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In Serie (71): "Katla" (2021, stag. 1) e un po' di cinema iperboreale.
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In Serie (71): "Katla" (2021, stag. 1) e un po' di cinema iperboreale.

Il Katla, vulcano sub-glaciale del sud dell'Islanda la cui caldera è interamente ricoperta dal ghiacciaio Mýrdalsjökull (in alcuni punti spesso anche più di mezzo chilometro), erutta [producendo, oltre a nubi di ceneri piroclastiche, le jökulhlaup, possenti e travolgenti (aka: tremende/terrificanti) inondazioni a fiumara di acqua fangosa] mediamente due volte al secolo, ma sono oramai 103 anni che tace quieto, ed è il periodo di «riposo» maggiore in quasi un millennio di fenomeni documentati con sufficiente attendibilità, un margine di tempo adeguato per distanziare la modernità dal mito, la contemporaneità dall’arcaico ancestrale e la scienza dal folclore: non che nel qui - pur un po’ fuori dal mondo - ed oggi della modernità l’impossibilità scientifica sembri essere «respinta» né «analizzata/studiata» con lo scetticismo e il metodo sperimentale che l’occasione, con le conoscenze acquisite nel frattempo, richiederebbe: l’unico carattere che sembra voler scoprire realmente la natura dei ritorna(n)ti è Gríma (una molto brava Guðrún Ýr Eyfjörð, totale esordiente), ché persino l’unico personaggio-ricercatore (geologo) vero e proprio, Darri (Björn Thors), più che indagare il problema vuole… eliminarlo alla radice: c’è solo una scena che tenta di affrontare il mistero dal PdV scientifico (e, tanto di partenza quanto di conseguenza, filosofico*), ma - e quindi no, se pur in presenza di un meteorite, non siamo dalle parti del Peter Høeg di «il Senso di Smilla per la Neve» - è banalmente realizzata ed utilizzata, buttata lì e ai fini della progressione del racconto sostanzialmente inutile (e il cliffhanger di serie sul finale di stagione è altrettanto abusato, convenzionale e pedestre).

 

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Katla (2021): scena

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Katla (2021): scena

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Katla (2021): scena

 

** Se accetti il fatto che sia impossibile che quello sia tuo figlio (o figlia, o sorella, o madre, o moglie, o amante), allora rimane solo una possibilità… altrettanto impossibile: un artefatto - sostituto e/o doppelganger - biologico. Ed ecco che, di conseguenza, s’è dunque possibile l’impossibile… ritorna la possibilità che quello potrebbe anche essere proprio tuo figlio.

 

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Katla (2021): scena

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Katla (2021): scena

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Katla (2021): scena

 

Baltasar Kormákur («Everest»), il creatore, showrunner-sceneggiatore (con Sigurjón Kjartansson: avevano già lavorato insieme per «Trapped») e regista (con Börkur Sigþórsson e Thora Hilmarsdottir) della serie co-prodotta e distribuita da Netflix, sorvola l’Europa come fecero nel 2010 le nubi di ceneri piroclastiche dell’Eyjafjallajökull (vicino del Katla) e raccatta di volta in volta suggestioni cinematografiche continentali «Álpeis» (GRE, Yorgos Lanthimos, 2011), «the Revenants» (FRA, 2 stag., 2012-’15), «Dark» (GER, 3 stag., 2017-’20), «the Third Day» (UK, 1 stag., 2010), «Curon» (ITA, 1 stag., 2010), e scomodando con molta prudenza ed attenzione la Russia di «Solaris» (Stanislaw Lem, 1961, e Andrej Tarkovskij, 1972), che tuttavia rimane sostanzialmente il paragone più pertinente dal PdV psico-filosofico* e tecno-scientifico senza però saperle amalgamare e reinventare in un discorso attraente che sia in grado e capace di non appoggiarsi reiteratamente con stolida continuità alle codificate scelte narrative appartenenti al sotto-genere sovradescritto: ad esempio, i comportamenti sconclusionati in circostanze eccezionali non si autogiustufucano [nonostante l'a tratti ottimo cast, completato da Íris Tanja Flygenring (Ása, la sorella di Gríma), Ingvar Sigurdsson (il loro padre; "Everest", "Trapped" e il prossimo "the NorthMan" di Dave Eggers e Sjón), Þorsteinn Bachmann (lo sceriffo), etc...] di per loro: se sono assurdi, ridicoli, imbarazzanti, mal gestiti e incoerenti rispetto al contesto che li genera tali rimangono anche se nel dipanarsi della vicenda li si vuole far apparire come «normali».

