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Visioni dal TFF 37.
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M Valdemar

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Risultati immagini per torino film festival 37

Chiuso il trentasettesimo TFF, mi accingo, accidioso e acciugoso, a srotolare come sfilacciato tappeto di benvenuto, questo po' po' di post postfestivaliero dai contorni caliginosi e dalla consistenza molliccia.
Sarò breve (come disse il gaio eiaculatore precoce alla povera amante).

Confermo, intanto, le impressioni di un anno fa: trattasi di edizione non esaltante, a partire dal Concorso per giungere alle sezioni collaterali; e qualcosa è andato storto inoltre nell'inserimento di titoli nell'una o nell'altra parte (su tutti, il pluricitato Synonymes, finito nello "sperimentale" Onde, che infatti non sono riuscito a intercettare). Il diluvio universale di sabato e domenica non ha certo contribuito a sollevare umori; anzi, è stato un dannato bagno indesiderato di acqua, la partecipazione al rito collettivo di inzuppamento reciproco mentre s'era in coda tra ombrelli che sgocciolavano copiosi e gambe immerse in carezzevoli pozzanghere. Angherie subite anche in altre circostanze.
Tipo l'indefesso russatore seriale, palesatosi in tutta la sua crassa rumorosità sia durante la leggendaria Notte Horror (dalla prima all'ultima fila della gremita sala partivano applausi, fischi, incitamenti e cori da stadio ma niente, il Nostro un attimo si destava per poi tornare a ronfare bellamente, bontà sua) che alla prima proiezione mattutina successiva delle nove in punto (che culo beccarlo, eh!): dopo che un generoso volontario l'aveva gentilmente svegliato il tizio ha in segutito ripreso alla grandissima; siccome il film era un muto con cartelli e musica orchestrata - mi riferisco all'assurdissimo Die kinder der toten e di cui sotto - era ormai diventato parte integrante della colonna sonora e dell'esperienza collettiva. Cose da vivere, eh.
Una sciagura pure il fetidume emanato dai bagni del Cinema Reposi già di prima mattina. Boh. Fate qualcosa. Fate esplodere qualcosa.
A proposito di problematiche e Reposi, va ricordato il pazzesco scambio di sale con prevedibili, immaginabili effetti: che tra i due film in questione vi fosse Magari (vedi sempre sotto), spostato nella sala più capiente, ha fatto malignare più di qualcuno che sosteneva: «eh, guarda caso proprio col film della Elkann doveva succedere»...
Gomblotto.
Senza paranoie complottiste, invece, confesso che questa edizione mi è stata utile per stilare la lista degli individui (spettatori occasionali, cinefili, cineoperatori o operatori sanitari che siano) che, per via dei loro inaccettabili, censurabili comportamenti, andrebbero accompagnati a celere, cortese dipartita senza tante cerimonie:
- quelli che ai totem ove si acquistano biglietti e prenotano proiezioni per accreditati e abbonati, lo fanno per sé, per gli amici, per i vicini di casa, per il cagnolino defunto del defunto prozio: morite. Una giovine addirittura leggeva il programma a un tizio all'altro capo del telefono. Italiani, Fortuna - per lei - che ero nell'altra coda;
- quelli che in sala trangugiano pietanze d'ogni composizione e origine, dai panini con la soppressa (con aglio) a zuppe di legumi a frittate di cipolla a insalatone con capperi e gorgonzola, e via appestando l'aria. Cazzo, mangia a casa tua, al bar, per strada, in bagno, al cimitero! E no, non accetto nessuna giustificazione legata alla frenetica vita del frequentatore festivaliero: io non l'ho mai fatto. Mai lo farò. Sopprimetevi. Con e senza aglio;
- quelli che fanno la coda sin dalle prime luci dell'alba. No, non al cinema. Dal fottuto Starbucks, aperto da pochissimo a uno sputo dal Reposi. Incredibile. Sempre strapieno. Cosa minchia vi trangugiate, nel cervello. Ok, chiaro, mi prendo in anticipo la mia dose di "Ok, Boomer". Sti cazzi. Sputatevi infettandovi a vicenda (con i loro nobili) liquami ed estinguetevi;
- le babbione e i babbuini che non riescono a non evacuare i loro belluini, imprescindibili commenti, magari anche a voce alta (perché, oh, la musica è forte e non ci si sente!), durante il film. Esalate il vostro ultimo, melmoso respiro.
Ma, al di là di tutto, dei millemila ceppi di gentaglia che sarebbe da prendere a ceppi in faccia, rimane naturalmente il consueto, delirante divertimento festivaliero: i film, gli utenti/amici - ormai una piacevolissima, irrinunciabile abitudine -, tra cui gli inossidabili inviati sul campo Alan Smithee e Supadany che vi hanno tenuti costantemente aggiornati, gli sconosciuti con cui scambiare due parole, le "star" - tra gli altri Jasmine Trinca, Battiston e Fresi, Verdone, Pino Donaggio, la Crescentini ecc. -, i pasti disordinati e a ore impensabili, le code, le cose, i cosi, le scuse.
A proposito di Carolina Crescentini: https://torino.corriere.it/cultura/19_novembre_30/crescentini-il-pubblico-tff-mi-commuove-5aee706c-12ef-11ea-a22b-06632cab1850.shtml
Ma prego, Caroli’.

Ah, i quattro migliori film visti, esclusi i capolavori del passato:
- DYLDA/BEANPOLE;
- GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA;
- THE LODGE;
- A WHITE, WHITE DAY.

