Mostra del cinema di Venezia 2025
Le recensioni dei film in concorso
27 agosto

La grazia
di Paolo Sorrentino
Un uomo e la sua stanza (o meglio: le sue stanze). A Paolo Sorrentino basta poco per dare corpo a un ritratto dell’artista confinato nel perimetro del suo notevolissimo talento che tenta in tutti i modi di entrare in contatto con il mondo evitando, però, di affrontarlo direttamente. Kafka sosteneva che il mondo risponde solo alle domande che gli sono poste direttamente. E Mariano De Santis (interpretato da Toni Servillo con un’audacia umile per la quale ormai bisogna inventare nuovissimi superlativi), Presidente della Repubblica cui mancano sei mesi alla pensione, tenta di trovare le parole per porre le domande giuste. La traccia del disegno di legge sul fine vita è solo una traccia che il regista, libero di intrecciare la sua sceneggiatura con le immagini filmate dalla sempre sorprendente Daria D’Antonio, usa con sottigliezza evitando le buche più dure dell’analogia. La distanza fra i libri, con i loro capitoli e paragrafi e il caos della vita che ribolle indifferente, chiedendoci di prendere decisioni anche quando vorremmo concederci un altro momento di riflessione, è colta con tenerezza da Sorrentino (basti pensare ai momenti finali del ritorno del Presidente a casa) cui fa da corollario una dolcezza inedita nel dare corpo alla malinconia della fine. Sorrentino con il suo esistenzialismo mediterraneo coglie il rapporto fra l’esercizio di una funzione e il potere che ne deriva, incarnandolo in traiettorie e spazi che si configurano come labirinti piranesiani di un cuore in autunno che si nega dietro la maschera di un’immobilità quasi nipponica. Un’opera maggiore nella traiettoria sorrentiniana.
Giona A. Nazzaro, voto: 8
28 agosto

Orphan
di Laszlo Nemes
Il figlio di Saul si chiudeva con un bambino – un uomo di domani – che correva libero in un prato mentre fuoricampo si sentiva l’esecuzione dei prigionieri in fuga dalle SS. Un bambino è anche il protagonista del nuovo film di Nemes, Orphan, ispirato alla storia del padre del regista, ed è forse un rimando a quella figura: piccolo orfano di guerra nei primi minuti e poi dodicenne nel resto del racconto, a Budapest nel 1957, pochi mesi dopo la rivoluzione soffocata dai sovietici. La sua soggettiva incorniciata di nero apre il film ed è subito replicata da un’immagine analoga (la soggettiva da una serratura), ma senza corpo. Il film, del resto, ruota attorno a un’assenza, quella del padre del ragazzino, mai tornato dai campi, idealizzato dal figlio e non più atteso dalla madre. Ma se invece il padre fosse un altro, e l’uomo che dal nulla arriva nella vita del protagonista un corpo l’avesse, e pure grosso e violento, cosa ne sarebbe dei sogni del ragazzo, che naturalmente sono anche i sogni di una nazione colta nel suo “anno zero”? Nemes usa il suo stile plumbeo e immersivo, per quanto meno virtuoso che in passato, e il suo film pare bloccato in un passato traumatico che inevitabilmente diventa il sintomo del nostro presente. Un presente in cui la consapevolezza della complessità dei processi storici ha portato a una sostanziale immobilità, a un movimento circolare (nel finale c’è una ruota panoramica) che lascia tutto al suo posto e suggerisce l’idea che il bambino del secolo non è più in fuga (I 400 colpi), non è più vittima sacrificale (Germania anno zero), ed è sia innocente, sia colpevole, tanto figlio quanto orfano.
Roberto Manassero, voto: 8