 

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Katla (2021): scena

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Katla (2021): scena

 

Fra le cose buone della storia c'è il fatto che le risposte dei ritornanti alla domanda espressa dal puro e semplice fenomeno rappresentato dalla loro propria esistenza sono eterogenee fra loro: una volta assolto - volenti o nolenti, in toto o pure solo parzialmente, e comunque una volta raggiunto un punto di rottura, che sia una soluzione o un cul de sac - al compito di agevolare l'elaborazione del lutto alle persone loro care o ai loro stessi originali le soluzioni sono, perpetrate o subite, consapevoli o involontarie: suicidio, omicidio, fuga liberatoria autodeterminante. Caso a parte è l'alter ego di Grima: quanto reale e quanto frutto di uno sdoppiamento della personalità? All'eventuale seconda stagione sarà affidato l'ulteriore compito di dare risposte che non siano solo altre domande.

 

**¾ (***) - 5.75   

 

Per dare un senso alla playlist (dato che la scheda sulla serie nel database di FilmTv esiste già), in coda aggiungo un elenco di film appartenenti al cinema iperboreale: ICE LAND.

 

Playlist film

The Juniper Tree

  • Drammatico
  • Islanda
  • durata 78'

Titolo originale The Juniper Tree

Regia di Nietzchka Keene

Con Björk, Bryndis Petra Bragadóttir, Valdimar Örn Flygenring, Guðrún Gísladóttir

The Juniper Tree

 

Margit e... Katla.

 

BJÖRK (continua...).

 

In attesa di "the NorthMan" di Robert Eggers e Sjón.

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Nói Albinói

  • Drammatico
  • Islanda, Germania, Gran Bretagna, Danimarca
  • durata 93'

Titolo originale Nói Albinói

Regia di Dagur Kári

Con Tómas Lemarquis, Thröstur Leó Gunnarsson, Elin Hansdóttir, Anna Fridriksdóttir

Nói Albinói

In streaming su Apple TV

vedi tutti

 

Dagur Kári (1/2)

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Storie di cavalli e di uomini

  • Commedia
  • Islanda
  • durata 85'

Titolo originale Hross i oss

Regia di Benedikt Erlingsson

Con Ingvar Eggert Sigurðsson, Maria Ellingsen, Kristbjörg Kjeld, Helgi Björnsson

Storie di cavalli e di uomini

In streaming su Amazon Prime Video

vedi tutti

 

Benedikt Erlingsson (1/2)

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Dawn

  • Fantasy
  • Norvegia, Islanda
  • durata 70'

Titolo originale Morgenrøde

Regia di Anders Elsrud Hultgreen

Con Torstein Bjørklund, Ingar Helge Gimle

Dawn

 

After the Fall (in Full Winter). Esseri raminghi scampati al climax cataclismatico dell'antropocene deambulano verso mistiche mete.

 

Morgenrøde” (l'Alba di Domani), non “un film di”, ma “prodotto, scritto, diretto, fotografato, montato e sonorizzato (le musiche invece sono di Ole Petter Sørum) da” Anders Elsrud Hultgreen (che s'è occupato anche di confezionare e distribuire i cestini del rancio - paninazzi al merluzzo essiccato e birra di salice nano - nelle pause pranzo), già autore di “il Silenzio Piramidale”, un cortometraggio documentario di fantascienza - cui il finale di “Morgenrøde” rimanda, antropo/icono/figurativamente, in parte -, è un film in/non sufficientemente delirante (ma sicuramente sprezzante del pericolo/ridicolo), al quale un po' di delirio jodorowskyano male non avrebbe fatto di certo. Così, tanto per.

Avete presente le Lofoten? No? Nemmeno io. Bene. Lavoriamo d'immaginazione (e di Google Maps + Wiki + National Geographic Norway). Bene-bis. Adesso immaginate le Lofoten dopo un'apocalisse ecologica. Cos'avete ottenuto? Esatto: l'Islanda. Su IMDb ha una media di 5.7 con 75 voti. Tutti delle Lofoten. Tranne il mio.

Appare la prima figura umana, immersa arrancante nel paesaggio di rocce e sabbie nere vulcaniche, e la MdP - geologicamente entomologica - si (ri)mette in bolla - almeno giusto per un poco - (ri)tornando in equilibrio prospettico con la linea d'orizzonte planetaria - il corrusco ma pianeggiante paesaggio è quasi perpetuamente reso pendìo (magari se n'è andata a ramengo anche l'inclinazione dell'asse terrestre), tanto lo sfondo quanto il primo piano, causa inclinazione costante di 30/45° della MdP -, ché fin lì sembrava d'essere in orbita attorno a Mercurio.