I peggiori:
- GREENER GRASS;
- LETTO N. 6;
- SIMPLE WOMEN;
- METAMORPHOSIS.

Segue carrellata dei film dai miei occhi visti in ordine cronologico con annessi commento e voto. Abbeveratevi a cotanta mvaldemaramaldaggine.

[n.b.: questo post va in visione in ritardo per venire incontro al vostro ritardo (semicit.)]

1 – IL GABINETTO DEL DR. CALIGARI (Si può fare!)
Un manifesto immortale dell’arte cinematografica e delle arti tutte imperdibile su grande schermo. Costruzione (sceno)grafica - di luci e ombre e architetture oblunghe, opprimenti - obliqua, sinistra, alienante e allucinante; personaggi pervasi da un’insania che sembra appartenere a un altro mondo eppure tremendamente attuale, riconoscibile; angosce ancestrali e pulsioni di morte e inquietudine attraversano la visione fino a cingere lo spettatore nell’abbraccio romantico e orrorifico dell’indeterminatezza. I sonnambuli della ragione generano orde di folli. Oltre il capolavoro, oltre qualsiasi definizione e montagne di testi ed espressioni numeriche.
Voto: 10 (per quel che vale, ovvero nulla).


2 – PORT AUTHORITY (Festa Mobile/Torino Film Lab)
Martin Scorsese è il produttore esecutivo (alla faccia da stupido di chi, come Mark Ruffalo, gli dice di “permettere ai giovani di lavorare”) di questa pellicola firmata dalla debuttante Danielle Lessovitz. Port Authority manifesta l’attenzione della stessa per la comunità e i diritti LGBT: il viaggio di un ragazzo disilluso e confuso che parte da un non-luogo caotico e disperdente (la stazione dei bus di New York) per giungere a pezzi di società ai margini; la cerchia di omofobi esecutori di sfratti da un lato, le “case” animate e illuminate da persone che si sono scelte le loro famiglia dall’altro. E la scoperta dell’amore (per una transgender): azioni e reazioni, fatti e conseguenze rappresentano la maturazione identitaria del protagonista. Il film parte da buone premesse ma si infila presto nei binari rassicuranti e “carini” dell’universo indie, anche di matrice televisiva, didascalico e non privo di approdi manichei, con personaggi che rimangono figurine sullo sfondo di una mera dichiarazione di intenti (e di appartenenza).
Voto: 5,5

3 – THE BARFOOT EMPEROR (After Hours)
Oibò, non conosco King of the Belgians, di cui The Barefoot Emperor è il sequel, sempre diretto dagli stessi autori, Jessica Woodworth e Peter Brosens. Trama: il Re del Belgio, ferito durante un attentato, viene condotto in un sanatorio sulle isole croate Brioni; da qui apprende della decadenza di tutte le istituzioni europee e della formazione di un nuovo ordine continentale, niente di meno che un Impero. Francamente, in questo racconto che pretende di essere una satira sui venti non proprio felici che soffiano sull’Europa dei sovranisti, dei profittatori e dei vampiri, c’è poco da salvare. Passo zoppicante, attori svagati (tra i quali Udo Kier e Geraldine Chaplin), portato comico/surreale dagli effetti modesti, messa in scena da fiction generalista, scenario sprecato, fine desiderata. Chiusura con didascalie che informano della particolarissima storia delle isole, che soprattutto ai tempi di Tito fu anelata meta affollata di politici, affaristi, personaggi dello spettacolo.
Voto: 4

4 – GUNS AKIMBO (After Hours)
Scheggia impazzita, spettacolino dopato e veemente, sorta di Crank che si scontra con i videogiochi sparatutto. Con Harry Potter. Ok, Daniel Radcliffe ci sta abituando a ruoli borderline per (far) dimenticare il maghetto con la scopetta: in Guns Akimbo, a dirla tutta, ci riesce. Film demente e divertente, abitato da gente che fa cose fottutamente dementi e divertenti, a velocità schizzate, sotto il profluvio debordante di pallottole roventi e colpi proibiti, nel quale un nerd castiga-troll finisce con le pistole imbullonate nelle mani in un gioco di ruolo visto da milioni di spettatori sui social in cui deve uccidere la cazzutissima Nix. La rappresentazione è trascinante, adrenalinica, percorsa da una violenza gratuita, goduriosa, estrema, estremizzata in ottica caricaturale, pompata da musiche elettrizzanti e filmata attraverso un uso sovraeccitato, epilettico della mdp che fiancheggia/sostituisce le figure in campo: alle sequenze action al fulmicotone, ai siparietti di ricercata stupidità, alla galleria di facce e corpi azzeccati, si aggiunge persino una critica puntuale all’ossessione dell’iperconnessione. Guns Akimbo è il Ready Player One che ci meritiamo. Me cojoni. Anzi, come direbbe la fighissima Nix (Samara Weaving - clonatela): «Suck my clit!».
Voto: 7,5

5 – BLOOD QUANTUM (After Hours)
Primo film della mitica Notte Horror, è purtroppo uno zombie movie come tanti: nulla aggiunge al filone, nulla rimane a fine visione. Ambientazione e contesto (una riserva indiana canadese popolata perlopiù da nativi) avrebbero potuto fornire spunti interessanti, presto esauriti però in favore di uno sfruttamento del materiale assai convenzionale tramite l’uso di strumenti ed espedienti risaputi. Script mediocre, fattura media: trascurabile e dimenticabile come tanti zombie movie che infestano cinema, piattaforme televisive e streaming, rassegne, festival, sagre della porchetta, sagrestie con i porcelli.
Voto: 4

