Festival di Cannes 2025
Il TotoPalma di Film Tv
Andrea Bellavita
Vorrei: Sound of Falling di Mascha Schlinski
Vincerà: Un simple accident di Jafar Panahi
Eddie Bertozzi
Vorrei: Un simple accident di Jafar Panahi
Vincerà: Un simple accident di Jafar Panahi
Pietro Bianchi
Vorrei: Sound of Falling di Mascha Schlinski
Vincerà: Un simple accident di Jafar Panahi
Massimo Causo
Vorrei: O agente secreto di Kleber Mendonça Filho
Vincerà: Sirat di Oliver Laxe
Adriano De Grandis
Vorrei: Sirat di Oliver Laxe/O agente secreto di Kleber Mendonça Filho
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Simone Emiliani
Vorrei: Fuori di Mario Martone/Nouvelle Vague di Richard Linklater
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Ilaria Feole
Vorrei: Un simple accident di Jafar Panahi
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Marco Grosoli
Vorrei: Sirat di Oliver Laxe
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Roberto Manassero
Vorrei: Sound of Falling di Mascha Schlinski
Vincerà: Un simple accident di Jafar Panahi
Emanuela Martini
Vorrei: O agente secreto di Kleber Mendonça Filho
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier/Sound of Falling di Mascha Schlinski
Giona A. Nazzaro
Vorrei: The Mastermind di Kelly Reichardt
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Luca Pacilio
Vorrei: Sirat di Oliver Laxe
Vincerà: O agente secreto di Kleber Mendonça Filho
Emanuele Sacchi
Vorrei: Nouvelle Vague di Richard Linklater
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Giulio Sangiorgio
Vorrei: Nouvelle Vague di Richard Linklater
Vincerà: Sentimental Value di Joachim Trier
Le recensioni dei film in concorso
14 maggio

Deux procureurs
di Sergei Loznitsa
1937, apogeo del terrore staliniano. La prigione è così parte del mondo sovietico che nella monocorde fotografia digitale di Oleg Mutu non la si distingue da un cantiere. Il giovane procuratore che riceve la richiesta di colloquio di un prigioniero speciale (un vecchio bolscevico arrestato per tradimento) vuole però distinguersi dagli altri uomini d’ordine (guardie, direttori di prigione, il secondo procuratore) e interpretare alla lettera la giustizia comunista. Un povero idealista, o forse un sonnambulo visto che dorme sempre (nelle infinite anticamere, nei viaggi in treno), e sembra non accorgersi di nulla. La storia e la prigione finiscono per inghiottirlo, impassibili come questo film diritto e senza sbavature tratto da un testo di Georgij Demidov (arrestato nel 1938, riabilitato vent’anni dopo), in cui la vena tragicomica di Loznitsa rimane sospesa nell’aria soffocante e finisce per disperdere la tragedia nell’indifferenza di chi la vive.
Roberto Manassero, voto: 7

Sound of Falling
di Mascha Schilinski
Altmark, Sassonia. Il set è un unico luogo: qui, Here, è una casa contadina, attraversata dal tempo. E dalla Storia. Gli anni 10, 40, 80 del Novecento e i giorni nostri. Quattro tempi di una famiglia (come in Invelle): voci lontane sempre presenti, destini che si ripetono, spettri che insistono. Di donne, soprattutto. Come spiegare in poche battute questo film di Mascha Schilinski? Gli enigmi sospesi di Il giardino delle vergini suicide, la causalità impietosa eppure subdola di Il nastro bianco, la sensorialità dei fantasmi di certo cinema anni zero (chi si ricorda, per esempio, di Jazmín López e Leonardo Brezicki?), il senso per il frammento iperrealista (e quindi surrealista) di Philip Gröning (Mio fratello si chiama Robert ed è un idiota). Sono solo possibili riferimenti (alti, altri) per provare a dire questa partitura audiovisiva, laconica ed ellittica, che fa precisa critica della Storia tramite echi sonori e raccordi visivi. E che, dunque, crede nel cinema.
Giulio Sangiorgio, voto: 8
15 maggio