 

...Ma è inutile cercare le parole

La pietra antica non emette suono

O parla come il mondo e come il sole

Parole troppo grandi per un uomo... 

 

Un viaggiatore/pellegrino straniero che intona cantilenanti preghiere arabo-finniche da foreign fighter mussulmano-groenlandese disegna runico-neolitici circoletti coppellati nello sfagno sopravvissuto alla catastrofe (in esergo si cita un brano dalla Bhagavadgita del Mahabharata, e quindi un pensiero va anche a Robert Oppenheimer, il Distruttore di Mondi) e nella petroleosa e inutilmente fertile perché contaminata cenere eruttata dagli eoni e corrosa e corrotta dai piani quinquennali con dei pezzi di pirite (l'oro degli sciocchi) che gli ha venduto Uannamarchi passa per il territorio/casa di uno stanziale girovago: entrambi superstiti a un'apocalisse già avvenuta.

Il tedio. Questo film dell'abbiocco è la sorgente incontaminata. Con qualche sprazzo di sparuta meraviglia. E un debilitante viraggio/filtraggio violetto [l'acqua sembra quella dell'Olona degli anni '80, quando il fiume di volta in volta prendeva il colore a seconda di quali serbatoi le indurstrie tessili dell'alto milanese (Castellanza, Legnano, San Vittore Olona, Parabiago, etc...) decidevano di svuotare e lavare (mentre oggi il corso d'acqua che Milano inghiotte a monte dopo Rho-Pero e sputa fuori a valle è tornato ad un livello sufficiente di qualità ambientale, grazie ai depuratori e al fatto che la maggior parte delle industrie tessili sono fallite e i loro proprietari morti si spera delle peggiori malattie); ultimamente un colore simile (viola e marrone) l'ho notato nel tratto finale dell'Arnetta, tra Gallarate e Lonate Pozzolo: anche in questo caso, auguro cancri, tumori, carcinomi e metastasi a tutti i responsabili].

 

Zone prospicienti: “il Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman, “Uccellacci e Uccellini” e “Cosa Sono le Nuvole” di Pier Paolo Pasolini, “Perdizione”, “Satantango” e “le Armonie di Werckmeister” di Béla Tarr, “i Giorni dell'Eclisse” e “Madre/Padre e Figlio” di Alexander Sokurov, il cinema di Sarunas Bartas, “Gerry” di Gus Van Sant, “Nooit Meer Slapen” di Boudewijn Koole, “Monte” di Amir Naderi: no.

No, qui siam dalle parti di Davide Manuli (“Beket” e “Kaspar Hauser”) e - a proposito di natura da un lato martoriata e dall'altro, a prescindere, indifferente ed "ostile" - dell'ingenuità (se va bene) del “BackCountry” di Adam MacDonald e della pochezza (se va male) del (remake di) “Long WeekEnd” di Jamie Blanks.

 

Film nuovo smagliante, stanchissimo. Inusitatamente insostenibile.

I due protagonisti si nutrono di muschi, licheni e cortecce. Anche lo spettatore, cinematograficamente parlando.

Meglio “EveryThing Beautiful is Far Away” e “Bokeh”, e ho detto tutto.

Anzi no, ecco: “L'universo è morto. La morte non ci preoccupa: finché siamo vivi, la morte non è qui. Quando arriverà, non ci saremo più.” (Gran Premio della Giuria al Festival del Grazie al Cazzo 2014). Ora sì, e cmq. mo' me lo segno.

 

Ottimo - ma è un attimo, che non giustifica il resto (ch'è comprensivo però di un altro rimarchevole breve segmento: l'apparita carcassa metallica dell'aeroplano scheletrizzato e ridotto a una carlinga e a una fusoliera rese dagli eventi exuvie ballardiane) - pre/sottofinale giocato tutto, volutamente o/e per forza di cose, sul fuori campo di un contro-campo assente. Lo stanziale diviene migratore, prendendone il testimone, e perseguendone e imitandone le convinzioni, e via di questo passo. Ovvero uno dopo l'altro.


* * ¾ - 5½  
 
Recensione (con in più qualche bella roccia e un po' di Scarlett Johansson come omaggio).
 

Rilevanza: 1. Per te? No

Rams - Storia di due fratelli e otto pecore

  • Drammatico
  • Islanda
  • durata 90'

Titolo originale Hrútar

Regia di Grímur Hákonarson

Con Sigurður Sigurjónsson, Theodór Júlíusson, Charlotte Bøving, Jon Benonysson

Rams - Storia di due fratelli e otto pecore

In streaming su Chili

vedi tutti

 

Grímur Hákonarson (1/2)

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Bokeh

  • Drammatico
  • Islanda, USA
  • durata 92'

Titolo originale Bokeh

Regia di Geoffrey Orthwein, Andrew Sullivan

Con Maika Monroe, Matt O'Leary, Arnar Jónsson, Gunnar Helgason

Bokeh

 

Il contributo delle aree lasciate fuori fuoco, la loro resa, è la scomparsa. Ci si concentra sui corpuscoli di polvere rimasti aggrappati alle lenti dell'obbiettivo.