6 – CREATURE FROM THE BLACK LAGOON (Si può fare!)
Secondo film della Notte Horror, altresì inserito nella magnifica retrospettiva di horror classici intitolata “Si può fare!”, Il mostro della laguna nera è un tuffo nelle acque profonde e limacciose dei b-movie degli anni cinquanta, diretto da quel geniaccio di Jack Arnold. Ora, se è innegabilmente vero che abbondano genuinità e approssimazioni – visto con gli occhi e gli strumenti di oggi, e grazie al palombaro spalombato - altrettanto lo è la godibilità dell’opera: la creatura ha un aspetto (per i nostri canoni) “mostruoso” ma non è un mostro. Lo sguardo sul “diverso”, e quello sugli uomini (non necessariamente tutti “umani”), lo sviluppo narrativo, dicono di uno script intelligente e all’epoca innovativo. Il fascino del film risiede inoltre nelle splendide riprese acquatiche, nello svelamento progressivo della creatura e delle sue azioni, negli effetti speciali, nei contrasti di luce di un bianco e nero fulgente, nella presenza della sinuosa Julie Adams. Seminale.
Voto: 7

7 – THE LODGE (After Hours)
Non poteva chiudersi meglio, la Notte Horror. The Lodge, dagli stessi autori di Goodnight Mommy, ovvero Severin Fiala e Veronika Franz, è un horror di stampo introspettivo che indaga le zone d’ombra e gli anfratti oscuri della psiche interrotta a seguito di eventi traumatici. Gli ingredienti: due bambini orfani di madre (la scena del suicidio è agghiacciante e di chirurgica, brutale lucidità e freddezza), una casa isolata immersa nella neve, la malsopportata nuova compagna del padre. Non c’è posto per artifici classici né tanto meno per note, stancanti scorciatoie visivo-sonore: The Lodge, sebbene non rigorosissima nella scrittura, è opera cupissima e nera, non concede nulla, è un film di presenze e suggestioni, di atmosfere pregnanti e scenari esterni che tolgono il fiato mentre quelli interni contagiano menti di una psicopatia che trascende i piani della realtà e dell’immaginazione: la discesa in luoghi inospitali, tetri, minacciosi, fino alle vette del non ritorno, ha i caratteri della progressività angosciosa e terrificante, dell’immanenza di una fine indicibile. Da segnalare nel cast in una parte secondaria Alicia Silverstone (la madre suicida) mentre la protagonista è una convincente Riley Keough (Mad Max: Fury Road; The Girlfriend Experience).
Voto: 7,5

8 – DIE KINDER DER TOTEN (After Hours)
Il titolo “ma-che-cazz-ho-vist?!?” dell’anno, probabilmente del decennio, finanche del ventennio antecedente alla mia venuta al mondo, spetta di diritto a Die kinder der toten. Pseudohorror in bianco e nero in 16 mm e con i cartelli, ambientato in un Tirolo di locali-bettole e personaggetti deliranti in cerca di delirio. Che fornisce il duo responsabile di cotanta beatitudine alterata, Kelly Copper, Pavol Liska (Ulrich Seidl produce): un pot-pourri informe e maleodorante, (di)sgraziato, avvinazzato, che contiene siparietti strepitosi (la lotta della trota, le assurde scene di sesso, la “scena di inseguimento più lenta nella storia del cinema”, i pompieri che accarezzano le manichette come falli), altri respingenti (le assurde scene di sesso ancora; i nazisti zombi che danzano con le vittime dell'olocausto), altri ancora incomprensibili, all’insegna della più sfrenata vena anarcoide che mescola boscaioli suicidi e madri stronzissime, zombie e nazisti, necrofili e doppelgänger, fieri ubriaconi stiriani e vagabondi poeti siriani. Su girato volutamente amatoriale, barcollante, con persone del luogo a fare da “attori”, effetti sonori ora pertinenti ora stranianti e incredibili sottotitoli ironici, Die kinder der toten a tratti somiglia ai filmati degli svizzeri di Aldo, Giovanni e Giacomo, in altri momenti evoca la follia dei Monty Python, in altri pare il filmato venuto male di un battesimo finito a bottigliate di vino scadente: comunque la si veda è materiale inclassificabile che affascina, stupisce, ripugna, diverte, stanca, tedia, crea disagio … Direi scommessa vinta.
Voto (invero sarebbe senza voto ma): 7

9 – LE CHOC DU FUTUR (Concorso)
Inequivocabile la didascalia sui titoli di coda che così recita: «Questo film è dedicato a tutte le pioniere della musica elettronica». Diretto dal Marc Collin dei Novelle Vague, Le choc du futur si colloca alla fine degli anni settanta, a Parigi, sul finire dell’epoca degli eccessi del rock e nuove sonorità sintetiche sono in rampa di lancio. Quasi interamente girato nell’appartamento di Ana, giovane donna che crea musica con sintetizzatori, sequencer e drum machine ma non possiede (ancora) lo status di vero musicista (in quanto donna, principalmente), il film di Collin fila liscio come un grazioso brano synth pop che sai già incontra i tuoi gusti. Un flusso di sonorità e attitudine, un animo indie-minimal che permea la struttura filmica privandola di profondità ma conferendole certo “carineria” diffusa: sulla sagoma di Ana, sulle sue lotte, sulla mèsse di figure che ne abita spazi e desideri (il produttore lascivo, quello stronzo, l’amica cantante ecc.), sull’inevitabile presa di coscienza. Un po’ poco. Rimane il gusto della musica (tra gli altri Jarre, Devo e Corine, presente con un cameo), della partecipazione (attoriale e canterina) della superba Clara Luciani, della presenza scenica della bellissima Alma Jodorowsky
Voto: 6

