Tra tutti gli stereotipi che circondano la mistica della vera stand-up comedy – quella che trovi solo nei locali rigorosamente fumosi – il più antico, duro a morire e fondamentalmente corretto è quello che descrive un comico o una comica con tutti i crismi come una persona che è sopravvissuta a malapena a un’infanzia rivedibile, per non dire merdosa. Un’immagine semplificata che in realtà dipinge un quadro complesso e ben contestualizzato. La stand-up comedy degli albori era la forma d’arte dei reietti che si approcciavano al mondo dello spettacolo, di quelli abbastanza disperati da non avere nulla da perdere e da non farsi problemi a dire volgarità in pubblico e, magari, farsi arrestare per oltraggio al pudore. Kamikaze dell’intrattenimento disposti a fare il lavoro sporco che il resto dello show business era troppo morigerato, bigotto o ipocrita per fare, traendo forza dal supporto di una comunità di loro simili, ovvero paria che senza quei locali rigorosamente fumosi in cui esibirsi forse starebbero a urlare battute sconce in piedi su una cassetta di arance in mezzo a un parco pubblico.

E questa è la grande tradizione statunitense di glorificare ex post una categoria di persone che il mainstream prima schifava e poi, notando il grande margine di profitto dell’attività, ha imparato ad accettare e normalizzare. Tutto in regola. Finché non è arrivata Atsuko Okatsuka. Che, come tutte le persone giapponesi, quando fa una cosa, la fa con una certa serietà. Se non credete a quest’altro stereotipo, andatevi a leggere quanto seriamente i giapponesi hanno preso la storia del genocidio. Dunque – mormora tra sé e sé un giapponese particolarmente motivato – leggo qui che la regola principale della stand-up è quella di avere avuto l’infanzia più difficile immaginabile? Reggetemi un attimo le bacchette e il mawashi.
Atsuko Okatsuka cresce in Giappone, a Chiba (non distante da Tokyo), ed è figlia di un ingegnere del posto e di una donna taiwanese che si sono conosciuti e innamorati partecipando a un programma in tv tipo Il gioco delle coppie. E già qui un pochino stiamo volando. Poco dopo la nascita di Atsuko, nell’ordine succede che: i genitori divorziano, il padre ottiene la custodia esclusiva e alla mamma viene diagnosticata la schizofrenia, chiaramente l’unico motivo plausibile per giustificare il suo trasferimento nella giungla di Los Angeles.

Otto anni dopo, il coup de théâtre è fornito dalla nonna materna, che convince il signor Okatsuka a mandare la figlia negli States in vacanza estiva per due mesi e poi non la restituisce più. Può esistere un’infanzia più traumatica di un rapimento intercontinentale architettato da un’anziana che si occupa anche della figlia schizofrenica? I giapponesi sono sempre i più secchioni.
Atsuko Okatsuka inserisce tutto il suo assurdo vissuto anche in Father, secondo speciale comico di una carriera allo stesso tempo ancora in rampa di lancio fra il grande pubblico USA, ma già affermata e d’impatto grazie a una nicchia di fan assatanati che la seguirebbero fino in capo al mondo.

Merito di una voce comica unica, che gemma da una storia personale del tutto peculiare. Come peculiare è il fatto che dopo aver confermato, con tanto di timbro in ceralacca, lo stereotipo più antico, duro a morire e fondamentalmente corretto della stand-up, Okatsuka procede a rimescolarlo tassello per tassello presentandosi come un’artista certamente bizzarra – Father è un raro caso di speciale che farebbe ridere anche con il volume azzerato – ma perfettamente in controllo della propria vita, delle proprie emozioni, delle proprie relazioni sentimentali e persino del proprio passato problematico.

Niente droghe, nessuna caciara gratuita, nessuna aggressività, niente cinismo cosmico-tossico, niente iperboli provocatorie. Anzi. Nonostante la comicità di Atsuka sia, a suo stesso dire e in linea con tanti altri suoi colleghi, il modo migliore che ha trovato per riempire un enorme buco interiore tramite l’approvazione di estranei e senza indebitarsi con un terapista, è comunque una comicità gentile senza rinunciare alle volgarità, è dolce senza abbandonare il rigore, è pungente senza essere offensiva ed è positiva senza perdere il contatto con la realtà.
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