 

Bokeh: sfocatura (esito su carta/schermo di un intervento durante la ripresa/sviluppo/stampa/proiezione).
Nuove lenti, altri occhi, ulteriori sensi (ad esempio: "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick filmato utilizzando lo Zeiss Planar 50mm f/0,7), e radiazione di fondo come unico bisbiglio del Creato. 

 

Le zone (involontariamente o no) sfocate delle immagini o degli audio-video catturati (d)alla realtà e la tecnica per ottenerle (consapevolmente e volutamente) tali. Scarsa profondità/estensione di campo a fuoco verso/contro una più acuta nitidezza su piccola, minore, minuscola, infinitesimale scala (ad esempio, portando oltre il limite del reale questa tecnica, si consideri l'effetto miniatura). Un obbiettivo a focale lunga puntato su un soggetto in primo piano più un diaframma molto aperto renderanno il soggetto a fuoco e lo sfondo sfocato e viceversa. 

 

Gli alieni (un lampo azzurro alla “SkyLine”, film non poi così ripugnante, dai!), gli déi, gli errori entropici (e non antropici) e casuali di arrotondamento dell'universo, o chi per essi -[le varie reti di telecomunicazioni così reagiscono al post-umano: la rete satellitare continua ad orbitare sincronizzata, internet non crolla e collassa ma semplicemente non viene aggiornata, la telefonia mobile mantiene la connessione coi ripetitori terrestri e i ponti radio ultra-stratosferici, i canali all news mandano rumore bianco e monoscopio policromo mentre le generaliste continuano a trasmettere film, serie tv e programmi vari, per inerzia: l'energia nucleare, idroelettrica, geotermica (nello specifico: siamo in Islanda; non che a Larderello siano da meno, eh!) o da accumulo continua ad alimentare il sistema automatizzato che gli esseri umani hanno costruito in quest'Era della Protesi]-, fanno scomparire - disinfestazione globale - il 99,99% periodico ("the LeftOvers" al contrario) della popolazione dell'umana civiltà del pianeta Terra, terzo da Sol. 

 

Tutto è fuori fuoco, solo qualche pixel (o i sali di nitrato d'argento custoditi nel corpo macchina RolleiFlex che non potranno, mai, più essere decomposti e fissati e passare le loro ombre di luce dalla gelatina animale 6x6 alla carta fotografica) resta nitido, in primo piano: la polvere sulla lente dell'obbiettivo, i superstiti: la giovane coppia composta da Jenay e Riley, e, poco prima della fine, un anziano, Nils, i quali, al contrario dei protagonisti da iniziale maiuscola puntata di “A Ghost Story”, un altro coevo viaggio “alla fine del tempo” [(s)e(nza) ritorno], mantengono il proprio nome di battesimo (o, meglio, allo spettatore è concesso conoscerlo).

“Dicono che l'unica voce di Dio sia il silenzio. Deve avere molto da dire in questi giorni.”

I due fotografi/registi/sceneggiatori semi-esordienti, Geoffrey Orthwein e Andrew Sullivan, così come i due attori protagonisti, Maika Monroe (l'eccessivamente sopravvalutato “It Follows”) e Matt O'Leary (pur nella diversità della loro relazione, i rapporti di forza possono essere accomunabili a quelli riscontrabili in “Monsters”), fanno il loro, con discreto onore.
Fotografia (Canon EOS C300 Mark II, anamorfico, 2.35:1) di Joe Lindsay, anch'egli semi-esordiente; montaggio dello stesso Geoffrey Orthwein; musiche di Keegan DeWitt (“Listen Up Philip”, “Queen of Earth”, “the Hero”).
Siamo comunque lontani anni luce da sbrodolamenti quali “Equals”, “UpSide Down”, “Another Earth”, “I Origins”… Ci troviamo più che altro in zona “Womb”, “the OA” e “the Discovery”, a livello molto più basico e meno articolato e coraggioso, però (ad ogni modo attenzione alla scena ascensoriale: furba, ammiccante, prevedibile e telefonata quanto si vuole, ma funzionante...).