10 – METAMORPHOSIS (After Hours)
Un coreano lo si vede a prescindere. Anche sbagliando. Metamorphosis è un horror di esorcismi e case infestate come ce ne sono stati duecentoquarantatre: zero inventiva, narrazione piatta, messa in scena ultracanonica, spaventi telecomandati, personaggi del cui destino non ci interessa mai, nemmeno lontanamente. Una noia mortale: forse giusto un demone, impossessatosi del regista, avrebbe potuto rivitalizzare la stanza operetta. Delusione.
Voto: 3

11 – ORDET (Cinque grandi emozioni)
Ridicolo finanche spendere parole (ehm) su un tale capolavoro. Presentato in sala dal “guest director” Carlo Verdone (simpatia, cortesia e competenza innegabili: bravo!), che lo ha scelto tra i suoi cinque titoli per il festival, di Ordet non si possono che cantare l’incanto e la meraviglia che suscitano, la profondità di pensiero che lo attraversa (tale che un film sulla fede possa essere lodato anche da un cinico ateo), la magnificenza del bianco e nero (abbacinante il primo, scurissimo il secondo), l’eccezionale carica emotiva, l’impianto drammaturgico, la poetica di Dreyer che prende corpo come fosse un miracolo…  
Voto: 10

12 – BINA/THE ANTENNA (After Hours)
Ebbene, cari Dei del Cinema, mi confesso. Reduce dalla giornata post-notte horror, cominciata alle nove di mattina con la visione del folle titolo austriaco (della serie: non ho più vent’anni, da un pezzo …), ebbi l’ardire, durante la proiezione in seconda serata del turco Bina/The Antenna, di appisolarmi, di tanto in tanto; in tal modo perdendo qualsiasi seria capacità critica (vabbè, non rompete, la vedo la vostra faccia canzonatoria). Comunque, per quanto possa valere una visione così parziale, per quel ho potuto vedere e rimembrare (certamente l’inizio, parte della parte centrale e quarantacinque minuti finali), il film è il classico distopico che si nutre di elementi horror e sci-fi già visti, derivativi (facile pensare a Cronenberg, a Ballard, ma anche a Under the Skin e al Dr. Who) per dispiegare la serie di metafore e sottotesti sociopolitici che costituiscono cuore pulsante e anima dell’opera medesima. Nulla di sconvolgente o particolarmente originale, va detto. Il passo un po’ troppo lento, la mancanza di carisma di protagonista e comprimari, e il finale pasticciato non permettono al film di elevarsi.
Voto (da prendere con il beneficio di una mezza dozzina di inventari): 5

13 – BEATS (Festa mobile)
La definizione di “repetitive beats” era contenuta in una legge britannica del 1994 (Criminal Justice and Public Order Act) che proibiva l’organizzazione di rave party… Beats è un folgorante bianco e nero, tra l’urgenza di Trainspotting e la rabbia di This is England, che racconta l’amicizia tra due ragazzi, Johnno e Spanner, di come la tanto agognata partecipazione al loro primo rave costituisca l’acme del sentimento e l’inizio di un nuovo percorso. Fortemente politico, con palesi richiami alla disfacente realtà odierna, molto critico nei confronti della autorità costituite (centrale la figura del padrino di Johnno, poliziotto), delle quali non lesina di svelarne malefatte e atti violenti, abile altresì nel catturare l’anima dell’epoca e nel saper descrivere i disagi di famiglie e zone ai margini della società, Beats, diretto da Brian Welsh adattando un testo teatrale, sa però essere anche molto leggero e divertente, pulsante, catartico. Bella scoperta.
Voto: 7

14 – GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA (Festa Mobile)
Il solo lavoro dei cinque presentati diretti da Teona Strugar Mitevska (presente al festival in qualità di membro della giuria del Concorso) che sono riuscito a vedere è il suo ultimo, Dio è donna e si chiama Petrunya. Un ritratto fedele e credibile della condizione della donna, a qualsiasi latitudine (non solo della Macedonia per capirci), tanto più evidente quando si rompono sche(r)mi e regole precostituite. Gli uomini, giustamente, non fanno una bella figura (dal capo della fabbrica che le confessa apertamente che «non se la scoperebbe», al prete succube della follia della massa, al funzionario di polizia ottuso, fino all’idiota capopopolo); ma non siamo in un film a tesi o spinto dalla cieca furia della retorica femminista (quella fondamentalista, s’intende): quella di Petrunya è una lotta anzitutto per affermare la propria identità, conquistare spazi e diritti, ottenere rispetto in quanto persona, a dispetto degli ostacoli assurdi che le si frappongono e di una croce da “restituire” perché, evidentemente, dei simboli ha bisogno chi si bulla ma sta perdendo i riferimenti di una società maschilista e non chi è dotata di forza e acume come Petrunya. Al contrario di quanto si possa pensare, l’autrice cesella uno spaccato sociale, culturale e politico non solo intelligente e arguto ma anche vivace, divertente.
Voto: 8

