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La bella generazione. Breve viaggio tra i nuovi volti del cinema italiano.
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Dopo Che ne sarà di noi (Giovanni Veronesi, 2004), istintivamente e senza prendermi troppo tempo per pensarci, ho subito indicato Elio Germano, classe 1980, come il miglior attore italiano non solo della sua generazione, la mia dopotutto – nato nel 1978, ma dell’intera storia cinematografica italiana, facilmente accostabile agli storici “moschettieri” del cinema nostrano come Sordi, Manfredi, Gassmann, Tognazzi e Mastroianni – tant’è che sarà proprio Germano a interpretare Nino Manfredi ne In arte Nino (Luca Manfredi, 2016). A lui vanno aggiunti altri ottimi attori, volti e corpi di prestigio del nostro cinema, che rispondono ai nomi di Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Luca Argentero, Edoardo Leo, Alessandro Gassmann, Claudio Santamaria, Fabrizio Bentivoglio, Sergio Castellitto, Toni Servillo, Giuseppe Battiston, Claudio Amendola e ovviamente Carlo Verdone. Chi nato prima, chi nato dopo, tutti contribuiscono a una definizione del nostro cinema in senso autoriale, dando all’attorialità un comune denominatore ben radicato nella storia. Un’attorialità a volte macchiettistico-regionalistica, a volte neorealista, a volte surreale, comica e altre volte drammatica nella sua accezione più teatrale, ma sempre dinamica e ricettiva. Dagli Anni Zero, infatti, il nostro cinema ha cominciato una lunga rincorsa verso uno svecchiamento di codici, forme e tipi e a uno sdoganamento dei generi, come il ritorno alla commedia d’autore e l’horror indipendente, ma soprattutto polizieschi, noir, sperimentali e il neonato fiabesco italiano – una sorta di realismo magico figlio dello sguardo contemplativo, sognante e sacrale sul reale dei film dei fratelli Taviani e del maestro Ermanno Olmi – che hanno permesso ai nostri attori di emergere con nuove potenzialità. Pensiamo ai film di Sorrentino, Guadagnino, Garrone, Sollima, Placido, Ozpetek, Costanzo, De Sica, Mainetti, Manetti Bros. o Rovere; per non parlare dello sguardo femminile di Valeria Golino, Alice Rohrwacher e Asia Argento. Un cinema che tra il genere e l’utilizzo personale della mdp, del montaggio, della modulazione narrativa e altro, sta reinventando il cinema italiano e per farlo necessita anche di corpi attoriali a loro agio nelle nuove forme del racconto. È qui, in questo interstizio tra la generazione di Giallini (Roma, 1963), Gassman (Roma, 1965), Favino (Roma, 1969), Mastandrea (Roma, 1972), Germano (Roma, 1980) e il reiventarsi del cinema italiano e delle sue forme, dei suoi generi e dei suoi tipi, che si può collocare una nuova, e ormai non più invisibile, generazione di attori.

Dopo La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013), il cinema italiano è ritornato a parlare di sé prepotentemente, ancor di più di quando Moretti vinceva a Cannes nel 2001 con La stanza del figlio, riappropriandosi di quell’aggettivo che l’aveva reso celebre in tutto il mondo all’epoca di De Sica, Germi, Fellini, Antonioni, Bava, Argento, Bellocchio: bello. Questa grande bellezza attraversa la storia del nostro cinema fino ad oggi, innervandone le storie, i moduli, la messa in scena, i testi, le idee e ovviamente i volti e i corpi delle nuove generazioni. Ecco perché mi piace parlare di “bella generazione” quando parlo di questi ragazzi nati soprattutto lungo l’arco degli anni novanta e cresciuti come adolescenti nella seconda metà degli Anni Zero, proprio quando il nostro cinema già stava dando le sue nuove coordinate: Le fate ignoranti e La finestra di fronte di Ozpetek sono del 2001 e del 2003, L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore di Sorrentino sono del 2001 e del 2004, L’imbalsamatore e Gomorra di Garrone sono del 2002 e del 2008, Melissa P. e Io sono l’amore di Guadagnino sono del 2005 e del 2009, il Romanzo criminale di Placido è del 2005, mentre la serie di Sollima è del 2008. Da questo squarcio di inizio secolo nascono nuovi impulsi, nuove autorialità che, tra tradizione e sguardi futuri, hanno modellato una nuova generazione di registi e attori e di moltissime altre maestranze come la direzione della fotografia, le musiche, gli effetti speciali, la set decoration, i costumi, il digitale e via dicendo. Ma, come succede sempre a chi ama il cinema, l’occhio cade inequivocabilmente sugli attori. Segni, mezzi, veicoli con cui il regista rappresenta un intero mondo, non solo un personaggio, ma un vero e proprio mondo rappresentato dal segno attoriale.