Sirat
di Oliver Laxe
Si dice che un uomo raggiunga la pace quando impara a «lasciare andare». Non è ciò che pensa il protagonista di Sirat (Sergi Lopez) che, col piccolo secondogenito, è in cerca della figlia fuggita in Marocco, nel deserto, tra il popolo che si celebra nei rave party. Scampati a uno sgombero, i nostri si dirigono, con un gruppetto di veterani della subcultura, verso un’ulteriore possibile festa: il luogo - ecco un eufemismo - è poco ospitale e inadatto al loro equipaggiamento. In Concorso (per intercessione del produttore esecutivo Almodovar?), Laxe propone con impietoso sadismo (anche se sul catalogo lo dicono «umanista») lo scontro impari, demente, tra il desiderio presuntuoso dell’uomo e la logica irriducibile di un ambiente. Come possono quelle pretese, quei corpi, quella musica, abitare quello spazio? Il film (estatico, teso, ricattatorio) è la parabola programmatica (e dunque coerentemente ottusa, stupida, inappellabile, tra l’opera radicale e la brutale stronzata) di un rigetto.
Giulio Sangiorgio, voto: 6

Dossier 137
di Dominik Moll
«Chi sorveglia i sorveglianti?». In Francia la IGPN, ovvero «la polizia della polizia». Così l’ispettrice Stéphania (Léa Drucker) indaga sul caso di un giovane gravemente ferito, senza apparente motivo, durante una manifestazione di gilet jaune. Individua i colleghi responsabili, trova un video che li condanna: ma non lo sa che il potere si autoassolve sempre? Basandosi liberamente su fatti realmente accaduti e facilmente ripetibili, Moll adatta il modus operandi del true crime (con tanto di fotografie reali delle manifestazioni e found footage costruito ad hoc) alla fiction con classico personaggio idealista (non troppo distante da quello di Loznitsa): una donna che crede in quello che è giusto e non in quello che serve, una madre che lotta per un figlio che potrebbe essere suo. Non c’è manicheismo, ma ordine e nitore, nel delineare riflessi, tensioni contraddittorie e paradossi (i manifestanti non sono simili agli sbirri?). E non c’è relativismo: c’è presa di posizione.
Giulio Sangiorgio, voto: 7
16 maggio

La petite dernière
di Hafsia Herzi
All’opera terza dietro la macchina da presa, la star francese Hafsia Herzi porta sullo schermo il romanzo autobiografico di Fatima Daas (La più piccola, Fandango libri), coming of age di una liceale musulmana la cui identità queer è prima un rimosso, poi un fardello con cui lottare corpo a corpo, infine una consapevolezza di sé da abbracciare pienamente. Raccontato in quattro (più una) stagioni, il percorso di Fatima (l’ottima esordiente Nadia Melliti) evoca in più di un’atmosfera un La vita di Adele in minore, e il confronto risulta impari: Herzi ha qualche buona intuizione e sa dirigere le sue attrici (accanto a Melliti, la magnetica Par Ji-min di Ritorno a Seoul), ma impagina il romanzo di formazione in modo scolasticamente prevedibile, con montaggio didascalico (dalla sensuale doccia con effusioni saffiche si passa alle abluzioni musulmane) e uno sguardo sui corpi troppo convenzionale per esprimere il tumulto della protagonista.
Ilaria Feole, voto: 5

Eddington
di Ari Aster
Pressione: è questo il tema di Aster, cioè come un individuo possa esistere o resistere all’assedio psichico dell’intorno. La famiglia, i pari, la religione, la Madre, e oggi, con Eddington, ogni tema sociopolitico in agenda, esasperato dalle estensioni tecnologiche: dopo il film-cervello Beau ha paura, si slitta verso la superficie della satira del sociale (capace di spingere fino all’assurdo i paradossi odierni), e fa sì che il protagonista (e il suo cinema) attraversino e si facciano attraversare dai discorsi binari, dall’oltre complottista à la Pynchon, dall’eccesso di forme dell’oggi (meltin’ pot di generi, pose videoludiche), rincorrendo posizioni e assumendo fedi idiote e volatili una dopo l’altra, per poi schiantare in un massacro in cui ognuno fa altrettanto, con la propria idea, la propria identi-tàg, il proprio piano. Il secondo film-apocalissi del Concorso: Laxe si occupa del vuoto, Aster si preoccupa del pieno. La fine è la stessa: vicina. Non poco, ma tutto qui.
Giulio Sangiorgio, voto: 6
17 maggio

Renoir
di Chie Hayakawa
Inizia come un cupissimo thriller, questo coming of age agrodolce sull’estate particolare dell’undicenne Fuki, ma è un thriller che va in scena solo nel suo iperattivo cervello di preadolescente. Siamo nel Giappone del 1987, tra primi esperimenti di dating virtuale (tramite segreterie telefoniche) e «cure miracolose» contro il cancro, che si sta portando via il papà di Fuki: i medici dicono che non vedrà la fine dell’estate, lei scova il vestitino che la madre le ha comprato per il funerale e lo getta via. Posato sulle spalle esili e sugli occhi vispi della giovanissima Yui Suzuki, il film semi-autobiografico di Chie Hayakawa ha l’ammaliante capacità di riprodurre sullo schermo (grazie a una regia intelligente, che dice tutto nonostante Fuki parli pochissimo) lo sguardo infantile, la logica sghemba eppure infallibile con cui inquadra l’immaturità degli adulti, come in una versione live action di un film Studio Ghibli, con grazia mai leziosa.
Ilaria Feole, voto: 7

