Le ragioni pragmatiche, relative alla realpolitik di una carriera nell’industria dello spettacolo, per cui un comico fa stand-up in America sono fondamentalmente due: per sbarcare il lunario macinando spettacoli ovunque guadagnando due spicci rigorosamente in nero nella speranza di essere abbastanza bravə da venire notati da qualcuno che lavora a Comedy Central; oppure per incassare in maniera esagerata, tra biglietti e diritti televisivi, cavalcando una fama raggiunta in tv, al cinema o sul web. Lo stand-up è la media sulla retta dello spaziotempo di un comico, un luogo a cui un performer può arrivare partendo da zero, o facendo la strada inversa e partendo da 100.

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Hasan Minhaj

Hasan Minhaj è un comico che, come la stragrande maggioranza dei colleghi, si è fatto la sua gavetta giovanile nei locali (avete indovinato: fumosi) per poi, ventenne o poco più, cominciare la scalata televisiva: programmi sciocchi su MTV (Disaster Date), piccoli ruoli in sitcom inedite in Italia (State of Georgia) e, nel 2014, la svolta dell’assunzione al The Daily Show, talk di satira sotto forma di finta redazione giornalistica, portato al successo (come conduttore e autore principale) da Jon Stewart, ereditato poi da Trevor Noah, e responsabile del lancio di innumerevoli carriere luminose (Stephen Colbert, Steve Carell, John Oliver, Ronny Chieng, Samantha Bee, Josh Gad, Ed Helms, Olivia Munn).

Nel 2018, poi, Minhaj si mette in proprio. Grazie a un accordo con Netflix, ottiene una serie tutta sua (Patriota indesiderato), che sfrutta la lezione di Stewart e Oliver (si può essere comici e, contemporaneamente, fare giornalismo di inchiesta) aggiornandola a un linguaggio e a tematiche più giovanili, più adatta al vernacolo della rete e più attenta a tutto ciò che è di tendenza sui social usati dalla gente ganza (mica Facebook). Diventato famoso – abbastanza da essere invitato a presentare la celebre Cena dei corrispondenti alla Casa Bianca alla presenza del Presidente – e arrivato fin quasi al 100 di cui sopra, Minhaj è finalmente pronto per tornare indietro sulla retta e mettersi seriamente alla prova con lo stand-up. Arriva al genere all’apice della propria celebrità. Scrive e produce, sempre per Netflix, Homecoming King, sicuramente fra i migliori speciali comici usciti a cavallo fra il 2017 e il 2018.

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Hasan Minhaj

Lo stile di stand-up di Minhaj si rivela sorprendente e peculiare: ha una forma ben compiuta (è un racconto, non una collezione di battute), cerca di essere il meno mono-tono possibile (accelerando e rallentando alla bisogna, recitando e dando colore e sentimento), sfrutta l’ausilio di immagini proiettate su uno schermo alle sue spalle (la “PowerPoint comedy”, come la definisce lui stesso) ed è profondamente autobiografico (e/o totalmente egoriferito, a seconda del punto di vista che si vuole assumere). In Homecoming King, Minhaj non si allontana mai troppo dal racconto comico e dettagliato della sua vita e della sua esperienza come figlio di immigrati indiani – laddove altrove (Patriota indesiderato), invece, ha avuto estremo successo rivolgendo la propria comicità quasi esclusivamente verso l’osservazione politica e sociale al di fuori di se stesso e della sua esperienza.

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Hasan Minhaj

In questo suo secondo speciale – appena pubblicato (ancora una volta da Netflix) e chiamato The King’s Jester (Il giullare del re), ribadendo il suo status (ironico) di Re e dichiarando fin dal titolo che siamo di fronte a un prosieguo ideale di Homecoming King – il comico californiano di origine indiana-musulmana prosegue nel racconto comico della sua vita, arrivata in una nuova fase. Dopo aver messo alla berlina la famiglia che lo ha generato, Minhaj mette in piazza (e in battuta) le tribolazioni che lo hanno portato a generare la sua di famiglia. Confessa la diagnosi di sterilità che ha dovuto subire da un dottore amico di famiglia – un cialtrone di nome Arjun che da ragazzino era stupido in culo ma poi è stato costretto dai genitori a finire medicina in qualche modo – e la possibilità di farsi operare per avere la speranza di tornare a produrre piccoli soldatini fertili. Lui e la moglie hanno anche pensato di adottare. E di scegliere un bimbo bianco. Solo per poter flexare con noi stronzi musi pallidi ed essere esaltati dalla comunità asiatica come degli Angelina Jolie al contrario.
Sin dai tempi del The Daily Show, Minhaj ha sempre avuto una voce comica molto ben definita, caratterizzata da un linguaggio molto specifico – quello di un Desi millennial appartenente a una medio-alta borghesia radical chic ultra-liberale che è fiera, consapevole e orgogliosa di essere tale – e da un immaginario altrettanto preciso, che varia dalle sneakers da collezione al punzecchiamento sportivo di dittatori. Una voce comica ben definita che il suo pubblico conosce bene, tanto da bersi quasi in delirio ogni singola parola; con Minhaj che a più riprese lo manipola interpolando al racconto comico momenti molto intensi (intensamente recitati) e seri, riuscendo a tenere in mano l’attenzione dello spettatore senza perdere tensione brillante. Anzi. Più spesso che no il momento intenso costituisce la preparazione a una punchline.

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Hasan Minhaj

The King’s Jester è anche uno spettacolo con un tema, quello evidenziato nel titolo: tutti, potenti o meno, sono esposti al ridicolo e ne escono (ne dovrebbero uscire) nella stessa maniera, con le ossa rotte ma sportivamente. Minhaj racconta approfonditamente il processo (dapprima stimolato dall’autodifesa e dall’istinto di sopravvivenza) che lo ha portato a fare satira, a prendersela con i forti. Confessa con grande onestà di essere rimasto fedele a quella strada comica anche per hybris, inebriato dalla celebrità che gli è arrivata dall’essere stato dichiarato persona non grata in Arabia Saudita in seguito a una puntata di Patriota indesiderato dedicata all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.

Nel pre-finale Minhaj sterza ancora, entrando anche in territorio metanarrativo, quando rivela sotto forma di battuta (perfettamente integrata nella parabola della storia che sta raccontando) quello che vuole fare con la sua comicità: ha la fiducia di rivolgersi a persone intelligenti che sappiano discernere quando parla sul serio e quando fa satira, senza timore che qualche matto appassionato di dittatori metta in pericolo la sua famiglia perché si è indignato per una battuta. Perché la fiducia nel genere umano, come si suol dire, ha fatto anche cose buone.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.