15 – WET SEASON (Concorso)
La stagione dei monsoni in Wet Season (mentre fuori, a Torino, diluviava ininterrottamente) sembra essere quasi un elemento accidentale, decorativo, come messo per bagnare un’aridità di sentimenti (e quindi al massimo vale come banale metafora) che non riesce però a solcare il rigido impianto filmico. In questa storia tra un’insegnante di cinese in una scuola di Singapore e un suo alunno prediletto, il sentimento predominante, quello capace di liberare impulsi impensabili, è la solitudine, che sa colpire nel profondo e raggiungere chiunque. Taglio delicato, sguardo posato con cura su personaggi e interpreti, attenzione a dinamiche istituzionali (famiglia, scuola, vicinato), Wet Season, diretto dall’Anthony Chen di Ilo Ilo, descrive un incontro anomalo eppure necessario di storie e di solitudini differenti, distanti, destinate a distaccarsi. Senz’altro solido e coeso, lascia semmai un po’ freddi, quasi disinteressati.
Voto: 6

16 – IL GRANDE PASSO (Concorso)
Con tutta la simpatia che si può provare per regista (Antonio Padovan, lo stesso di Finché c’è prosecco c’è speranza) e interpreti (oltre a Battiston, già nel succitato titolo, il “gemello” Stefano Fresi), Il grande passo è, onestamente, un filmetto carino-carino trascurabile e dimenticabile. L’autore, presente in sala con nutritissimo seguito (pure un assessore della Regione Veneto …), ha citato come punti di riferimento Carlo Mazzacurati e Steven Spielberg. Orbene, del primo non v’è traccia alcuna, del secondo ci sono i buoni sentimenti e l’animo del fanciullino aperto a nuove avventure. Tutto di seconda mano. Al di là di alcuni gustosi duetti tra i due “gemelli” (non ci vuole poi molto, eh), dell’insolito contesto (una cittadina di campagna nel rodigino), dell’accessibilità alla storia e all’immediata empatia, non c’è granché da esultare. Stridente (nonché sprecata), inoltre, la potente, sinfonica colonna sonora di Pino Donaggio. Il finale prevedibile con precisione chirurgica è solo il culmine di una narrazione elementare, di una messa in scena piatta e provinciale, di una ronda attoriale talora svagata, di una configurazione amicale.
Voto: 5

17 – GREENER GRASS (After Hours)
Io ne ho … sentito e letto cose che voi cinefili non potreste immaginarvi … sì, a proposito di Greener Grass. Fatevi curare (o sopprimere). Il punto non è il tipo di comicità surreal-demenziale che può non essere apprezzato da tutti. Sti cazzi (se già adori John Waters e i Monty Python, Mel Brooks e la Troma). In questo vomito filmico in cui taluni intravedono, come è facile intuire e bersi, il suddetto John Waters, Wes Anderson, Tim Burton, John Landis, David Lynch (ogni volta che lo si nomina a sproposito un bambino a New Orleans viene linciato), in zona soap alla Desperate Housewives (e io ci aggiungo Suburgatory, tiè!), la ripetitività del non-sense genera siparietti sempre più spenti e pallosi, in cui l’elemento provocatorio si disperde in una nuvoletta rosa plasticosa. Ché questo il film è: un frullato ipervitaminico, all’americana, di gag grottesche a getto continuo, nell’ottica di una stupidità ricercata (ma non si scade mai nello sgradevole, nel trash, né si accede, mai, alla sfera sessuale) che ha anche la salvifica funzione di autogiustificarsi e autoassolversi. Sotto la scenografia curatissima e la confezione ipercromatico-zuccherosa non c’è nulla: zero regia, sceneggiatura latitante; risibili inoltre i tentativi di fare della (generica, elementare) critica alla buona borghesia americana. I sorrisi stampati, l’apparenza quale valore fondamentale, il politicamente corretto imperante: basta questo a fare un film e non, che so, un videoclip o il filmino delle pornovacanze? Davvero?
Voto: 2

18 – DREAMLAND (After Hours)
I titoli di testa sparano subito Henry Rollins e Juliette Lewis. E già sono in una terra dei sogni. Il primo lo seguo e lo conosco per la sua carriera da musicista prima (Black Flag; Rollins Band) e poi come attore in ruoli secondari spesso sopra le righe; l’altra è Juliette Lewis, non ha bisogno di presentazioni. Peccato che non siano affatto i protagonisti di Dreamland, ma solo meri comprimari. Il protagonista, in doppia, riconoscibilissima veste, è Stephen McHattie; a dirigere è Bruce McDonald (Pontypool, ma anche episodi di Heartland …), che squaderna il suo imprescindibile neo-noir di killer implacabili ma con l’anima, boss del crimine spietati, bambini vittime, geni drogati, prostitute buone, contesse feroci, “vampiri” pedofili … E pallottole, dita mozzate, mazzate date e prese, piani pericolosi, sacrifici finali, luci postmoderne, note jazz suonate nelle situazioni più disparate, fiotti di sangue sgorganti … Come dite, vi sembra di aver già visto il film? Ecco, proprio quello che avete immaginato, come lo avete immaginato.
Voto: 4,5