Nouvelle Vague
di Richard Linklater
Parigi, 1959. La Nouvelle Vague è già un’espressione, i «Cahiers» una certezza, I 400 colpi un successo (è dégueulasse, cioè orrendo e dunque stupendo per i giovani turchi) e il solo Godard non è ancora passato alla regia. Lo farà anche lui, e la storia di come si arrivò a Fino all’ultimo respiro è ciò di cui parla il film di Linklater, che da americano ha osato omaggiare il cinema francese nel santuario di Cannes. Chapeau al coraggio e alla brillantezza, anche se sfugge il senso complessivo dell’operazione iper-documentata (ci sono tutti, compresi Rossellini e Bresson). Il film è girato à la Godard, in bianco e nero, divertito e divertente, e ha il pregio di non sovrapporsi all’originale (alla maniera del Costanzo di Finalmente l’alba), ma di replicarne la bellezza e il respiro. Rompiballe ma simpatico, Godard ci fa un’ottima figura, come del resto tutti gli altri, cullandoci nell’idea che la storia del cinema sia il sogno di un cinefilo.
Roberto Manassero, voto: 7
18 maggio

La trama fenicia
di Wes Anderson
«A me non servono i diritti umani» proclama Zsa-zsa Korda, imprenditore senza scrupoli e senza passaporto, che elargisce bombe a mano come fossero cioccolatini e ha subìto così tanti tentativi di omicidio da essere ormai stufo di sopravvivere. Un Mr. Fox a rovescio, che usa i suoi piani ben architettati non per rubare ai ricchi e dare ai poveri, ma per garantire che nessuno si arricchisca più di lui. Nell’impassibile e irresistibile performance di Benicio Del Toro vivono spettri di Orson Welles (Arkadin), di Howard Hughes (hanno un ruolo centrale anche i suoi cari - in tutti i sensi - rivetti), di Peter Sellers (siamo in piena Guerra fredda, tra spie e summit alla Dr. Stranamore), ma ovviamente pure di Trump: «Per quanto mi riguarda, mi sento al sicuro» dichiara sornione Zsa-zsa mentre mette a repentaglio chiunque gli stia intorno e progetta resort, dighe e ferrovie nella «zona di guerra perpetua» che è la fittizia Fenicia (la cosa più simile alla Palestina nel cinema statunitense di oggi: è, senza dubbio, il film più politico di Wes Anderson). Il personaggio, però, è ispirato al defunto suocero del regista, l’imprenditore libanese Fouad Malouf (cui il film è dedicato), e dietro la godibile superficie da spy movie c’è l’ironico e toccante ritratto di un legame padre-figlia: in vista di una possibile morte effettiva, dopo le tante scampate, Zsa-zsa sceglie come unica erede l’unica figlia femmina, la suora Liesl, per la quale, come sempre accade coi padri nei film di Wes Anderson, non è mai stato davvero un genitore; i due stipulano un «periodo di prova» (un’andersoniana versione di Il piccolo lord) durante il quale Liesl (una sorprendente Mia Threapleton, figlia d’arte di Kate Winslet) viene messa a parte della complessa trama fenicia. Ossia uno dei classici, elaborati e contorti piani che i personaggi di Anderson amano disegnare, qui schematizzato tramite un sistema di scatole da scarpe (c’è sempre più Greenaway, nel regista texano) che simboleggiano le quote (come quelle di co-produzione per un film indipendente: Zsa-zsa, a modo suo, è un Autore, non per niente ha il cognome di una dinastia di cineasti) necessarie a colmare il gap, e che coinvolgono affaristi variegati, tra cui Tom Hanks & Bryan Cranston nei panni dei “fratelli di Sacramento”, coeniano duo di americani caricaturali con Coca-cola e barrette Hershey. Tra «terroristi comunisti rivoluzionari», colonizzatori senza sentimenti e lezioni sugli insetti (impartite da uno strepitoso Michael Cera, un altro corpo attoriale che sembra nato per lo stilizzato cinema di Anderson) va in scena anche un’inedita (scanzonata e disincantata) riflessione sulla fede, con visioni oniriche in bianco & nero (non riveliamo chi impersona il Creatore) dove Zsa-zsa si trova giudicato per quello che è: pessimo padre, ottimo cuoco, ma di sicuro umano, non «biblico» come il barbuto e mefistofelico Benedict Cumberbatch. Un film di spionaggio e d’avventura che guarda alla presunta innocenza degli happy days dell’America anni 50 solo per ricordarci che in politica, e non solo, tutto si riduce a «chi batte chi, e in cosa», che poi è «la fonte di tutti i problemi sulla Terra». Un grande film.
Ilaria Feole, voto: 8

