«”Il tuo punto di vista è terribile”. Lo so, è così che mi guadagno da vivere: dico cose fuori di testa che tu non hai il tempo di pensare. Tutto qui»

Joe Rogan


Non è del tutto giusto però. Il vero momento buono per parlare di Joe Rogan – fossimo dei barbari cafoni appassionati di clickbait e di Pata Negra sulla pizza – sarebbe stato più o meno sei mesi fa, quando una manciata di musicisti famosi (con in testa Neil Young e Joni Mitchell) entrarono platealmente in sciopero Spotify, ritirando le proprie canzoni dal più importante servizio di streaming musicale sul mercato – una realtà per certi versi quasi monopolistica, quindi essenziale ai guadagni di artista meno enormi rispetto a Neil Young e Joni Mitchell. Il boicottaggio – da approfondire in questo articolo del Corriere saggiamente sottotitolato “Il clamoroso ritiro da Spotify di Neil Young e JONI MITCHETT” – nasceva come forma di protesta nei confronti dei contenuti proposti dal podcast più seguito al mondo, il Joe Rogan Experience, placcato d’oro zecchino da Spotify nel 2020 con la firma di un contratto esclusivo dal modico valore di 4 miliardi di pesos messicani – più o meno 200 milioni di dollari.

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Joe Rogan

Neil Old, John Mitchum e tutti gli altri musicisti che si sono uniti alla protesta, contestano a Joe Rogan e al suo podcast l’utilizzo di ospiti dalle posizioni controverse. Ovvero: in un clima più sereno era accettabile sentire Rogan fumare obici di marijuana lunghi mezzo metro mentre conversava con il matto di turno a proposito di alieni, negazionismo del cambiamento climatico, l’acqua del rubinetto che fa diventare le rane gay e gli illuminati che comandano il mondo come fate a non vederlo hanno pure messo la piramide con l’occhio sulla banconote PROVATE A CHIEDERE A DRAGHI DI ASTANA. In clima di pandemia, invece, per molti era già più complicato tollerare che Rogan desse spazio ad anti-vaccinisti, complottari del Covid e altra gente con posizioni oggettivamente impresentabili e, al peggio, dannose – laddove prima erano solamente buffe e/o curiose, per quanto disagevoli.

Rogan, che è autarchico e tendenzialmente anarchico ma, così almeno sembrerebbe, non particolarmente stronzo, si è fatto terrorizzare da un probabile ultimatum di Spotify ha riveduto la propria politica sugli ospiti del podcast, e ha promesso – senza scusarsi per una scelta editoriale che era libero di fare – di «cercare maggiore equilibrio» nei contenuti del suo Experience. Tanto è bastato, per esempio, a far tornare su Spotify le canzoni di Crosby, Stills & Nash. Ecco, tutto questo è molto utile per raccontarvi chi è Joe Rogan: una specie di Leonardo da Vinci dell’intrattenimento muscolare; un da Vinci che però si è spappolato il cervello con gli steroidi e adesso fuma cannoni con Elon Musk e litiga non tanto con tutti quelli che hanno idee idiote, quanto con tutti quelli che espongono le proprie idee con idiozia. Lascia perdere le ideologie, il posizionamento politico, i complottismi bizzarri. A Rogan non importa. A lui, come a tutti gli stand-up comedian – perché Rogan, prima di essere podcaster, è soprattutto un comico, oltre a essere attore (più o meno), commentatore sportivo (di arti marziali miste) e conduttore tv – piace creare, attraverso un dibattito (non importa che sia interno o esterno) quella frizione retorica che, insieme all’osservazione, è l’arma creativa più importante per fare comicità.

Se riuscite a guardare fino alla fine questo scontro fra matti vi arriva una coccarda a casa.

Rogan è un tizio interessante. Facile da odiare, impossibile da incasellare. È un muscolini super palestrato il cui corpo è un tempio, ma con il Jameson come acqua santa e la marijuana come incenso. È uno che caccia le sue prede ma è a favore del controllo delle armi; che malgiudica Trump ma si fa trascinare con sincero entusiasmo in complottismi su nuovi ordini mondiali e altre follie. È il protagonista di un action anni ‘80 interpretato da Bruce Willis aggiornato ai nostri tempi e scagliato nel mondo reale; è il figlio di Hulk Hogan e di un’hippie, e porta nel cuore la speranza di un pronto ritorno al Far West e alla legge della giungla. Come comico – ma in generale come personalità, viste le polemiche sollevate dal suo podcast – Rogan è consapevolmente e orgogliosamente anacronistico e, soprattutto, polemico: in perenne e divertita antitesi con le idiosincrasie del movimento woke. L’ultimo speciale di stand-up che ha realizzato (nel 2018, si intitola Strange Times e si trova su Netflix) prende in giro i gatti vegani, l’utilizzo anni ‘90 dell’aggettivo “gay” in contesti diversi dall’orientamento sessuale, il sessismo nei confronti degli uomini, il ritorno di Gesù, gli attivisti per i diritti dei maschi. È un monologo ben architettato, a tratti urlato, ma cesellato da un comico esperto e consapevole della china scivolosa inseguita dai suoi argomenti. Può esserci molto da eccepire, ma non c’è niente da censurare nei contenuti di Rogan.

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Joe Rogan

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.