 

Come in un'istantanea. Un po' fuori fuoco. Non v'è un prima (ma c'è stato, e i cascami, i lacerti, le rigaglie del mondo che fu "comunicano" coi superstiti attraverso le imago delle loro ottuse e involontarie eredità elettro-meccanico-informatiche) e non v'è un dopo (ma ci sarà, senza di noi/voi/loro).

"Bokeh" racconta, anche, della fine di un amore. Non sarà mica la fine del mondo!

Il contributo delle aree lasciate fuori fuoco, la loro resa, è la scomparsa. Ci si concentra sui corpuscoli di polvere rimasti aggrappati alle lenti dell'obbiettivo. I sopravvissuti/sopravviventi, i rimasti, i restanti. Non c'è molto altro dietro/dentro, ma il racconto scorre, bene, fino a quando “termina”, e non scorre più, perché s-finisce, in folle, e nemmeno un sordo lamento, figuriamoci un bang. E poi anche l'abbrivio sfuma nel nero.

 

* * ¾ (***) 

 

Recensione

 

Rilevanza: 1. Per te? No

L'albero del vicino

  • Drammatico
  • Islanda
  • durata 89'

Titolo originale Undir trénu

Regia di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson

Con Steinþór Hróar Steinþórsson, Edda Björgvinsdóttir, Sigurður Sigurjónsson

L'albero del vicino

In streaming su Rakuten TV

 

Hafsteinn Gunnar Sigurðsson (3/3)

 

C'è sempre una guerra da combattere per le ragioni più stupide (le migliori).

 

“Escalation” : tintarella islandese, AV, cani, gatti, pic-nic all'Ikea e nanetti da giardino.

La struttura è semplice: è quella del Domino.
Reazione a catena lineare di causa-effetto.
Deterrenza e dissuasione non pervenute.
Ogni tessera al proprio posto, quello “giusto”: a volte succede.

- Generale Turgidson : “Eh... Chiedo scusa... Eh... Se... Se il pilota ci sa fare... Insomma, se... Se è in gamba... Ti porta l'aereo così basso... Eh, eh, eh, lei dovrebbe vederlo! È uno spettacolo, un gigante come il B-52, brooom! Coi gas di scarico t'arrostisce le oche vive, ah, ah, ah!”
- Presidente Muffley : “Ma insomma, ce la può fare?”
- Generale Turgidson : “Se ce la può fare? Sì, porco diavolo! Se quello... Eh... Eh... Se lui... Se...”

Presentabili, stupidi e cattivi.
Non si salva manco l'albero.
No, non tutti: la giusta, coerente percentuale di umanità ne esce bene (la ex del protagonista e la coppia di vicini sessualmente rumorosi), un discreto 10%.
E ovviamente è il gatto (Smoking Gun) ad essere il più stronzo di tutti.  

 

Grammatica cinematografica e sintassi della morale.
"Undir Trénu" è la terza prova nel lungometraggio per Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, l'autore di “Á Annan Veg” (“Either Way”, che per mano di David Gordon Green è diventato un remake in terra texana, “Prince Avalanche”, che ha mantenuto, al contrario di quelle geografiche, le coordinate temporali: i tardi anni '80), del 2011, e “París Norðursins” (Paris of the North), de 2014.

Quello di Sigurðsson è un film [non utilizzo il termine “cinema” perché dei tre lungometraggi licenziati dal nostro questo è l'unico cui ho assistito: parlo perciò di (e dell') opera singola, in questione, e non omnia] – scritto a quattro mani dal regista con Huldar Breiðfjörð (autore del soggetto) – più basico ed elementare – manifestandosi simile in questo senso alle opere di Yorgos Lanthimos (esclusa in parte “Kynetta”, più tecnico-teorica: “Kynodontas”, “Alpeis”, “the Lobster”, “the Killing of a Sacred Deer”) – e forse, a emanazione di ciò e/o viceversa, meno profondo – pervaso com'è da simbologie e sinonimie (stilistiche e contenutistiche) evidenti, semplici ma non semplicistiche, facilmente individuabili ma non per questo povere di complessità ridondante (nell'accezione positiva e fruttifera del termine) ed insorgente – rispetto all'arte di Michael Haneke (e Ulrich Seidl: “Import/Export”, “Paradise: Love, Faith, Hope”, “Safari”), cui si rivolge per ottenere imprimatur (traendone in primis imprinting) e alla quale si appoggia per intessere un discorso tanto di forma quanto di sostanza, ma senz'altro ugualmente disincantato, senza però rendersi, per questo, disinteressato ed estraneo a ciò che racconta (non sarebbe cinema, altrimenti? No: si dimostrerebbe comunque Arte, appartenente però al sottoinsieme “referto autoptico”), e rispettando i personaggi anche nello spingerli sperimentalmente al limite (in questo dialogante con le opere di Todd Solondz: “Welcome to the Dollhouse”, “Storytelling, “Palindromes”, “Life During Wartime”, “Wiener-Dog”).  