Die, My Love
di Lynne Ramsay
«Non se ne parla abbastanza, di depressione post partum» dice, affettando compassione, una mamma modello alla sregolata Grace, neo madre uscita da un istituto di cura. «Veramente mi pare che non si parli d’altro» risponde Grace prima di denudarsi e buttarsi in piscina davanti agli ospiti costernati: il succo del film della britannica Lynne Ramsay ci pare sia tutto qui, nel tentativo esasperato di rompere non solo le narrazioni ipocrite sulla gioia della maternità, ma anche le rassicuranti tiritere sulla normalità del fuori norma. Politicamente scorretto, incendiato da una performance monumentale di Jennifer Lawrence (anche produttrice, insieme a Scorsese), dalla lussureggiante fotografia (ingabbiata, come Grace, in 4:3) di Seamus McGarvey (sodale di Joe Wright) e da una colonna sonora memorabile, è un film slabbrato e ridondante, il sequel ideale di madre! di Aronofsky, un ritratto di donna bestiale, un horror psicologico, erotico, isterico.
Ilaria Feole, voto: 7

O agente secreto
di Kleber Mendonça Filho
1977, Brasile, dittatura militare. Il protagonista è Marcelo, pardon: Armando, ricercatore universitario scientifico, sotto copertura. Perché? Lo scopriamo lentamente: è evidente che il cinema, oggi, metta in abisso un sentire del presente, ponendo lo spettatore in una posizione paradossale e familiare. Troppe info, e non quelle giuste per orientarsi. Così O agente secreto fa il pari con Mission: Impossible - The Final Reckoning, Eddington, La trama fenicia. Il complotto, qui, non è un’ipotesi: c’entra (come nei già citati) il fantasma oppressivo del potere politico quanto (soprattutto) quello del mercato. Come sempre Mendonça Filho si muove nell’archivio di storie possibili sedimentate nel tempo a Recife, godendosi questo troppo, impuntandosi come un archeologo dei media per metterlo in ordine e farne memoria, ma lasciandosi anche andare a digressioni e sospensioni di pura gioia cinefila, che sono semi di ulteriori film possibili.
Giulio Sangiorgio, voto: 8
19 maggio

Eagles of the Republic
di Tarik Saleh
Il cinema come atto politico è al cuore narrativo e poetico del film dello svedese di padre egiziano Tarik Saleh: a un divo del cinema nazionalpopolare viene chiesto di interpretare l’attuale presidente al-Sisi in un film di sfacciata propaganda celebrativa, e per essere sicuri che non si sottragga all’impegno il regime minaccia la sua famiglia e fa di lui un burattino, costretto a recitare non più per la fama, ma per la sopravvivenza. Saleh, capace come sempre di ibridare cinema di genere e spaccato sociale militante (La cospirazione del Cairo, Omicidio al Cairo), firma un’opera di scoperta e nettissima denuncia, col nome e il volto del dittatore egiziano in piena vista, in un film che inizia come una commedia nera, procede come un thriller (notevole la prova, altrettanto “mutante”, del suo attore feticcio Fares Fares) e usa il metacinema per riflettere, in modo amaramente ironico e paradossale, sul potere violento delle immagini sullo schermo.
Ilaria Feole, voto: 7

Alpha
di Julia Ducournau
Anni 80. Ubriaca a una festa, Alpha, 13 anni, è tatuata con una A. Ma è tempo di AIDS: sicuri che l’ago fosse sicuro? Nella madre medico sale l’angoscia, a scuola il sospetto si fa stigma e in casa compare, con tempismo (troppo) perfetto per non voler dire nulla, il fratello di mammà. Un eroinomane. Che era morto di contagio. O forse no. Perché anche i fantasmi, qui, sono della sostanza del presunto reale: troppo vicini per dirli veri oppure no, febbricitanti, distorti, esasperati dalla colonna sonora. Come in Titane, la regista apparecchia per lo spettatore un banchetto di simboli e metafore (a cominciare dal titolo) per svuotarli poi con foga, in un cinema post-tutto («un centrifugato di Cremaster e Romero, L’homme blessé e Carrie, s’il vous plait») sicuramente originale, libero da retoriche (ma con morale sul confronto con lutto e malattia, oltre la religione e la medicina), fatto in primis di se stesso, superficie e materia deliberatamente scioccante.
Giulio Sangiorgio, voto: 6
20 maggio

