemi, quasi en passant, un influencer. Con naturalezza, oltre che con orgoglio. Iniziare il set vero e proprio con un bit sugli amish è un modo grandioso per attaccare in coda un discorso sulle idiosincrasie della sua generazione, che se vivesse senza elettricità (come gli amish) andrebbe fuori di testa nel giro di poche ore (“It gets dark quick, you know”). Senza telefono devi mostrare il vero te stesso. Devi essere in grado di “fare lo spelling di pterodactyl senza usare Siri”. Parliamo delle prime persone nate (nel primo mondo) con un accesso totale ed economico a un universo digitale ricco di stimoli e possibilità. Sono quelli più in grado di comprendere i giovanissimi, che se devono mimare una telefonata mettono all’orecchio il palmo della mano aperta e il simbolo della cornetta lo associano, forse, ai surfer.

Wallace, dunque, naviga fra le proprie insicurezze e quelle di una generazione esibizionista e stressata dall’onnipresente giudizio dei pari. Lo fa portando sul palco un personaggio adolescenziale, volgare, ma anche tenero. È il piccoletto della compagnia che fa il grosso; ma non lo fa con rabbia, astioso con la genetica che gli ha concesso 1 metro e 60 di ossa e nervi, bensì con consapevolezza e senso dell’umorismo. Se ti atteggi a volgare e aggressivo con l’energia e il linguaggio del corpo di unə che potrebbe essere presə a schiavi da una bambina di quinta elementare di media statura, la scena è immediatamente ridicola. Quindi, nel suo monologo denso di rilevanza generazionale, si inseriscono bene anche battutacce cameratesche, che comunque riescono sempre a raccontare qualcosa sui trentenni di oggi. Un esempio su tutti, su cui riflettere in sinodo per migliorare l’ansia che circonda il sesso: “Farsi una sega prima di andare a un primo appuntamento è come vincere la lotteria andando a un colloquio di lavoro”.

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Trevor Wallace: Pterodactyl

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.