Avendo sempre creduto nell’attore come segno (//www.filmtv.it/post/36243/attore-segno-corpo), credo moltissimo alla sua visibilità, al suo essere innanzitutto corpo, materia, fisiologia, e solo in un secondo tempo simbolo di qualcosa di più alto e variamente interpretabile. Si parla quasi sempre e giustamente di politique des auteurs, ma non possiamo credere all’attore solo come un cacciavite con cui il regista avvita e svita a piacere un quadro ad un muro. Una politica dell’attore è necessaria affinché la grandezza di un’opera cinematografica trovi nei suoi attori un elemento fondamentale e vincolante alla sua interpretazione. E in questa direzione già vanno molti registi con i loro film e i loro attori, e all’interno di questa nuova ondata cinematografica, che negli anni ’90 e soprattutto nei primi anni 2000 aveva già distinto il cinema spagnolo contemporaneo e i suoi giovani attori nati tra i ’70 e gli ’80 – la generación del nueve, come l’ho chiamata io nel 2015 (//www.filmtv.it/post/29194/son-espanoles-la-generacion-del-9), trovano proprio posto giovani attori italiani che ne stanno influenzando appunto l’estetica, senza però segnare una vera e propria rottura con la scuola precedente, ma integrandosi perfettamente, a conferma della notevole inclinazione artistica dei più giovani.

Chi sono quindi questi giovani attori italiani che stanno contribuendo al rinnovo estetico del nostro cinema? Innanzitutto, non vanno dimenticati né Elio Germano né Michele Riondino (Taranto, 1979), abbastanza lontani anagraficamente dalla nuova generazione, anche di vent’anni, ma pur sempre loro capostipiti. Se Germano è il “corpo” per eccellenza del cinema italiano contemporaneo, dal gesto nervoso, arlecchinesco, visceralmente fisico, dall’erezione di Nessuna qualità agli eroi (Paolo Franchi, 2007) alla gobba de Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014), Riondino, attore tellurico, non è da meno. Ben radicato alla sua terra pugliese, ne porta sul corpo i segni nervosi, la definizione dell’ossatura e della struttura muscolare longilinea, perfetto Lucifero emerso da una terra arida, a suo agio in ruoli spigolosi. Balzato al successo nazionale come giovane Montalbano (2012), vanta invece una serie di performance notevoli su grande schermo come Il passato è una terra straniera (Daniele Vicari, 2008) e Il giovane favoloso, entrambi proprio al fianco di Elio Germano, oppure Gli sfiorati (Matteo Rovere, 2011), Acciaio (Stefano Mordini, 2012), Maraviglioso Boccaccio (Taviani, 2015), Senza lasciare traccia (Gianclaudio Cappai, 2016) e Falchi (Toni D’Angelo, 2017) dove supera notevolmente se stesso.

Poco più giovane è Lorenzo Balducci (Roma, 1982) che non è solo il figlio del tristemente noto Angelo, ma è soprattutto uno degli attori italiani più coraggiosi e attivi all’estero. Pur non possedendo grandi qualità attoriali, sa scegliere con intelligenza i suoi ruoli e portarli sullo schermo con buoni risultati. Allo stesso modo di Germano nel film di Paolo Franchi, Balducci è puro “corpo” nella chiacchierata scena della copula con il cocomero in Estrella fugaz (Luis Miñarro, 2014), ma va ricordato anche per I testimoni (André Tèchinè, 2007), Io, Don Giovanni (Carlos Saura, 2009), 31 días (Eriga Grediaga, 2013) e addirittura per un Domiziano Cristopharo del 2011, Abominations of the Third Reich, conosciuto anche come Bloody Sin.