Un simple accident
di Jafar Panahi
C’è l’eco di La morte e la fanciulla nell’ultimo film di Panahi, il primo puramente narrativo dai tempi di Offside (2006). Nell’Iran di oggi, un uomo rapisce un padre di famiglia convinto si tratti dall’agente che l’ha torturato in carcere e del quale non ha mai visto il volto ma solo ascoltato il ticchettio dei passi della sua gamba di legno. Da qui nasce una dramma sul filo dell’assurdo (l’altro riferimento è Beckett, citato), in cui altri ex prigionieri – uomini e donne, e ognuno con la propria morale – si uniscono al rapitore per vendicarsi. A scartare rispetto all’opera teatrale di Ariel Dorfmann (e dal successivo film di Polanski), che a distanza di anni ripensava alle violenze di Pinochet, è la ricaduta sul presente della riflessione di Panahi, ex prigioniero politico che ha girato in patria senza permessi ed è nella posizione – anche per lui morale, ma pure politica – di girare un film imperfetto ma, questo sì, necessario.
Roberto Manassero, voto: 8

Fuori
di Mario Martone
Fuori. Ma rispetto a cosa? O dove? Nel mettere in scena la vita di Goliarda Sapienza, colta nella parentesi fra il carcere e la scrittura, Mario Martone rivela una complessità inaudita, pur calata in un percorso autoriale che non ha mai cessato di mettersi in discussione. Filmare l’apparentemente immobile farsi di una voce, in una serie di spazi (la memoria del carcere, le erranze fra i Parioli e Piazza del popolo a Roma, la stazione Termini...) dove il tempo diventa la proiezione di un’interiorità, colto in una sospensione, come se il futuro fosse già accaduto (sì, ma dove?). A tutto questo la fotografia di Paolo Carnera accorda un’attonita frontalità desaturata. Martone, che ha lavorato in profondità con Ippolita Di Majo, sui testi e la storia della protagonista, osservandola fra le pieghe di una storia sociale (e di classe, e di ambiente intellettuale...), offre l’immagine profondamente commovente di un corpo come se fosse di passaggio, anche mentre si strugge nella solitudine del suo appartamento deserto. Come reinventando i deserti (rossi e non...) di Antonioni (lo sguardo architetturale è magistrale), Martone conduce tutta la vicenda della protagonista in una dimensione spaziale vertiginosa. Roma diventa così una città astratta, tutta popolata di fantasmi: quelli della lotta armata, dell’eroina e delle carceri, una città in cui Goliarda, Roberta e Barbara fluttuano leggere (o pesantissime) sulla Terra. Questa danza fra le pieghe del tempo (della storia e della memoria, ma comunque entrambe ingannevoli) diventa un nuovo progetto per riabitare un luogo, nell’attesa che la parola possa raccontarlo. Il montaggio di Jacopo Quadri, in tal senso, è un sensuale gioco di specchi nel quale il corpo della Golino balla incantato con una Matilda De Angelis a dir poco sublime nel suo proporre una fragilità proletaria fra i segni baluginanti di una bellezza aurorale, e con una Elodie nel cui incedere sembra riverberare la memoria di una cultura contadina scomparsa. Martone filma queste donne con l’intelligenza di George Cukor (ma volutamente privata della sua cattiveria acida), con la precisione di un Mankiewicz (cui – paradossalmente! - sottrae il teatro) e la spietata dolcezza dell’ultimissimo Ford, quello di Missione in Manciuria. Ogni gesto delle protagoniste sembra strappato alle viscere di un dolore sordo, che diventa affermazione di una possibilità (così come da liti violente e feroci si passa a generosità indicibili). E le corse di Roberta e Goliarda nella notte, a bordo di un’auto rubata, diventano l’estensione delle fughe di Oreste e Felice di Nostalgia (e, mai!, la musica e la voce di Robert Wyatt hanno trovato al cinema una tale aderenza alle immagini). La bellezza siderale del film di Martone, di una giustezza implacabile e infinitamente dolce, riverbera in tutti i dettagli delle scenografie e dei costumi (i jeans di Roberta, gli zoccoletti di Barbara, le boccette dei profumi...). Fuori, ma rispetto a cosa? O dove? A questa domanda il film risponde con una precisione poetica ineluttabile, una precisione poetica così radicale da farsi – per la nettezza del suo gesto – testimonianza politica.
Giona Nazzaro, voto: 10
21 maggio