Bugonia
di Yorgos Lanthimos
Facile irridere rettiliani, terrapiattisti e teorie del complotto varie. Più difficile riconoscere e articolare quali siano i realissimi conflitti sociali di cui esse sono la risposta pacchianamente sbagliata. Presa in prestito dal coreano Save the Green Planet del 2003, ma su un registro diametralmente opposto (urlato e sbracato quello, misurato al millimetro questo), questa storia di rapimento della CEO di una corporation chimico-agroalimentare-farmaceutica da parte di un redneck (della Georgia) che la crede un’emissaria imperiale venuta da Andromeda per sterminare l’umanità viene raccontata facendo passare il rapitore per un folle certo, ma non solo un folle. Come? Lavorando di fino con la biomeccanica attoriale di Jesse Plemons ed Emma Stone: a questo serve il fuoriclasse Lanthimos, il quale con la sua direzione di precisione pressoché musicale (che allenta il ritmo per farci entrare nel mondo, patologico solo fino a un certo punto, del protagonista) dà sostanza a un disegno concettuale dietro a cui è riconoscibile il produttore Ari Aster. Come al solito, Lanthimos flirta col riduzionismo darwiniano (tutto è riducibile a cause ed effetti psico-biologici, ed è dunque aperto alla indiscriminata manipolazione da parte del più forte) per poi abbandonarlo constatando che non siamo mai prigionieri della fantasia ideologica quanto quando crediamo che al di là di quel riduzionismo non ci sia nulla. Ciò che accomuna sottoproletario e CEO è una medesima cecità davanti al fatto che umanità e negazione dell’umanità coincidono: sorgente di entrambe è quel virus venuto da chissà dove (Andromeda?) che chiamiamo “linguaggio”.
Marco Grosoli, voto: 8

Jay Kelly
di Noah Baumbach
C’è un momento, alla fine di questo 13° lungo di fiction di Baumbach (il quarto realizzato per Netflix), in cui il super divo Jay Kelly - una star del cinema all’incirca del calibro di George Clooney, interpretata, appunto, da George Clooney - vede sullo schermo di un festival, insieme agli spettatori, il classico rullo celebrativo di spezzoni dei suoi film. Il montaggio è composto da veri film interpretati da Clooney in quarant’anni di carriera, e il controcampo sul volto commosso del divo è l’unico momento di autentico e interessante cortocircuito di un film che, per il resto, pare arrancare tra siparietti posticci. Jay Kelly è una celebrità incapace di conoscersi, uno che - come suggerisce la citazione di Sylvia Plath in esergo - pur di non essere se stesso ha scelto di essere chiunque altro (dunque: nessuno) e che per una serie di eventi ad alto impatto emotivo vede la patina anestetizzata della sua vita andare in pezzi. Ne scaturisce uno sgangherato (narrativamente e logisticamente) viaggio in Italia a bordo di un treno regionale che mette in fila tutti i più logori stereotipi sulla rappresentazione del Belpaese nello sguardo hollywoodiano; una sorta di 8 1/2 col divo al posto dell’autore in crisi, la cui estenuata somiglianza con un lungo spot Nespresso non si capisce quanto sia acuta operazione critica o solo lo scivolone di un regista altrove ben più interessante. Non la migliore prova di Clooney, sfibrato da insistenti primi piani e dall’ovvietà del meta-ruolo; a brillare, piuttosto, è il devoto e irriducibile agente incarnato da un grande Adam Sandler, a sorpresa il fulcro emotivo del film e di gran lunga il migliore in campo.
Ilaria Feole, voto: 5
29 agosto

À pied d’œuvre
di Valérie Donzelli
Paul ha deciso di essere uno scrittore: non è solo un mestiere, è una questione identitaria. Per questo, quando la casa editrice gli comunica seccamente che i suoi libri non vendono abbastanza e che non gli forniranno ulteriori anticipi per il malinconico romanzo autobiografico su cui sta lavorando, lui non si arrende e si iscrive su una piattaforma dove ci si offre per lavoretti manuali. Vince chi si vende al prezzo più basso, chiedendo risibili manciate di euro per sgomberare cantine o potare arbusti, in una gara al ribasso umiliante e spietata. Neo divorziato, circondato dall’astio e dall’incomprensione dei familiari che lo vedono sprofondare nell’indigenza, Paul non demorde, perché questo sistema di semi-schiavismo organizzato gli consente di ritagliarsi qualche ora ogni giorno per l’attività che fa di lui la persona che sa di essere: la scrittura. Donzelli adatta il romanzo autobiografico di Franck Courtes, dando forma febbrile ma mai disperata alla cocciutaggine del suo protagonista e tenendosi in delicato equilibrio fra dramma e commedia (Joe le taxi come ironica colonna sonora nel momento in cui Paul si improvvisa autista di Uber), confezionando il ritratto di un individuo pervicacemente e un po’ provocatoriamente fuori dalle regole della società contemporanea che dialoga bene col film coevo di un’altra regista francese, Ari di Leonor Serraille. Uno sguardo anomalo e inedito sulla gig economy e sulle derive del mondo del lavoro, la cui mostruosità (da tutti accettata come parte del gioco) stride con l’impassibile pacatezza di Paul (Bastien Bouillon), antieroe tra Sisifo e Bartleby di un film limpidamente politico.
Ilaria Feole, voto: 7