Ma a dare davvero inizio a una nuova generazione, facendone da punto di riferimento e dandone le coordinate principali è quello che, dopo Elio Germano, è a mio parere il miglior attore italiano esistente, tanto quanto Favino, Mastandrea e Giallini, ovvero Luca Marinelli (Roma, 1984). Diplomato alla Silvio D’Amico nel 2009 – annata che quindi, dopo aver segnato il cinema spagnolo [il famoso “nueve” di cui accennavo], torna come spartiacque interessante tra un prima e un dopo cinematografico valido forse per buona parte delle arti europee – e dopo il debutto televisivo, approda al cinema con un’opera forte e innovativa in cui il suo personaggio ha le caratteristiche per evidenziare tutte le potenzialità dell’attore romano (La solitudine dei numeri primi, Saverio Costanzo, 2010). Si può ben dire che “quella di Marinelli è una storia vera” perché da quel giorno non sbaglia un film, tant’è che sarebbe difficile farne una filmografia essenziale e ragionata dato che ogni titolo andrebbe citato. Per stringere il campo possiamo citare, oltre all’esordio, Tutti i santi giorni (Paolo Virzì, 2012), la partecipazione a La grande bellezza con il suo primo nudo frontale, il film di una vita, ovvero Non essere cattivo (Claudio Caligari, 2015) fino al villain fumettistico di Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015) che gli vale il David di Donatello. Ma non si può non citare il bellissimo e magico Una questione privata (Paolo e Vittorio Taviani, 2017), né tantomeno la brillante caratterizzazione di Lasciati andare (Francesco Amato, 2017) oppure la consacrazione, in vesti di perfetto antagonista, nelle serie Fox Trust (Danny Boyle, 2018) e all’interpretazione mimetica di De André in Fabrizio De André – Principe Libero (Luca Facchini, 2018).

Marinelli è attore di incredibile fisicità, corpo attoriale per definizione, aiutato da un viso irregolare, quasi plastico, che può passare dalla bellezza più pura alla smorfia più maligna solo seguendo l’inclinazione di volta in volta diversa del suo sguardo e dei suoi occhi, unici credo nel panorama contemporaneo. Perfetto villain, perfetto antieroe, Marinelli è anche perfetto commediante, caratterista e maschera drammatica, come ci rivela sensazionalmente nel magico film dei Taviani, gemello dell’altrettanto magico e ultimo capolavoro del maestro Olmi, Torneranno i prati (2014) – qui troviamo tra l’altro, come in Una questione privata, Alessandro Sperduti (Roma, 1987), anche lui un giovane attore interessante non ancora però capace di lasciare il segno.

Sono comunque gli attori nati negli anni novanta a formare lo zoccolo duro di questa bella generazione, tanto audace quanto preparata, tanto impegnata come social, lungi dall’essere quella generazione sdraiata teorizzata da Serra nel 2014. Naïf, saltimbanco, ma attore rigoroso e ben attrezzato, soprattutto intellettualmente, è Lorenzo Richelmy (La Spezia, 1990). Incuriosito dal giovane attore italiano scelto per una produzione internazionale originale di Netflix, all’interno di un cast interamente straniero, se non per il cameo di Pierfrancesco Favino, ho guardato Marco Polo (John Fusco, 2014-2016) con molto interesse e non solo ho potuto godere di una messa in scena storica di grande impatto visivo e plastico, ma ho potuto apprezzare Lorenzo Richelmy, perfettamente a suo agio con la lingua inglese e soprattutto attore fisico che fa della sua presenza scenica e del suo corpo il principale veicolo di concrezione del logos.

Mi accorgo solo in un secondo tempo di averlo già visto in Sotto una buona stella (Carlo Verdone, 2014) dove mi ricordavo di un attore a me ancora sconosciuto, ma che non stonava nel contesto teatrale impalcato da Verdone. Il ruolo che non solo mi ha confermato le mie sensazioni, ma che con ogni probabilità è stato il ruolo che l’ha fatto conoscere e apprezzare agli addetti ai lavori è il protagonista ribelle de Il terzo tempo (Enrico Maria Artale, 2013). Un film sportivo che non poteva quindi non indugiare sulla fisicità dell’attore spezzino, come in parte aveva già fatto per 100 metri dal paradiso (Raffaele Verzillo, 2012), e che quindi approfitta proprio di questa irrompente presenza scenica per trasportare l’agonismo sportivo e l’irruenza corporale anche nel dramma personale e psicologico del protagonista.