Sentimental Value
di Joachim Trier
Lei (Renate Reinsve) è un’attrice di teatro (e serie tv). Lui (Stellan Skarsgård) è il padre mancato per troppo tempo e un maestro del cinema pronto all’ultimo film: vorrebbe la figlia, come protagonista, ma in risposta riceve un rifiuto. Al suo posto una diva di Hollywood (Elle Fanning) che ci si dedica intensamente. Ma è la persona giusta? Il set, del film e del film-nel-film, è la casa di famiglia. Dunque il cinema è anche e soprattutto un museo della memoria (come in O agente secreto). Trier è un Allen di oggi, guarda le fragilità privilegiate dei millennial (la storia è quella traumatica di non-amore tra padre e figlia) ma col distacco ironico e amorale della gen-Z: non importa se i protagonisti siano giusti o no, di talento o no, funzionano così. Ma c’è una cosa a salvarlo dal cinismo e dall’algoritmo del film d’autore pronto a piacere a tutti: per lui il cinema è l’unico luogo possibile in cui provare a riordinare gli affetti. Ed è questo, il valore sentimentale che conta.
Giulio Sangiorgio, voto: 7

Romería
di Carla Simón
Dopo Estate 1993, in cui raccontava la morte di AIDS della madre dalla prospettiva della bambina che era, Carla Simón, oggi una donna di quasi quarant’anni forse pacificata con le sue origini, si confronta con un’altra morte, quella del padre, avvenuta nel ’92 sempre per AIDS. Per farlo si sdoppia nell’alter ego Marina, che nel 2004, a 18 anni, si reca a Vigo dai nonni paterni per essere riconosciuta legalmente parte della famiglia. Il cinema è già nella sua vita (ha una camera digitale con cui filma tutto), il passato emerge un po’ alla volta dai ricordi degli zii e da un diario della madre, mentre nel finale i fantasmi dei genitori tossicodipendenti prendono vita in un’inattesa sequenza onirica. Ed è qui che il film perde il suo passo, cedendo a un realismo magico fuori tono (la fotografia di Hélène Louvart è ormai un cliché), quando nella grande sequenza centrale dell’incontro con i nonni anaffettivi trasmette tutta la rabbia, l’orgoglio e il dolore di un’orfana.
Roberto Manassero, voto: 6

The History of Sound
di Oliver Hermanus
È naturale: quando a un festival di cinema “da festival” si incontra un film che cerca il ritmo e la lingua del classico, si tira un sospiro di sollievo. Succede questo, giusto il tempo di un sospiro, con The History of Sound, film con Paul Mescal e Josh O’Connor, che s’incontrano nel 1917 per amor della musica e si legano per un tempo sospeso, segnante, mentre percorrono il Maine registrando canti popolari, come fossero Alan Lomax. A separarli la carriera, la paura del passo fuori norma sociale, i traumi aperti della guerra: quel che resta, poi, lontani l’uno dall’altro, sono l’attesa in un tempo in cui era possibile, l’irrequietezza di un presente incompiuto, l’ancorarsi alla memoria che strugge e insiste. Tratto da un racconto, è cinema ben impaginato, educato nel suo essere sentimentale, molto di superficie nel delineare i personaggi. Con un merito inconsapevole: dimostrare, per contrasto, quanto fosse grande James Ivory.
Giulio Sangiorgio, voto: 6
22 maggio

Woman and Child
di Saeed Roustaee
Come in un film di Farhadi, ma senza i suoi intricati dubbi morali, l’ultimo lavoro di Saeed Roustaee (che a Cannes tre anni fa avrebbe forse meritato la Palma d’oro per Leila e i suoi fratelli) costruisce un dramma familiare che ruota attorno alla morte di un adolescente (con bell’inizio à la I 400 colpi) e al dolore bisognoso di vendetta della madre affranta. Il clima di tensione incalzante tipico del regista, che ha nella messa in scena spesso sgangherata un paradossale punto di forza, a questo giro apre a una vicenda da telenovela (con tradimenti, ritorsioni, riappacificazioni) che fa susseguire in modo impudico e gratuito un colpo di scena dopo l’altro. Il problema è che la società iraniana e le sue contraddizioni (la gestione della vergogna sociale di una donna, per esempio, o i punti ciechi della giustizia) restano sullo sfondo, rivelando in modo troppo esposto un meccanismo narrativo sgraziato.
Roberto Manassero, voto: 5