19 – LA GOMERA (Festa Mobile)
Fischia, che feega la Catrinel Marlon (già Menghia)! Ok, bando alle cenciose, perniciose, maschiose ciance. Ne La Gomera, diretto da Corneliu Porumboiu, già al TFF 33 con Il tesoro, il poliziotto Cristi si reca sull’omonima isola delle Canarie al fine di apprendere il linguaggio dei fischi, necessario per far evadere di prigione un delinquentello. Interessante, nevvero? Peccato che, malgrado il discreto taglio noir, la cosa si perda in un vortice frenetico di venticelli thriller i cui meccanismi (dark lady, colpi di scena, colpi proibiti, doppi-tripli giochi) non solo sono risaputi ma anche confusionari man mano che il gioco prosegue. Soprattutto il finale scioccarello, cui mancano soltanto i fuochi d’artificio e una hit strappa-mutande, grida vendetta.
Voto: 5,5

20 – ISLANDS OF LOST SOULS (Si può fare!)
Il mastodontico Charles Laughton è un luciferino, geniale, fanatico, voluttuoso dottor Moreau nella riduzione cinematografica del celeberrimo romanzo di H.G. Wells. Sta in scena fiero come un Re, un po’ annoiato un po’ interessato un po’ capriccioso, sempre gigantesco: intorno gli girano il film, di fatti e fenomeni noti, di entità animalesche con fattezze semiumane e burattini umani semiscemi, fatti dell’inutilità di cui è fatta la volta di celluloide. Giusto la donna-pantera - che panterona! -, può destare attenzione (giacché al mitico Bela Lugosi toccano travestimento ferino e modesto spazio), anelare una condivisione con cotanta divinità. Farà una brutta fine, il dr. Moreau (spoiler! Stolti!), nella terrificante “house of pain”; e le sue urla strazianti, come provenienti da un altrove immondo innominabile, accompagnano una visione cupa e preziosa.
Voto: 8

21 – THE TINGLER (Si può fare!)
Scream for your lives! Dannato d’un William Castle, mai troppo ricordato e celebrato: che spettacolo magnifico The Tingler! La sequela di invenzioni geniali per spaventare, coinvolgere il pubblico in sala è straordinaria e infinita; addirittura, in questo stratosferico film del 1959 con Sua Maestà Vincent Price, l’inconfondibile vena creativa del mago Castle si coniuga con il tentativo impossibile di rappresentare, fisicamente, letteralmente, (meta)cinematograficamente la paura. Sì, quel brivido che scorre infido e malevolo lungo la schiena quando si è spaventati, terrorizzati, scioccati. Il “mostro” è una cosa viva, vive dentro di noi, se evocato si materializza fino a provocare rigidità e perfino malformazioni tanto più intenso è il sentimento provato; e, se estratto dal corpo nell’attimo parossistico, prende la forma di una specie di aragosta nera che azzanna a morte la povera preda ma si arresta quando ode urla. Quindi, urlate per le vostre vite! Non si contano le scene memorabili, anche quando frutto di ingenuità a cui oggi guardiamo con sciocchi occhi (il filo che muove la bestia …), su tutte l’apparizione del Tingler sullo schermo di un cinema, quando fa fuori il protezionista e si prende la scena. Applausi. Urla. Grandioso.
Voto: 9

22 – PRELUDE (Concorso)
Prelude delude, Dude. Non che si avessero chissà quali aspettative (però stava in Concorso, eh). Il pensiero immediato, facilissimo, è che il film tedesco diretto da Sabrina Sarabi, al suo debutto, contiene una quantità sterminata di prodotti affini. Struttura e meta sono quelle del tradizionale coming of age: l’ambiente ipercompetitivo (un conservatorio di musica), la figura dell’amico-rivale e quella dell’amore, l’insegnante di materia e cose di vita, gli ostacoli, l’audizione della vita, i fallimenti ecc.. Suona già sentito, molte volte; un preludio di cui si conoscono a memoria note, scale, temi e tempi. Buoni sonoro e montaggio sonoro, e l’idea degli stati d’animo vissuti dal giovane protagonista attraverso vari effetti (la pallina di ping pong, il metronomo, il piano) ma il trascinato finale con coda a effetto-shock immerge definitivamente Prelude nell’oblio cui è destinato.
Voto: 5

23 – RAF (Concorso)
Una cosa è certa. Grace Glowicki è il personaggio del festival, una grande performer. Attrice protagonista nel modesto RAF del suo amico Harry Chepka, regista e interprete in Tito (che non sono riuscito a intercettare, mannaggia). In questa opera è, appunto, Raf (da “Raffaella”, ovvio, no?), una tizia male in arnese che vive in un seminterrato, di professione aiuto-tuttofare, fidanzata per noia, ma con dentro una vitalità e una personalità che emergono con prepotenza quando incontra la benestante Tal. Ambienti e toni indie (anche quando si allarga a scenari mozzafiato del panorama canadese), messa in scena minimal, componente dialogica importante, narrazione priva di grossi sussulti: su tutto domina Raf/Grace, dinoccolata, sgraziata, fortissima (l’imitazione di Charles Manson!), fragile, irresistibile. Ne sentiremo parlare.
Voto: 6