Da Marco Polo in poi Richelmy ha potuto, con buon dosaggio, partecipare a film che a tutt’oggi sono ben indicati dalla critica e anche in buona parte dal pubblico. Se escludiamo Hybris (Giuseppe Francesco Maione, 2014), horror indipendente purtroppo invisibile e di cui possiamo parlare solo attraverso le buone critiche delle riviste di settore, su tutti Nocturno (http://www.nocturno.it/movie/hybris), Richelmy è ormai un volto ben conosciuto del grande schermo italiano grazie a La ragazza nella nebbia (Donato Carrisi, 2017), ottimo noir in cui la presenza defilata dell’attore e la sua recitazione dosata, quasi monocorde, lo rendono uno dei personaggi più interessanti e anche inquietanti – a tratti credevo fosse lui l’assassino, e l’avrei tanto voluto; e grazie anche a Una questione privata, di cui si è già detto, e di cui ribadisco la dimensione magica e fiabesca con cui i Taviani, in collaborazione con il Maestro Olmi, hanno rifatto Fenoglio, e di cui il personaggio biondo e seduttivo di Richelmy innerva con più sottotesti la storia d’amore tra Milton e Fulvia e soprattutto l’amicizia virile proprio tra i due protagonisti maschili.

Con Una vita spericolata (Marco Ponti, 2018) Richelmy incontra forse il suo perfetto alter ego. Lui, biondo, occhi azzurri, l’altro moro e occhi scuri. Li accomuna un’origine famigliare teatrale, una freschezza attoriale indiscutibile e ovviamente l’oggi tanto ricercata fisicità attoriale che fa la differenza con gli attori di solo volto o sola voce. Eugenio Franceschini (Verona, 1991), quasi coetaneo di Richelmy, proviene da una famiglia di teatranti che fin da piccolo lo fanno partecipare ai loro spettacoli anche in ruoli da protagonista. Più tardi si traferisce a Roma, segue il corso di recitazione alla Scuola Nazionale di Cinema e debutta su grande schermo con Bianca come il latte, rossa come il sangue (Giacomo Campiotti, 2012) anche se in un ruolo di contorno e poco approfondito, come purtroppo gli capiterà in buona parte dei suoi lavori cinematografici, tra cui i migliori sono Una famiglia perfetta (Paolo Genovese, 2012), Un bacio (Ivan Cotroneo, 2015) e Sconnessi (2018). È con La luna su Torino (Davide Ferrario, 2014), se escludiamo l’inguardabile Sapore di te (Carlo Vanzina, 2013), che per la prima volta interpreta un personaggio più strutturato, con una sua storia e un suo percorso, è difatti il protagonista della pellicola insieme a Walter Leonardi e Barbara Parodi. In Fango e Gloria (Leonardo Tiberi, 2015) è di nuovo protagonista e nonostante l’operazione di respiro più televisivo che cinematografico, il racconto visivo è coinvolgente e la sue presenza, seppur ingessata da divise e abiti d’epoca, è fondamentale per dare anima all’intero film.

Va ricordato che prima di esordire al cinema, Franceschini, di cui avevo già parlato come di un attore tra classico e moderno (//www.filmtv.it/post/32114/classico-moderno-fenomenologia-di-eugenio-franceschini), era stato protagonista di Prima del silenzio (2013-2015), spettacolo teatrale diretto da Fabio Grossi su testo di Giuseppe Patroni Griffi e interpretato anche da Leo Gullotta e da Paola Gassman in immagine filmata, in cui, giovane, bello, disinibito e alle prime esperienze si concede in un ormai celebre nudo frontale, a conferma dell’importanza fisica dell’attore veronese. Inoltre, è passato pure dalla televisione nella fiction Grand Hotel (Luca Ribuoli, 2015) che voleva raggiungere il successo dell’originale spagnola senza però riuscirci. Franceschini non se la cava male, ma Yon González (Vergara, 1986), attore spagnolo tra i migliori della sua generazione (//www.filmtv.it/post/32247/yon-gonzalez-l-attore-alfa), aveva dato una prova maiuscola di se stesso, inimitabile, come d’altronde ha fatto tutto il resto cast spagnolo, da Amaia Salamanca ad Adriana Ozores, da Eloy Azorín a Pedro Alonso fino alla storica Concha Velasco. La fiction italiana né poteva contare sullo stesso cast né sulla tipologia di produzione tipica di Antena 3, dirigendo così i propri attori, tra cui Franceschini, come pedine di legno di un gioco stanco. Eugenio Franceschini invece, merita molte più possibilità attoriali e il suo di BB in Una vita spericolata ne è la conferma. Della serie “brutti, sporchi e cattivi”, la corporeità dei due attori nel film di Ponti è la chiave di volta della loro interpretazione, dopotutto, fisicità, nudo, plasticità, corporalità e freschezza del gesto sono gli elementi fondamentali per intendere il corpo come primo strumento di lavoro dell’attore.

