Tutto dentro quella casa

Abbandoniamo una buona volta le trappole dell’elevated horror, dentro le quali Weapons sembra nascere. Zach Cregger non ha la “pasta” di Jordan Peele, tuttavia le sue ambizioni, quantunque non così teoriche, sono pressoché equivalenti. L’horror per lui è qualcosa su cui lavorare, non un semplice pretesto. Probabilmente non si fida del genere in sé e per sé, pensando che un intervento autoriale faccia la differenza, e questo, si sa, è abitualmente un grave errore.

Ma c’è un ma. Se pecca per eccesso, nello stesso tempo conduce a una visione dell’horror che è insieme immodesta e costruttiva. Mai sterile. Sbanda, si dilunga, irrita (specialmente nell’insistenza nella “descrizione” del personaggio, una cosa che piace molto alla critica americana, guarda caso quella che l’elevated horror l’ha inventato), eppure a conti fatti il mosaico ha un suo motivo, non tanto dal punto di vista socio-culturale (a partire dal significato simbolico del titolo, “armi”, francamente pleonastico), bensì proprio in una prospettiva di genere.

E allora la storia di Maybrook, in Pennsylvania, dove 17 bambini appartenenti alla stessa classe scompaiono alle 2.17, senza apparente ragione, creando paranoia e sospetti, diventa più di tutto la picchiata irresponsabile (e l’irresponsabilità è un valore) in un immaginario centenario, dove dentro la medesima “abitazione” (una casa nera, come quella di Craven) coabitano paure ancestrali e famigliari, folk horror, ironia (qualcuno ricorda Pranzo misterioso?), gore e cento altre cose: la mappatura è caotica, ma le idee (alcune geniali e commoventi, come il bimbo costretto a imboccare i genitori con la Tomato Soup della Campbell’s) vincono.

Il film