Il più recente momento virale della sua lunga carriera da comico indipendente, Joe DeRosa lo ha avuto dopo aver svelato al mondo che uno dei soprannomi che gli sono stati appioppati in gioventù era The Vile Horrendous. Dite quello che volete sugli stereotipi, ma da uno che nella vita è stato ribattezzato il Vile Orrendo non ti puoi certo aspettare uno speciale di stand-up normale. Al di là dei cattivi pensieri che abbiamo tutto il diritto di avere dopo avere incamerato un’informazione del genere, però, bisogna anche affrontare i fatti. DeRosa ha un quarto di secolo di comicità alle spalle, e oltre a esprimersi con la stand-up in locali rigorosamente fumosi, ha fatto anche esperienza come sceneggiatore televisivo, è stato un pioniere dei podcast insieme a Bill Burr, ha composto album rap, ha aperto un negozio di sandwich e, prima ancora, è stato adottato dall’Egitto da una famiglia di italo-americani che abitavano in uno sputo di paesino della Pennsylvania. C’è abbastanza materiale pregiudiziale, tra disagio e creatività, per dare fiducia al secondo speciale di stand-up di DeRosa – I Never Promised You A Rose Garden, autoprodotto e distribuito su YouTube. Ne vale la pena anche solo per essere smentiti sulla qualità di scrittura di uno che si è meritato l’appellativo di Vile Orrendo. Ti aspetti volgarità gratuite senza senso, e invece ti ritrovi con una lunga opinione argomentata sullo stato delle cose.

I Never Promised You A Rose Garden è uno speciale che parla della cultura del popolo statunitense in senso ampio, ed è un monologo dai toni dichiaratamente, totalmente negativi. Non aspettatevi nemmeno la minima scintilla di speranza. Anche perché DeRosa è arrivato a quel punto della vita in cui sputerebbe volentieri in faccia ad almeno, in media, sette o otto persone al giorno, se solo non fosse passibile di denunzia. Il nervoso arriva, in parte, dal fatto che lui, dall’alto di una negatività innata, non ha certo avuto bisogno della doppia elezione di Trump per accorgersi che fa tutto schifo, com’è invece successo ai suoi amici progressisti. È almeno dal ‘96 che DeRosa ha ben chiaro lo stato delle cose, e nel frattempo si è portato avanti con il pessimismo e la disperazione filtrata attraverso la comicità raccogliendo dati. Per esempio: avete mai notato la quantità di soldi che spendiamo in roba di scarsa qualità? Come un posto in business class, che è semplicemente una sedia di proporzioni umane dove, al contrario dell’economy, non sei costretto a sgranocchiarti le rotule per sperare di arrivare a destinazione senza farti partire un embolo. Succede che la business class ci fa emozionare, nonostante i costi sproporzionati, perché il mercato ci ha talmente abituati a spendere soldi per roba di scarsissima qualità, che quando la proposta migliora a “scarsa” siamo disposti a spendere tutti i nostri averi, oltretutto ringraziando per la gentile opportunità accordataci.

Il concetto di qualità, insomma, è una fregatura. Ma mai quanto quello di progresso. Ti fanno credere che stanno facendo qualcosa per migliorare la situazione, ma in realtà non stanno facendo nulla. Adorano ostentare. Vogliono apportare un cambiamento, ma senza mettere a disagio nessuno. Non funziona così. Il cambiamento non è comodo, ma è fatto di rottura. Il cambiamento è morte e rinascita. Non è una sfumatura differente di trucco. E l’industria dell’intrattenimento è la miglior-peggiore maestra di questa ipocrisia, ora che sta tentando di risolvere – a colpi di pezze tanto imbarazzanti quanto i buchi che cercano di coprire – il razzismo che lei stessa ha creato ai bei tempi dell’età dell’oro di cinema e tv. Non c’è speranza di progresso perché non raggiungeremo mai una vera coesione, e non c’è speranza di coesione perché non vogliamo davvero impegnarci a essere tolleranti. Anche qui vince l’ostentazione piuttosto che la sostanza. Ed è molto facile essere tolleranti quando si vive in una bolla in cui tutti la pensano alla stessa maniera.

Gli statunitensi – e noialtri di riflesso, vista la quantità di cultura pop USA che continuiamo a sorbirci anche inconsapevolmente – sono pigri e sono infantili, per quello non hanno pazienza per la tolleranza. Negli USA hanno collettivamente deciso che è meglio difendersi dal sentirsi offesi che tutelare la propria salute mentale o fisica. E invece di andare dal medico o dallo psicoterapeuta, contattano un life coach. Ovvero la prima stazione del treno a spirale verso l’inferno professionale, seguita da quella dell’agente immobiliare, quella dell’attore porno e, in fondo al cerchio dei dannati, dal capolinea del comico di stand-up.
Non c’è speranza per la cultura USA, perché laggiù si sono rapidamente involuti in una società fatta di bulli petulanti. Bulli a destra, bulli a sinistra e i bulli peggiori: i ciclisti e gli infermieri. In realtà due sineddochi per indicare categorie di persone che si indignano. E quando le categorie di persone si indignano, oggi hanno i mezzi per rispondere insultando e minacciando. DeRosa ci tiene a ribadire: le battute tendono a contenere esagerazioni, altrimenti sono solamente frasi come tutte le altre. Indignarsi per un’esagerazione è, in linea di massima, un sintomo di stupidità e/o coda di paglia.

I Never Promised You A Rose Garden è diverso dallo speciale comico medio innanzitutto per la compattezza del discorso, che segue un filo rosso dall’inizio alla fine in maniera più simile a un monologo teatrale che a uno spettacolo di stand-up; ma anche per una regia del tutto peculiare, curata dallo stesso DeRosa. Un’alternanza di campi e controcampi che stacca tra i suoi primi piani, volutamente ritagliati, incompleti, sghembi, fuori fuoco, e quelli riservati ai membri del pubblico. Sono controcampi sinceri e non artefatti, nel senso che vanno a inquadrare anche gente che non ride sguaiatamente. Sembra una banalità, ma non lo è. È un modo per restituire l’accurata imperfezione di una forma d’arte sbilenca, che maneggiata al suo meglio – come in questo caso – può raccontare una storia, un modo di vedere le cose, una parabola senza morale, un’angolatura differente, una prospettiva inedita che non è accomodante, che rielabora un disagio esistenziale e lo fa affilando le armi dell’umorismo piuttosto che quelle del paternalismo e della condiscendenza.


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