Debutta al cinema con Viva l’Italia (Massimiliano Bruno, 2012), ma è con Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014) che Guglielmo Poggi (Roma, 1991) si fa conoscere al grande pubblico. Partecipa, sempre come comprimario in molti film di successo come L’estate addosso (Gabriele Muccino, 2016), Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, 2017) o The Startup (Massimiliano D’Alatri, 2017), per arrivare finalmente a condividere i gradi di protagonista nel folle road movie Il nostro ultimo (Ludovico Di Martino, 2016) e pure al fianco di Sergio Castellitto ne Il tuttofare (Valerio Attanasio, 2018). Ragazzo di dirompente simpatia, brillante e versatile – gli riesce molto bene lo stronzo in The Startup – Poggi oggi è molto stimato nell’ambiente e anche il pubblico ha imparato a riconoscerlo e apprezzarlo. Il suo sorriso e la risata coinvolgente arrivano prima di lui, del suo corpo attoriale e della sua bravura, e ne fanno cifra tipizzante.

A sovvertire ulteriormente le carte in gioco è l’arrivo sugli schermi italiani di un attore estremamente dotato quanto social e sopra le righe. Andrea Arcangeli (Pescara, 1993) è un fuoriclasse. All’attivo ancora poco cinema e diversa televisione, ma ha dalla sua partecipazioni interessanti che confermano il valore riconosciuto dell’attore. A Pescara frequenta la scuola di recitazione Spazi Mentali Occupati e in seguito si dedica esclusivamente al teatro. Debutta in televisione con Benvenuti a tavola – Nord vs Sud (Pietro Valsecchi, 2012-2013) e al tempo stesso si trasferisce a Roma. Per lui tanta televisione, tra cui il Romeo e Giulietta di Riccardo Donna (2013) che ha il pregio di mettere in fila altri due attori di classe come Tommaso Ramenghi (Milano, 1983) di cui avevo già parlato (//www.filmtv.it/post/30988/tommaso-ramenghi-come-uno-sgualo), e soprattutto l’attore spagnolo Martiño Rivas (La Coruña, 1985) che come l’amico e collega Yon González è tra i volti di spicco della sua generazione (//www.filmtv.it/post/30601/non-chiamatelo-romeo-martino-rivas-l-attore-no-romantico).

Arcangeli arriva al cinema nel 2015 con Tempo instabile con probabili schiarite (Marco Pontecorvo), dove la freschezza del suo personaggio sa rubare la scena ai più navigati Zingaretti e Pasquale Petrolo in arte Lillo. Lo stesso accade con DEI (Cosimo Terlizzi, 2016), in cui brilla anche Luigi Catani, classe 2000 e novello “buon selvaggio” proprio come il Lazzaro di Adriano Tardiolo, classe ’98, di Lazzaro Felice (Alice Rohrwacher, 2018). In The Startup invece Arcangeli è protagonista assoluto e con una grande consapevolezza di gesto e modulazione vocale da segnarne già la maturità artistica. Non va dimentica né la partecipazione a Trust, al fianco di Marinelli, dove il suo personaggio meritava più spazio, né quella in Aldo Moro – Il professore (Francesco Miccichè, 2018), un po’ troppo spot democristiano, ma che almeno insiste sui più scottanti retroscena del fattaccio che ha fatto perdere l’innocenza all’Italia – un po’ il nostro JFK. Così come non si può non citare la partecipazione a un cortometraggio a tematica gay, Loris sta bene (Simone Bozzelli, 2017), quindi di suo già coraggioso a cui vanno aggiunte diverse pose di nudo posteriore a conferma del primato dell’utilizzo del corpo, soprattutto nudo, delle nuove generazioni di attori. Cortometraggio poi inserito nella raccolta Furious Desires (AAVV, 2017) composta dai lavori, alcuni molto più audaci, di Rodrigo Álvarez Flores, Fábio Leal, Ricky Mastro e Denisse Quintero. Ci si può arrischiare a dire che Arcangeli è, insieme a Marinelli, Richelmy e Franceschini, il più dotato e maturo tra i giovani attori italiani. La bellezza classica di viso e corpo – tipico “giovinetto” della letteratura greca -  ispira quella sensibilità femminile che l’irruenza e la fisicità dell’attore sanno riequilibrare, senza però scalfire la gentilezza del gesto attorico. “Attor gentil” rempaira sempre amore. Già iconico.