24 – PINK WALL (Concorso)
Il fratello del protagonista maschile Jay Duplass, Mark, nella seconda stagione di Goliath (procedural drama di Amazon con Billy Bob Thornton) faceva una fine orribile, tra arti mozzarti e soprattutto lingua tagliata. Parlava troppo. Parlano troppo, i Duplass, infatti (ri)conosciuti alfieri del catarroso “mumblecore”. Si parla tanto, tantissimo anche in Pink Wall, esordio alla regia dell’attore Tom Cullen (a molti, anzi, a molte, noto ma personalmente ho dovuto wikipediare per capire chi minchia fosse. Ok, ancora non so chi mischia sia). Tutto ruota attorno alla relazione tra Leon (Duplass) e Jenna (la briosa, brava Tatiana Maslany di Orphan Black) nel corso di sei anni, impaginati nel film come singole fasi-scene Nel turbinio convulso, non di rado banale, di frasi, parole, dialoghi, urla, (ri)sentimenti sfacciati e rancori implosi, finiscono però anche discorsi che catturano perfettamente il momento: da un lato l’uomo insicuro, di scarse ambizioni, dall’altro la donna dominante, sicura di sé e del proprio posto nel mondo. Questioni di genere (ribadite con forza stereotipata nella scena della cena a cui partecipano esemplari di ogni pensiero), di aspettative e pressioni, di retropensieri paranoici e azioni cattive. Il confronto finale appare forzato, sconclusionato. Un film più di parola (appunto) che non di regia (scolastica).
Voto: 6

25 – THE BLACK CAT (Si può fare!)
Ci sta un gatto nero. Come poteva starci un carlino, una salamandra, una nutria. Facile nutrirsi alle “suggestioni” di Edgar Allan Poe se poi del Genio Americano non ci sono né tracce né granelli sabbia. Tolto il (ridicolo) pretesto, rimane il film alimentare di Edgar G. Ulmer (che in carriera produrrà ben altro, per nostra fortuna). E loro. Boris Karloff (accreditato con il solo cognome) e Bela Lugosi. Che botte se si incontrano due Dei. Il primo, Hjalmar Poelzig, è una sfinge dalla natura maligna; il secondo, Dr. Vitus Werdegast, un uomo ferito in cerca di vendetta. Unità di luogo la dimora gotico-impressionista di Poelzig; compagni di ventura il solito eroe senza macchia senza paura senza personalità, servitori brutti ceffi e donne, alcune vive altre imbalsamate nella loro beltà immortale. Nello scontro tra i due divi vive unicamente il film, appesantito da uno script fallace (i trascorsi in guerra dei due vecchi amici/rivali) e sbrigativo. Risorse sprecate. Fascino nostalgico.
Voto: 5

26 – ONIBABA (Si può fare!)
Meraviglia delle meraviglie, poter fruire sul grande schermo la leggendaria opera di Kaneto Shind?! Sembra di assistere a un sabba maledetto e sensualissimo, violento, di corpi e demoni che si contorcono sinuosi e maligni per creare una danza rituale dai poteri magici, occulti, (m)isterici, che ti trasportano in un altrove e in altroquando ove la Morte e il Desiderio e la Carne governano il Caos di esistenze e burattini di un grande disegno ignoto. Magistrali le sequenze nell’eroticissimo oceano fluttuante di canneti che pare avere vita propria, le corse a rotta di collo della giovane, la mascherata della anziana, il buco nero e profondo, il sentimento crescente di quest’ultima che si vede privata del proprio oggetto di piacere/possesso. Onibaba è un saggio sulle debolezze e gli istinti primari dell’animo umano, uno studio profondo sulla/e sessualità, una ode all’arte cinematografica.
Voto: 10


27 – MAGARI (Festa Mobile).
Elkann. Quelli, sì. Pensi. Vabbè. Me tocca. Invece. Ginevra Elkann, che ha all’attivo una carriera più che decennale di produttrice e distributrice di tutto rispetto, stupisce portando al festival Magari, lavoro che parte da un assunto abusato (gli effetti della separazione dei genitori sui figli) per generare una sua idea personale e sincera. Il punto di vista adottato è quello dei bambini, e già qui è praticamente un miracolo: sono tre - con la più piccola, Alma, a creare un legame immediato con il pubblico -, bilingue (il padre è Riccardo Scamarcio, la madre Céline Sallette), somiglianti tra loro per tratti fisici ed emotivi, e tutti sanno esprimere una naturalezza impressionante, disarmante. La naturalezza è di fatto il registro principale del film - anche nei momenti di stanca o di sussulto narrativo o ancora di elementi un tantino banalotti (lo “zio” americano caciarone) -, rintracciabile altresì nell’illuminazione degli spazi e nei movimenti di camera. Gli anni ottanta nei quali è ambientata la vicenda regalano gustose perle (il poster col posteriore in evidenza, il vistoso apparecchio ai denti, i cinepanettoni in tv) ma paiono più che altro sfruttare l’onda nostalgica di molti prodotti dell’audiovisivo.
Voto: 6,5

28 – FIN DE SIGLO (Concorso)
Il giorno dopo che l’avevo visto, mi trovavo nell’ennesima coda mentre due signori in età da pensione (una donna e un uomo) ne disquisivano ammettendo, apertamente e senza remora alcuna, di non averlo capito, di non aver compreso in particolare le ellissi narrative (vabbè, sintetizzo da par mio): «Ma come, il frigo prima è pieno poi vuoto, che significa?!». Avrei voluto fargli un disegnetto. Ma tant’è. Vero è però che Fin de siglo esige attenzione, perché quando i piani del racconto – del reale, del ricordo, del possibile - cominciano a intrecciarsi allora è facile restare un minimo perplessi. Giusto un attimo. Finché gli aloni della rete di costruzione filmica si sciolgono svelando un pensiero che oltrepassa le convenzioni per imbastire una (vera, verosimile, immaginata) storia d’amore tra due uomini nei solchi dei bivi del tempo e di quell’indecifrabile senso di indeterminatezza che intrappola esistenze e memorie. Intelligente e (forse troppo) pensato (la maglietta dei Kiss pare il corrispettivo della trottola di Inception),  il film di Lucio Castro trova una sua collocazione per la via personale scelta e lo sguardo delicato.
Voto: 7