 

A tal proposito – in riferimento all'accessibilità di metafore, analogia, similitudini – si consideri l'a questo punto emblematica sequenza dell'oscuramento/abbagliamento (“Inside Man”, etc…) della videocamera semisferica di sorveglianza ripresa dal PdV della VC stessa: il senso della vista messo in disuso temporaneo e neutralizzato [da una parte l'accecamento del sistema di sicurezza artificiale (meccanico ed elettronico), dall'altra l'appisolarsi del sistema di consapevolezza (chimico e biologico), con gli occhi blindati dal sonno (o dall'imbalsamazione)] e il senso dell'udito ottuso (da una parte dalla gabbia sonora degli auricolari che diffondono, anzi: concentrano, musica ad alto volume, e dall'altra dal rumore bianco della fase REM e del sonno profondo), con l'esito d'aver niente vista (assenza di controllo ed inconsapevolezza) e troppo udito (cioè niente udito), con relative conseguenze: un discorso imbastito da un dispositivo metacinematografico che “gioca” all'interno di un racconto “a tesi” sulle estremizzazioni del contratto sociale quando questo raggiunge l'acme locale (su scala globale si chiamerebbe Escalation di Guerra: la struttura è, come detto, chiara, nitida, limpida e lampante: e per contrastare questa retorica Sigurðsson utilizza ottimamente tanto l'umorismo, glaciale e mai gratuito o banale, quanto la commozione, anti...retorica) e proclama il proprio dissesto (in)controllato, perpetuo, irrimediabile, andandosi a schiantare contro - e grazie - alla propria inaccettata, inammessa e irriconosciuta inadeguatezza a risolvere il “problema Homo”, antropogenico [(sempre che si parta dal presupposto che) l'estinzione (non) è una soluzione]. 

 

La programmaticità d'intenti è tanto palese quanto irritante e fastidiosa (il close-up sul lombrico nella zolla di terra umida appena smossa), tanto volutamente/fintamente ingenua quanto scopertamente provocatoria. L'assunto è palese: le guerre sono faide su scala globale, e questa porzione di universo è governata da idrogeno (finché ce n'è, Sol brucia, poi inizia la “lenta” discesa verso il ferro e il fioco spegnersi divorante mondi) e idiozia (nessuna entropia può fermarla, si autoreplica e riproduce per partenogenesi). 

 

In relazione all'architettura sintattica, alla costruzione grammaticale e alla reciprocità di promanazione di senso scaturente dal dialogo fra tecnologia del mezzo e narratività pura, addentrandosi in quel luogo in cui l'immagine precipita – cioè condensa, deposita, concentra – (manifestando) le proprie istanze costitutive richiedendo attenzione, cioè di essere contro-osservata, torniamo ad Haneke e al suo ragionamento sull'immagine, sulla documentazione AV di un evento: chi la produce, chi la subisce, chi la osserva, chi la/vi si riflette [c'è davvero, ancora, qualcuno che assiste al girato (al non diretto, al non interpretato) d'immagini in movimento e suoni in vibrazione, che lo guarda, e guardandolo lo vede, e vedendolo lo capisce, o è solo una MdP che riprende un AV a circuito chiuso (wide shut, closed open), un occhio di vetro in un corpo imbalsamato? Ossia, il sempiterno annoso problema: riusciamo a capire gli altri, a comprenderne le domande, i bisogni, le richieste, le necessità, ad immedesimarci nel loro PdV?], chi la sfrutta, chi la interpreta, chi ne è (ir)responsabile. La definizione di questo intreccio di concatenazioni e correlazioni che (s)fondano l'episteme dentro al quale ci muoviamo e dal quale traiamo - erigendolo - ogni giorno conforto. L'esperimento (una protesi dell'anima animata e mossa dall'assenza di coscienza: la tecnologia è collaterale piuttosto che causale) di “Benny's Video”, la riproduzione di una realtà conosciuta attraverso esperienze subordinate, surrogate e accessorie vissute per interposta persona/macchina e relativa, ma non conseguente bensì generante, spersonalizzazione autistica; la cronaca che s'intreccia alla (che crea la) storia (come in “71 Frammenti di una Cronologia del Caso”), il personale che diviene (smascherato nel) politico (come in “Code Inconnue”), la sorveglianza rivelatrice (il “Lost Highway” lynchano) di “Caché”; la quotidianità diaristica di “Happy End”… E il paradosso del fuoricampo essenziale in cui è relegata l'azione, quasi sempre.
Ecco, abbiamo iniziato da un filmino amatoriale e siamo giunti ad un massacro: da Sigurðsson ad Haneke, insomma: com'è potuto accadere?!