No Other Choice
di Park Chan-wook
Liberissimo adattamento di The Ax di Donald E. Westlake, già portato al cinema in Cacciatore di teste di Costa-Gavras, il dodicesimo lungometraggio del regista della Trilogia della vendetta racconta la parabola di un ingegnere che, dopo 25 anni nell’industria della carta (e sapete quanto stia a cuore a noi, la carta), viene lasciato a casa a causa di un passaggio di proprietà agli americani. Che fare, dunque, per mantenere lo status sociale acquisito, l’antica casa di famiglia ricomprata con fatica, il talento per il violoncello della figlia autistica che le garantisca un dopo-di-noi? Facile: uccidere. Non un solo candidato, ma - previa ricerca - tutti i possibili profili di concorrenti all’unico posto disponibile sul mercato. No Other Choice. Così, come a portare al parossismo il cuore politico di Parasite (lo spostamento da lotta di classe a lotta nella classe), il cinema barocco, musicale e post-tutto di Park informa l’ossessione sconfortata e demente del suo protagonista (l’habitué di Kim Jee-woon Lee Byung-hun) in scenette dell’assurdo, in vis à vis tra pari che sono confessionali tra stupidi poveri cristi (consumati dal lavoro o dalla sua assenza). Una tragicommedia nera e grottesca, assemblata con uno sguardo tanto lucido, determinista e rassegnato da poter concedersi di pensare all’elzeviro stilistico, alla calligrafia che sfocia nella caricatura, all’omicidio come arte surrealista. E mentre i personaggi femminili provano a far uscire i maschietti in guerra dalla propria ideologia, quello che chiamano progresso fa il proprio corso, indifferente. L’AI è dietro l’angolo. Come a dire che il dopo-di-noi è alle porte, sì, ma per tutti.
Giulio Sangiorgio, voto: 7
30 agosto

Sotto le nuvole
di Gianfranco Rosi
A Napoli la terra trema. E Gianfranco Rosi ne coglie il battito. Come nell’incompreso Notturno (l’ultimo film sul Medio Oriente prima dei Patti d’Abramo trumpiani) Rosi s’immerge letteralmente nella materia viva di un luogo esplorandone i perimetri e le profondità. Con la sua strategia del raccontare a cerchi concentrici, Rosi si avvicina progressivamente a ciò che non può essere detto, lasciando aperte le piste che lo conducono sino alle ultimissime immagini fra le correnti del mare dove (forse) si origina il tremore della Terra. Un film profondamente commosso quello di Rosi, che inizia sul filo della paura e del terrore provocato dalle scosse del bradisismo, con le telefonate al centralino dei vigili del fuoco. E poi prosegue lungo le rotte dei tombaroli per giungere agli archeologi nipponici che tentano di riportare alla luce frammenti di passato. Rosi, lavorando i tasselli del suo mosaico, è come se rivelasse il suo lavoro cinematografico: utilizzare materiali dimenticati, e rimetterli insieme, secondo connessioni lontane (o invisibili) per provare a incantare nuovamente il mondo. Napoli, in questo senso, è come una fine del mondo aurorale, una fine contenuta in un possibile inizio. Come altro dar senso dell’anziano lettore di Victor Hugo attorniato da ragazzini che lo ammirano per il semplice fatto che legge un libro... lungo? È in questi gesti di pura resistenza umana, addirittura rosselliniana, che si cela il magistero umanista di Gianfranco Rosi, uomo di cinema che continua a lavorare la materia viva delle cose per porsi delle domande sulle residue possibilità del cinema.
Giona A. Nazzaro, voto: 8