Resurrection
di Bi Gan
Diviso in sei capitoli, il nuovo e attesissimo film di Bi Gan evoca un mondo nel quale si vive all’infinito e non si sogna più. Una donna (Shu Qi), forse una vampira, avendo compreso che l’essere mostruoso (Jackson Yee) che la perseguita non intende farle del male, lo rianima attivando fra le pieghe della sua schiena un meccanismo che ricorda un antico proiettore cinematografico. Fluviale, Resurrection intreccia l’espressionismo tedesco a 2046, Le tentazioni della luna a L’Atalante senza dimenticare follie degne del miglior Clarence Fok. Film infinito, elabora una resistenza all’elaborazione infinita del lutto che si colloca – ancora – fra Strange Days e Holy Motors. Ma sono solo macro-indicazioni. Il gesto, generoso e proliferante, rizomatico, è solo di Bi Gan: un film che ambisce a essere tutto il cinema possibile, con i suoi rimandi immersivi a Cocteau (in fondo siamo dalle parti di La bella e la bestia). Magnifico.
Giona A. Nazzaro, voto: 10
23 maggio

Jeunes mères
di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Una casa di sostegno per giovani madri è il luogo da cui partono e ritornano le giornate delle cinque protagoniste di Jeunes mères, decimo film in Concorso a Cannes dei fratelli Dardenne: un pedinamento corale, a staffetta, di figlie segnate dal passato e non ancora pronte a essere mamme. Tossicità assortite, genitori mancanti o ingombranti, uomini violenti o indifferenti, depressioni post-parto: come possono resistere, queste fragili figure, all’assedio dell’intorno? I Dardenne concepiscono il film come un prelievo di storie allarmanti da un basso in cui la maternità è un problema tra i problemi. Come in un’inconsapevole risposta al set privilegiato (e ai fantasmi interiori) di Die My Love. Nel loro realismo insieme stilizzato e immersivo, antipsicologico, tutto di superficie, e dunque incentrato sull’agire, è il tour de force della drammaturgia - sfinente nel torturare le protagoniste - a definire personaggi che restano allo stato di esempi di un preciso programma di denuncia.
Giulio Sangiorgio, voto: 5