Grande scena dove la musica da extra diegetica si scopre diegetica ("Eyes Wide Shut", "Batalla en el Cielo"), con un corpo riverso in ascolto, rimembranza e (rim)pianto sul tappeto in soggiorno.  

 

Tutto è qui: la capacità di immedesimazione nell'altro.
Magnifico il gruppo d'attori sulle cui spalle grava il compito di attivare la sospensione dell'incredulità relativamente alla meccanicità dell'impianto sceneggiativo (per altri versi ricco di buoni dialoghi e apprezzabili sfumature) facendone scordare la forzata artificialità della degenerazione percussiva messa in atto.

Atli - Steinþór Hróar Steinþórsson - (marito, figlio, padre) aveva appena iniziato a smanettarsi davanti ad un vecchio bedroom movie con protagonisti lui e una sua ex, Rakel - Dóra Jóhannsdóttir -, girato con lo smartphone e conservato nel notebook, gli auricolari calzati ben piantati nei padiglioni auricolari in modo da godere dell'effetto stereo e contemporaneamente non svegliare la moglie Agnes - Lára Jóhanna Jónsdóttir - lasciata a dormire coi tappi di cera nelle orecchie dopo averla consegnata all'ennesima notte in bianco, che, ecco, la consorte lo becca con la mano infilata da poco nelle mutande, giusto il tempo di una ravanatina di benvenuto, e niente, triste festa finita e perentoria intimazione di lasciare la loro casa. Reazione eccessiva? La domanda si ripresenterà più volte lungo il procedere della narrazione, sotto aspetti sempre diversi ma similari, differenti ma consimili, eterogeneamente omogenei, con un aumento esponenziale su scala logaritmica, e perderà di senso, essudando come salnitro da un vecchio muro tutta l'inadeguatezza a vivere la vita di questo “7° Continente”. 

 

Per ora, lasciata l'abitazione, mentre le note dissonanti di Daníel Bjarnason [fotografia: Monika Lenczewska (“Message from the King”, “Labyrinth”); montaggio: Kristján Loðmfjörð (sodale del regista da “Á Annan Veg” a “París Norðursins”, poi: “Hrútar/Rams” e “End of Sentence”); inserti di Rachmaninoff e Bach] ci accompagnano, ci ritroviamo in un poligono di tiro, luogo compartimentato ed epitome del film (a sua volta traslato, sineddoche e compendio del Mondo) che non più tornerà in gioco nella storia, per poi risalire lungo i rami di una ginestra, e da qui all'Albero che balugina con la sua chioma di grosse foglie trilobate piccole ombre dal giardino di Baldvin e Inga, i genitori di Atli [la Madre - Edda Björgvinsdóttir, Lady Macbeth islandese, anzi: icelandese - si ristora dal digiuno (an)affettivo nella negazione, trasferendo all'Albero l'affetto per Uggi, l'altro figlio, quello perduto e più benvoluto, presunto suicida non dichiarabile morto in assenza di un cadavere, né vivo, in assenza di un segno di presenza, il Padre - Sigurður Sigurjónsson, già apprezzato in “Hrútar/Rams” - si rifugia nel prove del coro, i cui vocalizzi accompagneranno, mezz'ora dopo, quando tutto ancora sembra(va) (ir)rimediabile, la secondo messa in abisso verso l'albero attraverso un'ascensione arborea a sprofondare nella cornucopia di fogliame stormente], a quello di Konrad - Þorsteinn Bachmann - ed Eybjorg - Selma Björnsdóttir -, i loro vicini di casa, che stanno tentando di diventare genitori.

Poi il gatto scompare, e anche i migliori nani da giardino mai visti di sempre (battono quelli de “il Favoloso Destino d'Amélie Poulain” a mani basse...e brache calate con chiappe al cielo) vengono presto dimenticati. C'è una guerra da combattere. Locale, a bassa intensità, perdite inessenziali, sacrificabili...se vi fosse qualcosa per cui valga la pena sacrificarsi.

L'acqua si ritira di un poco, una prima volta. Poi, tutto sembra tornare alla normalità. Ed ecco che l'acqua si ritira un'altra volt'ancora, più in fretta, più a fondo, e nel farlo cambia colore, passando d'azzurro-verde a grigio-marrone, e al contempo s'alza un vento fetido e caldo, e la terra trema...
Per forza di cose, a quel punto, non rimane altro che “Bokeh”.
Finale scontatissimo, e doveroso.

Muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà, mai, fine.
Recitativo (Due Invocazioni e un Atto di Accusa)” - Fabrizio De André - “Tutti Morimmo a Stento” - 1968   

 

* * * (½) ¾   

 

Recensione.

 

Rilevanza: 1. Per te? No

La donna elettrica

  • Drammatico
  • Islanda, Francia, Ucraina
  • durata 101'

Titolo originale Kona fer í stríð

Regia di Benedikt Erlingsson

Con Halldóra Geirharðsdóttir, Jóhann Sigurðarson, Juan Camillo Roman Estrada

La donna elettrica

In streaming su Amazon Prime Video

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Benedikt Erlingsson (2/2)

 

Rilevanza: 1. Per te? No

A White, White Day - Segreti nella nebbia

  • Drammatico
  • Islanda
  • durata 109'

Titolo originale Hvítur, Hvítur Dagur

Regia di Hlynur Palmason

Con Ingvar Eggert Sigurðsson, Ída Mekkín Hlynsdóttir, Hilmir Snær Gudnason

A White, White Day - Segreti nella nebbia

In streaming su CG Collection Amazon channel

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Deep

  • Drammatico
  • Islanda
  • durata 95'

Titolo originale Djúpið

Regia di Baltasar Kormákur

Con Ólafur Darri Ólafsson, Jóhann G. Jóhannsson, Thröstur Leó Gunnarsson, Björn Thors

The Deep

In streaming su Amazon Prime Video

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Contraband

  • Thriller
  • USA, Gran Bretagna
  • durata 119'

Titolo originale Contraband

Regia di Baltasar Kormákur

Con Mark Wahlberg, Kate Beckinsale, Ben Foster, Giovanni Ribisi, Lukas Haas, J.K. Simmons

Contraband

In streaming su Amazon Video

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Cani sciolti

  • Azione
  • USA
  • durata 109'

Titolo originale 2 Guns

Regia di Baltasar Kormákur

Con Mark Wahlberg, Denzel Washington, Paula Patton, Bill Paxton, James Marsden, Fred Ward

Cani sciolti

In streaming su Netflix

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Everest

  • Drammatico
  • USA, Gran Bretagna, Italia
  • durata 150'

Titolo originale Everest

Regia di Baltasar Kormákur

Con Jason Clarke, Josh Brolin, John Hawkes, Jake Gyllenhaal, Martin Henderson, Emily Watson

Everest

In streaming su Netflix

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Resta con me

  • Drammatico
  • USA
  • durata 105'

Titolo originale Adrift

Regia di Baltasar Kormákur

Con Shailene Woodley, Sam Claflin, Jeffrey Thomas, Elizabeth Hawthorne, Grace Palmer

Resta con me

In streaming su Amazon Prime Video

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Katla

  • Serie TV
  • Islanda
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale Katla

Con Sigurjón Kjartansson, Baltasar Kormákur, Íris Tanja Flygenring, Þorsteinn Bachmann

Tag Drammatico, Storia corale, Sovrannaturale, Lotta per la sopravvivenza, Islanda, Anni duemilaventi

Katla

In streaming su Netflix

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

I delitti di Valhalla

  • Serie TV
  • Islanda
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale The Valhalla Murders

Con Gunnar Bersi Björnsson, Nína Dögg Filippusdóttir, Björn Thors

Tag Poliziesco, Duo, Crimini, Formazione, Islanda, Anni duemilaventi

I delitti di Valhalla

 

Altra serie (senza Kormákur, ma con Björn Thors).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Lamb

  • Drammatico
  • Islanda, Svezia, Polonia
  • durata 106'

Titolo originale Dýrið

Regia di Valdimar Jóhannsson

Con Noomi Rapace, Hilmir Snaer Gudnason, Björn Hlynur Haraldsson, Ingvar Sigurðsson

Lamb

In streaming su Amazon Video

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In attesa di "the NorthMan" di Dave Eggers, ancora Sjón.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Solaris

  • Fantascienza
  • USA
  • durata 99'

Titolo originale Solaris

Regia di Steven Soderbergh

Con George Clooney, Natascha McElhone, Jeremy Davies

Solaris

In streaming su Amazon Video

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Les Revenants

  • Serie TV
  • Francia
  • 2 stagioni 16 episodi

Titolo originale Les Revenants

Con Fabrice Gobert, Anne Consigny, Clotilde Hesme, Frédéric Pierrot, Céline Sallette

Tag Drammatico, Storia corale, Zombi, Storie di vita, Francia, Anni duemiladieci

Les Revenants

Rilevanza: 1. Per te? No
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