Frankenstein
di Guillermo del Toro
Progetto inseguito da Del Toro per anni, il suo Frankenstein (infine realizzato per Netflix) è una favola nera e follemente romantica, in cui il Victor Frankenstein di Oscar Isaac, con boccoli ribelli e vistosi completi da dandy, è più simile a un artista capriccioso e umorale che a uno scienziato pazzo. «Perché non parli?» è infatti l’accusa che rivolge, furente, alla sua Creatura dall’intelletto apparentemente carente, come fosse Michelangelo davanti al suo Mosè, e il “mostro” ha in effetti l’aspetto levigato e marmoreo di una scultura, nel design ispirato alle illustrazioni di Bernie Wrightson. Il fisico statuario di Jacob Elordi (che ha sostituito Andrew Garfield a poche settimane dall’inizio delle riprese), coi suoi quasi due metri d’altezza, si rivela perfetto per dar vita a una Creatura originale e struggente, una via di mezzo tra i titani di L’attacco dei giganti e una principessa Disney circondata di animaletti complici (in sequenze che sembrano l’estensione della celebre scena con la bimba dei fiori nel Frankenstein di James Whale) e protagonista di una storia d’amore molto vicina a La forma dell’acqua. Che il vero mostro sia proprio Victor, creatore (o content creator? La sua Creatura nasce capace di ripetere ad libitum solo il suo nome, come fosse marchiato da un brand) egocentrico e incapace d’empatia, restano pochi dubbi, prima ancora che un personaggio metta in parole il concetto. La poetica di Del Toro, cantore della purezza di emarginati e diversi, pur mantenendo una certa fedeltà al romanzo di Shelley trasforma la Creatura, nel finale catartico (e a suo modo lieto), in un vero e proprio supereroe: e se questa non fosse stata che una origin story?
Ilaria Feole, voto: 7
I film in concorso
La grazia
Drammatico - Italia 2025 - durata 131’
Regia: Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Anna Ferzetti, Orlando Cinque, Massimo Venturiello, Milvia Marigliano, Giuseppe Gaiani
Al cinema: Uscita in Italia il 15/01/2026
Orphan
Drammatico - Ungheria, Francia, Germania, Regno Unito 2025 - durata 132’
Titolo originale: Árva
Regia: Laszlo Nemes
Con Bojtorján Barabas, Gyorgy Bojtik, Andrea Waskovics
Bugonia
Fantascienza - USA, Corea del Sud, Irlanda 2025 - durata 117’
Titolo originale: Bugonia
Regia: Yorgos Lanthimos
Con Emma Stone, Jesse Plemons, Aidan Delbis, Alicia Silverstone, Stavros Halkias, Ash Smith
Al cinema: Uscita in Italia il 13/11/2025
Jay Kelly
Commedia - USA 2025 - durata 132’
Titolo originale: Jay Kelly
Regia: Noah Baumbach
Con George Clooney, Adam Sandler, Billy Crudup, Laura Dern, Grace Edwards, Stacy Keach
Al cinema: Uscita in Italia il 19/11/2025
À pied d’œuvre
Drammatico - Francia 2025 - durata 92’
Titolo originale: À pied d’œuvre
Regia: Valérie Donzelli
Con Bastien Bouillon, Virginie Ledoyen, Marie Rivière
No Other Choice
Giallo - Corea del Sud 2025 - durata 139’
Titolo originale: No Other Choice
Regia: Chan-wook Park
Con Lee Byung-hun, Son Ye-jin, Yoo Yeon-seok, Park Hee-soon, Yeom Hye-ran, Cha Seung-won
Sotto le nuvole
Documentario - Italia 2025 - durata 115’
Regia: Gianfranco Rosi
Al cinema: Uscita in Italia il 18/09/2025
Frankenstein
Horror - Regno Unito, Messico, USA 2025 - durata 149’
Titolo originale: Frankenstein
Regia: Guillermo Del Toro
Con Oscar Isaac, Jacob Elordi, Mia Goth, Christoph Waltz, Charles Dance, David Bradley
Al cinema: Uscita in Italia il 22/10/2025
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