Esordendo ben molto tempo prima in Scialla! (Francesco Bruni, 2011), Filippo Scicchitano (Roma, 1993) precede alcuni nomi di questa bella generazione infilando uno dietro l’altro titoli di buona fattura, ma soprattutto dimostrando quella freschezza e spudorata naturalezza del gesto e della gestione del proprio corpo che fanno, a mio modo di vedere, la differenza tra divo e attore. Dopo Scialla!, in cui la presenza fisica adolescenziale di Scicchitano invade e impregna la scena per disinvoltura, arrivano Un giorno speciale (Francesca Comencini, 2012), Bianca come il latte, rossa come il sangue, Il mondo fino in fondo (Alessandro Lunardelli, 2013) dove interpreta un ragazzo gay il cui fratello, guarda caso, è proprio Luca Marinelli, Allacciate le cinture (Ferzan Özpetek, 2014), di nuovo un personaggio gay, e il riuscito Non è un paese per giovani (Giovanni Veronesi, 2017) in cui non solo è perfetto, trascinante e fresco come suo solito, ma a sprazzi ricorda pure Alberto Sordi.

Scicchitano fa capolino anche in televisione per Sotto copertura (Giulio Manfredonia, 2015) e ne Il confine (Carlo Carlei, 2018), altra miniserie che guarda alla Grande Guerra e mette in scena un triangolo amoroso che si contamina con l’eroismo e il fatalismo dell’epoca. Credo comunque che il cinema e il respiro ampio e disinvolto dei personaggi tipicamente cinematografici possano rendere al meglio le potenzialità dell’attore romano, tra i migliori in circolazione.

Di formazione classica e con i piedi ben piantati per terra, stupisce positivamente Ludovico Tersigni (Roma, 1995). Dopo l’esordio nel rocambolesco e “dichiarato” Arance & martello (Diego Bianchi, 2014), partecipa a L’estate addosso (Gabriele Muccino, 2016), puntuale film generazionale di “fuga esotica” adolescenziale, di cadenza quasi decennale, come i precedenti Che ne sarà di noi e Last Minute Marocco (Francesco Falaschi, 2007), a due puntate della fiction Tutto può succedere (Lucio Pellegrini, 2015) e alla webserie Skam Italia (Ludovico Bessegato, 2018), versione italiana di un teen drama norvegese, appunto Skam (Julie Andem, 2015-2017) che indaga la vita tumultuosa degli adolescenti del terzo millennio come nei primi Anni Zero aveva già fatto molto bene Skins (Bryan Elsey, Jamie Brittain, 2007-2013).

