Sapete qual è la faccenda buffa del momento nel mondo della stand-up? Anzi, la formula corretta è: sapete qual è la faccenda buffa del momento che riguarda il mondo della stand-up, ma riesce a titillare il panorama della stampa generalista che di solito se ne batte le gonadi della stand-up? La notizia è che il monologo comico di tradizione anglosassone non solo è arrivato in Cina, ma ci è arrivato sulla scia di un folto movimento di comiche bilingui che hanno saputo sfruttare il volano dei social – quelli disapprovati dal partito, gli unici dove possano caricare i loro set in inglese – per crearsi un pubblico e addirittura risvegliare l’attenzione dei commentatori culturali, sempre alla ricerca di un buon modo per erodere il soft power cinese.

L’interesse occidentale per la bizzarra faccenda nasce innanzitutto dall’invitto desiderio che abbiamo di dimostrare e ostentare come le frange più libertarie della nostra cultura abbiano un fascino indiscreto e irresistibile sulle persone che hanno la sfortuna di nascere in posti dove le libertà da loro anelate sono considerate, dai loro regimi, un indesiderabile sintomo del debosciato declino di noi musi bianchi appassionati di pronomi; ma quell’interesse di cui sopra scaturisce soprattutto da un video della comica Dawn Wong, diventato virale circa un anno fa, che mostra l’estratto di un set di stand-up in inglese tenuto dalla comica in un locale di Shanghai che sembra bello impaccato di gente cinese ben disposta a stare al (pericoloso) gioco di assistere a uno spettacolo occidentale, messo in scena in una lingua occidentale nella seconda città più importante dello stato la cui dittatura al potere ha dimostrato ben più cattiveria verso sgarri alla cultura locale solo apparentemente meno insultanti – qui l’esempio di John Cena costretto a scusarsi in mandarino per aver considerato Taiwan come un paese a se stante e non come una provincia cinese.

Per chiarire il motivo per cui la faccenda è abbastanza bizzarra: la stand-up è una cornice d’intrattenimento in cui, per definizione, si può dire tutto; i regimi invece sono, per definizione, quei posti in cui non puoi dire tutto a meno di non aver voglia di vedere la tua libertà venire ulteriormente limitata. Il singolo responsabile per aver portato il linguaggio della stand-up in Cina è Joe Wong, sant’uomo che fortunatamente non è ancora martire. Wong ha passato una dozzina d’anni di fuoco negli Stati Uniti, creandosi dal nulla una carriera comica più che valida; in realtà abbastanza valida da fargli ottenere un invito per l’esclusiva Cena dei giornalisti inviati alla Casa Bianca. Terminato il suo soggiorno americano, Wong è tornato a Pechino a fare il presentatore televisivo per portarsi a casa la pagnotta, nel frattempo inaugurando il Joe Club, ecumenico laboratorio di comicità dal quale spargere lo sconosciuto verbo della stand-up.

Tornando alle nostre comiche cinesi che si esibiscono in inglese: la faccenda è particolarmente spinosa per un paio di motivi. Per primo, sono comiche; e sfortunatamente questo dato biologico (che dovrebbe essere del tutto ininfluente) continua a creare delle sperequazioni sistemiche anche qua in occidente, dove i sessisti rincoglioniti hanno pure avuto qualche decade in più per abituarsi al fatto di essere diventati anacronistici. E non è che vada tanto meglio in Cina, la cui cultura patriarcale rivaleggia tranquillamente per idiozia con quella nostrana. Dice, proprio Dawn Wong, in un’intervista allo Shanghai Daily: «Quando leggi online i commenti sotto i video di una comica vedi che la gente, invece di concentrarsi sulle sue battute, giudica come sono vestite, quanto attraenti sono e se debbano o meno essere libere di parlare di sesso e di fare battute sconce. Quando si tratta di comici maschi, invece, questo tipo di commenti non viene mai fatto. Un comico maschio può essere grasso e brutto, vestito come un senza tetto o con addosso solo una maglietta nera, può fare orribili battute di cattivo giusto e comunque la gente non lo giudicherà mai come invece fa con una comica».

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Dawn Wong

Mentre l’altra faccenda scivolosa riguarda ovviamente la lingua, con la totalità di queste nuove comiche emergenti che decide di esprimersi in inglese piuttosto che in cinese. In un’intervista per il podcast The Beijing Sessions, Alex Shi dice un paio di cose interessanti: «Tutto quello che dico nei miei set in inglese avrebbe un impatto ancora più grande se lo dicessi in cinese, perché per gli standard cinesi io rappresento tutto quello che non dovrebbe essere accettabile in una donna. Non ho mai provato a fare stand-up in cinese. Mi viene naturale essere più a mio agio a parlare di certi argomenti in inglese, perché per me quella della stand-up è una cultura acquisita». Non solo necessità, dunque, ma anche l’idea che la stand-up come genere sia legata indissolubilmente alla lingua inglese. Proviamo a dissentire rispettosamente, ma solo perché qua da noi abbiamo un fulgido esempio del contrario: l’ottimo Francesco De Carlo, uno dei pochi comici italiani che hanno dato, sia per necessità sia per virtù, anche in inglese. Lui ci dimostra che è vero: l’inglese è la lingua madre della stand-up, e si capisce dal ritmo e dall’infinita possibilità di costruire punchline sintetiche e ficcanti; ma una volta intese le dinamiche di quel tipo di linguaggio, il passaggio della stand-up a una lingua diversa non ne compromette la potenza e le possibilità.



Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.