The Mastermind
di Kelly Reichardt
Attraverso una progressiva depurazione del suo sguardo, Kelly Reichardt realizza un omaggio attonito a un ladro d’oggetti d’arte (Josh O’Connor) che – contrariamente alla sua nomea di essere la mente della sua banda e compiendo una serie di errori dietro l’altro – riesce a far deragliare completamente la sua vita. La regista crea spazi vuoti attraverso inquadrature di depurata geometria che progressivamente rivela il tempo nel quale il film è ambientato. Come una deriva fatalista e bressoniana, The Mastermind si offre come una progressiva discesa nel proprio destino che s’invera un gesto alla volta come se questi fossero la musica della tessitura delle cose. Film disperato ed essenziale, si presenta come una virata nel percorso della Reichardt rivelando un’ancora più paradossale padronanza del fare: una poetica della sottrazione che manifesta l’essere nel mondo e per la morte. Un film misterioso e dolente di una regista all’apice delle sue potenzialità.
Giona A. Nazzaro, voto: 9
I film in concorso
Eagles of the Republic
Thriller - Francia, Svezia, Danimarca 2025 - durata 125’
Titolo originale: Les aigles de la république
Regia: Tarik Saleh
Con Fares Fares, Lyna Khoudri, Amr Waked, Cherien Dabis, Zineb Triki, Suhaib Nashwan
The Mastermind
Giallo - USA 2025 - durata 110’
Titolo originale: The Mastermind
Regia: Kelly Reichardt
Con Josh O'Connor, Gaby Hoffmann, John Magaro, Bill Camp, Hope Davis, Alana Haim
Jeunes mères
Drammatico - Belgio, Francia 2025 - durata 105’
Titolo originale: Jeunes mères
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
Con Babette Verbeek, Elsa Houben, Janaina Halloy Fokan, Lucie Laruelle, Samia Hilmi
Resurrection
Fantascienza - Cina, Francia 2025 - durata 160’
Titolo originale: Kuang ye shi dai
Regia: Bi Gan
Con Shu Qi, Jackson Yee, Mark Chao, Yi Zhang, Lei Hao, Hong-Chi Lee
Woman and Child
Drammatico - Iran 2025 - durata 131’
Titolo originale: Woman and Child
Regia: Saeed Roustayi
Con Parinaz Izadyar, Payman Maadi, Soha Niasti, Hassan Pourshirazi, Fereshteh Sadre Orafaiy, Maziar Seyedi
The History of Sound
Sentimentale - USA 2025 - durata 127’
Titolo originale: The History of Sound
Regia: Oliver Hermanus
Con Paul Mescal, Josh O'Connor, Peter Mark Kendall, Molly Price, Chris Cooper, Will Fitz
Romería
Drammatico - Spagna 2025 - durata 115’
Titolo originale: Romería
Regia: Carla Simón
Con Tristán Ulloa, Sara Casasnovas, Miryam Gallego, José Ángel Egido, Janet Novás, Mitch Martin
Sentimental Value
Commedia - Norvegia, Germania, Danimarca, Francia, Svezia 2025 - durata 135’
Titolo originale: Sentimental Value
Regia: Joachim Trier
Con Elle Fanning, Stellan Skarsgård, Cory Michael Smith, Renate Reinsve, Jesper Christensen, Catherine Cohen
Fuori
Drammatico - Italia 2025 - durata 115’
Regia: Mario Martone
Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi, Carolina Rosi
Al cinema: Uscita in Italia il 22/05/2025
Un simple accident
Thriller - Francia, Iran 2025 - durata 105’
Titolo originale: Un simple accident
Regia: Jafar Panahi
Con Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten, Majid Panahi, Mohamad Ali Elyasmehr
Alpha
Drammatico - Francia, Belgio 2025 - durata 128’
Titolo originale: Alpha
Regia: Julia Ducournau
Con Mélissa Boros, Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Emma Mackey, Finnegan Oldfield, Jean-Charles Clichet
Two Prosecutors
Storico - Francia, Germania, Olanda, Lettonia, Romania 2025 - durata 117’
Titolo originale: Two Prosecutors
Regia: Sergei Loznitsa
Con Alexander Kuznetsov, Anatoliy Belyy, Vytautas Kaniusonis, Valentin Novopolskij, Aleksandr Filippenko, Ivgeny Terletsky
O agente secreto
Thriller - Brasile 2025 - durata 160’
Titolo originale: O agente secreto
Regia: Kleber Mendonça Filho
Con Wagner Moura, Udo Kier, Gabriel Leone, Maria Fernanda Cândido, Hermila Guedes, Thomas Aquino
Die, My Love
Horror - Regno Unito, USA 2025 - durata 118’
Titolo originale: Die, My Love
Regia: Lynne Ramsay
Con Jennifer Lawrence, Robert Pattinson, Nick Nolte, Sissy Spacek, Lakeith Stanfield, Sarah Lind
La trama fenicia
Azione - USA, Germania 2025 - durata 105’
Titolo originale: The Phoenician Scheme
Regia: Wes Anderson
Con Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera, Scarlett Johansson, Rupert Friend, Tom Hanks
Al cinema: Uscita in Italia il 28/05/2025
Nouvelle Vague
Drammatico - Francia 2025 - durata 105’
Titolo originale: Nouvelle Vague
Regia: Richard Linklater
Con Zoey Deutch, Alix Bénézech, Paolo Luka Noé, Guillaume Marbeck, Jade Phan-Gia, Aubry Dullin
Renoir
Drammatico - Giappone, Francia 2025 - durata 116’
Titolo originale: Renoir
Regia: Chie Hayakawa
Con Yumi Kawai, Lily Franky, Ryôta Bandô, Charlie St. Cyr, Ayumu Nakajima, Hikari Ishida
Eddington
Horror - USA 2025 - durata 145’
Titolo originale: Eddington
Regia: Ari Aster
Con Austin Butler, Emma Stone, Pedro Pascal, Joaquin Phoenix, Luke Grimes, Clifton Collins jr.
La Petite Dernière
Drammatico - Francia, Germania 2025 - durata 106’
Titolo originale: La Petite Dernière
Regia: Hafsia Herzi
Con Nadia Melliti, Park Ji-min, Aloïse Sauvage, Nemo Schiffman, Olivia Courbis, Vincent Pasdermadjian
Dossier 137
Giallo - Francia 2025 - durata 116’
Titolo originale: Dossier 137
Regia: Dominik Moll
Con Léa Drucker, Yoann Blanc, Antonia Buresi, Etienne Guillou-Kervern, Guslagie Malanda, Kevin Debonne
Sirat
Drammatico - Spagna 2025 - durata 115’
Titolo originale: Sirat
Regia: Oliver Laxe
Con Sergi López, Bruno Núñez, Stefania Gadda, Joshua Liam Herderson, Tonin Javier, Jade Ouki
Sound of Falling
Drammatico - Germania 2025 - durata 159’
Titolo originale: In die Sonne schauen
Regia: Mascha Schilinski
Con Filip Schnack, Luise Heyer, Lea Drinda, Susanne Wuest, Lena Urzendowsky, Gode Benedix
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