Clamoroso è però il passaggio a protagonista assoluto in Slam – Tutto per una ragazza (Andrea Molaioli, 2017) dove non solo ha l’occasione di recitare al fianco di Jasmine Trinca e Luca Marinelli nel ruolo dei due giovani genitori, ma anche di fare coppia, coppia perfetta ed efficace nonostante siano lontanissimi caratterialmente per loro stessa ammissione, con la bellissima e spiazzante Barbara Ramella, giovanissima attrice dal colpo di fulmine facile e pericoloso. Tersigni qui è semplicemente perfetto. Il film di Molaioli è una tragicommedia leggera e pacata, sussurrata, agrodolce, dove però non si perdono mai di vista i dettagli sociali e antropologici più importanti. L’ottimo risultato del film si raggiunge anche attraverso una forma del racconto di notevole efficacia, come per esempio le esilaranti anticipazioni distopiche che il protagonista vive sulla soglia tra veglia e sonno, oppure i dialoghi al limite del surreale e del comico puro, senza per questo adottare le forme della comicità, bensì quelle della commedia borghese, per non dire delle “fisiologie” dei giovani protagonisti raccontate con taglio naturalistico e sincero. All’interno di tale racconto Tersigni è quasi un Buster Keaton la cui maschera tra il sorpreso e lo stupito, l’incredulo e l’inadatto, rappresenta al meglio lo stato emotivo del personaggio meglio di tanti istrionismi. Intorno al suo personaggio succede di tutto dopo la notizia di diventare padre a 17 anni, un’età in cui credi di essere già grande e di poter fare quello che fanno i grandi e di farlo pure meglio, per poi accorgerti che non hai ancora la barba e che duri giusto qualche minuto. La realtà ti si presenta davanti con le delicatezza di un TIR e tu che fai? Tersigni fa come Buster Keaton, o Pozzetto: resta immobile, più o meno monoespressivo, frastornato, con lo sguardo perso nell’incredulità totale, nell’impaccio dei suoi gesti maldestri e nell’impiccio del suo giovane corpo. Applausi.

Altra forza della natura cinematografica nostrana è Andrea Carpenzano (Roma, 1995) che in Tutto quello che vuoi (Francesco Bruni, 2017) sorregge benissimo il confronto e il contrasto con una generazione a lui lontanissima, quella di Giuliano Montaldo che, oltre ad essere innanzitutto un regista e solo occasionalmente attore, ha saputo restituire un personaggio fantastico, magari corredato da qualche cliché di troppo, ma pur sempre genuino e viscerale. Il lavoro, quindi, con cui Carpenzano affronta il suo ruolo è di grande maturità. All’esuberanza e alla freschezza attoriale accompagna la consapevolezza del ruolo e del contesto. Va ricordato anche in una parte di contorno de Il permesso – 48 ore fuori (Claudio Amendola, 2017) il cui coatto romano e romanesco non solo è il personaggio più riuscito del film dopo quelli di Argentero e Amendola, ma la cui interpretazione lo mette subito in luce come attore naturale, fisico, in cui il gesto è ben più importante dell’anima, senza sottovalutarne la dizione. Seguono La terra dell’abbastanza (Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2018) e Il campione (Leonardo D’Agostini, 2019), che per il momento sembrano completare i “ragazzi di vita”, borgatari, a cui Carpenzano sa dare un ottimo volto e un’immagine estetica azzeccata.

Con i 2000 entriamo in tutt’altra fascia anagrafica. Ancora molto o troppo giovani per definirne lo spessore attoriale, ma abbastanza grandi per rivedere nei loro corpi e nelle loro fisicità il valore aggiunto della loro giovane età. Film di riferimento, ma soprattutto romanzo di riferimento perché da lì nasce la fotografia letteraria ed intellettuale di un’intera generazione, è Gli sdraiati, sia il romanzo di Michele Serra (Feltrinelli, 2013) sia l’omonimo film di Francesca Archibugi (2017). Il protagonista Gaddo Bacchini (Milano, 2000) è perfetto nel ruolo dello “sdraiato”, addolcito da un punto di vista registico che utilizza la materia e la critica di Serra per ribaltarne i contenuti e ri-fotografare detta generazione. Complice un nudo frontale fugace a inizio film, Bacchini si presenta come puro corpo. Corpo teoricamente “sdraiato”, ma la dirompente fisicità della piena adolescenza e la carnalità che emerge nelle fasi successive grazie alla passione amorosa con Ilaria Brusadelli ce lo ripropongono come corpo attivo, non passivo, in contrasto con la teoria di Serra. Oltre a Gaddo Bacchini e un generoso Cochi Ponzoni, i migliori in campo, spicca e brilla Matteo Oscar Giuggioli (Milano, 2000). Il suo personaggio, a differenza di Bacchini, propone un tipo di adolescente ancora più inquieto, ancora meno definito, ambivalente come lo è per definizione il corpo. Ne consegue che la tensione amicale tra i due personaggi, dovuta all’amore di Bacchini per il personaggio destabilizzante interpretato dalla Brusadelli, diventi sottilmente una tensione omoerotica, come tante a quell’età. Completa la definizione del personaggio un physique du rôle azzeccato, acerbo per età, ma adulto per inquietudine del gesto, dove predomina il viso imberbe e fanciullesco, contro quello virile di Bacchini, un corpo magro e non fisicato, come è invece quello di Bacchini, e una lunga chioma di capelli a coprirne lo sguardo, collegamento iconografico a tanti adolescenti ribelli e maledetti che, se non lo siamo stati, sicuro abbiamo conosciuto e amato. Neanche a farlo apposta, Bacchini porta i capelli corti e ritti. Fascino degli opposti che si attraggono. Altra interessante opposizione: mentre per Gaddo Bacchini la partecipazione a Gli sdraiati è stata per il momento un unicum, per Giuggioli invece si tratta della prima tappa di una carriera decisa e avviata. Segue infatti Succede (Francesca Mazzoleni, 2018), teen comedy che focalizzerà ulteriormente la discussione su questa generazione sempre connessa, digitale e apparentemente lontana dal materico.

È un unicum per il momento anche la partecipazione di Pasquale Patruno (Bari, 2000) a La guerra dei cafoni (Davide Barletti, Lorenzo Conte, 2016), ottima pellicola di quel cinema italiano che io amo chiamare fiabesco – ovvero dove il reale viene rappresentato attraverso le forme e le iconografie del magico, dell’onirico e del meraviglioso – dove il giovane attore barese è alla testa di un nutrito numero di attori, tutti ben in parte, che lui sa perfettamente guidare a testa alta con la grazia e la disinvoltura di un ruolo antipatico, ambiguo e spigoloso, che fonda tutto sul fascino del proprio  corpo adolescente. Fascino estetico e fisico utilizzato in sottotesto come arma di sfida tra “cafoni” e “signori”, su tutti il personaggio di Cuggino, perfetto corpo scenico interpretato da Angelo Pignatelli. Fascino estetico e fisico come stigma di poteri territoriali, duelli virili modellati sul sistema animale, i muscoli, la nudità, la masturbazione e la sessualità come metro di misura del proprio potere, della propria forza, nel delicato e necessario passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Vanno aggiunti, nonostante siano stati finora anche loro attori in un’unica occasione, i dodicenni interpreti de I cormorani (Fabio Bobbio, 2016), splendido film d’amicizia preadolescenziale molto emozionante per chi, come il sottoscritto, ha vissuto e vive in Pianura Padana, a ridosso di grandi fiumi come il Po, il Ticino, la Dora Baltea, il Mincio e via dicendo, le loro rive sassose, l’intrico dei boschi vergini, la periferia urbana, i luoghi abbandonati, le stradine sterrate, i cavalcavia, la “rüera” e altri elementi artificiali o naturali tipici di questi luoghi piatti e infiniti. Matteo Turri e Samuele Bogni sono perfetti. Portano addosso la leggerezza di quell’età poco scrutabile, le cui ambiguità fisiche – non più bambini, ma non ancora uomini – diventano il codice con cui interpretare il mondo che li circonda, che li sfiora, che li “sdraia”. Inoltre, I cormorani, oltre a riproporre una versione totalmente naturalistica del fiabesco, si aggiunge e rimpolpa una lista di titoli, italiani come europei e americani in cui da diversi anni è tornato prepotentemente il tema della natura selvaggia e del suo rapporto anche strettamente fisico e carnale con i suoi protagonisti. Molti wilderness drama, come li voglio definire io, tra cui alcuni citati anche in questo articolo, fondano il proprio motivo d’essere, la propria urgenza autoriale proprio sul rapporto non tanto uomo-natura, quanto piuttosto corpo-natura. Questo conferma come il nostro cinema italiano, oltre a tentare regolarmente la strada dei generi, stia utilizzando al meglio sia gli attori più giovani sia queste tematiche tra loro intimamente collegate come il corpo, la sessualità e la natura selvaggia. Anche questo, è segnale di una bella generazione.

 

Mauro Fradegradi – mercoledì 27 giugno 2018

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