29 – MIENTRAS DURE LA GUERRA (Festa Mobile)

Alejandro Amenábar è (più o meno) una garanzia. Mientras dure la guerra è un solido affresco storico-civile: narra gli albori della presa del potere da parte del “Generalísimo” Francisco Franco dal punto di osservazione privilegiato dello scrittore, poeta, politico, rettore dell’Università di Salamanca, Don Miguel de Unamuno. Figura controversa, inquadrato nell’ultimo anno di vita, tirato per la giacca da figlie e amici che vorrebbero usasse il suo status e il suo prestigio per denunciare pubblicamente i crimini dei fascisti ribelli militari. Tutto interessante, tutto un po’ troppo laccato, calligrafico, pulito, retorico. Mancano passione e sangue, il sudiciume e gli orrori della guerra civile, manca soprattutto un punto di vista personale, proprio, deciso. Va come dove andare, anche in direzione odierna con il parallelo con certi begli esponenti dell’ignoranza più becera. Curioso, in tal senso, il subitaneo, spontaneo rimando alla figura rozza e insulsa, tutta slogan e incitante all’odio, del generale Millán-Astray con un certo nostro popolare esponente sovranista …

Voto: 5

30 – SIMPLE WOMEN (Festa Mobile)
La direttrice del TFF, Emanuela Martini, nel presentare il film diretto dall’esordiente Chiara Malta, ha giustamente posto l’accento sulle difficoltà per le donne, in particolare in Italia, di fare le registe. Orbene, poteva scegliere un altro caso (ma vedi sotto a Letto n. 6) … Simple Women si distingue per due motivi principali. Uno è l’utilizzo del personaggio, reale e finzionale, di Elina Löwensohn, star al cui culto si abbevera la regista interpretata da Jasmine Trinca che ne vuole raccontare la biografia su film, a partire dal cult Simple Men (e qui finiscono le parentele con l’opera di Hal Hartley), a partire dalla famosa clip della “danza”. Il secondo è che questo miscuglio tra realtà e finzione, tra cinema e meta-cinema, tra ruoli e suoi ribaltamenti, tra significati e sottotesti, genera un pasticcio sfatto e flaccido che si fatica a digerire. Significativo il finale, ancor più confuso e sconclusionato, risibile. Oltretutto, nel reiterare la scena da Simple Men si finisce col banalizzarne film e musica (la grandiosa Kool Thing dei Sonic Youth). Imperdonabile.
Voto: 3

31 – LONTANO LONTANO (Festa Mobile)
Impossibile non pensare a Ennio Fantastichini, alla sua interpretazione. Uno splendido trio di vecchi con l’attore-regista Gianni di Gregorio e Giorgio Colangeli. Pensionati (e non) a Roma, potremmo sintetizzarlo. In cerca di un presente migliore, lontano dal (fu) Belpaese ove poter godere della (misera) paghetta. L'autore intercetta un problema serio, reale, di molti dei nostri genitori e nonni, e lo fa alla sua maniera: ironica, sagace, brillante, in punta di satira e con i mezzi del commediante per missione. Compito riuscito: al vecchio professore di latino, d'una gentilezza innata, tale da fargli perdere un'occasione con una bella signora poiché trattenuto da un vecchio alunno al quale chiede se si ricorda qualcosa della lingua morta (ovviamente no), non si può che voler bene; al pari del pigrone che campa con la minima (altro che quota 100: aumentate le pensioni basse!) e offre il suo bagno per la doccia a un immigrato, e al tuttofare che si arrangia tra restauri di mobili e anela il viaggio. Azzeccati alchimia tra attori/performer, tono, registro e alcuni passaggi (sublime il doppio cameo dello scrupoloso, formale Roberto Herlitzka, tra suggerimenti esotici e furtive bevute di pregiata grappa invecchiata); il finale, però, scade prima in una poco credibile svolta lambendo un possibile dramma e infine in una ancor meno plausibile escursione "buonista" (detesto il termine ma rende l'idea).
Voto: 6,5

32 - TOBY DAMMIT (Si può fare!)
Tra la folla accalcata davanti il cinema Massimo le mie irrigidite orecchie udivano un critico (di quelli "veri", non blogger e compagnia virtuale) definire Toby Dammit il "miglior film di Fellini". Ora, che sia un volo iperbolico non c'è dubbio però senz'altro il segmento da Tre passi nel delirio a opera dell'autore di è un gioiellino alcolico e alienato, visionario e instabile, una trasfigurazione personale e delirante - un naturale approdo filologicamente, intimamente felliniano - dalla fonte poeiana. Posando uno sguardo laterale sul vuoto spinto e disgustoso della corte dello showbiz romano/nazionalpopolare/istituzionale, Fellini cesella una rappresentazione allucinata e policromatica, problematica dell'in(de)finita questione della scelta tra razionale e irrazionale, tra reale e immaginario, tra paura e perversione. Il grottesco è un comodo, conosciuto rifugio; l'ambiguità è un paesaggio fosco. L'Orrore un epilogo ineluttabile.
Voto: 8

33 - OPERAZIONE PAURA (Si può fare!)
La capacità innata di Mario Bava di pennellare autentiche, coinvolgenti, intense atmosfere gotico-barocche trascende le criticità della struttura narrativa, non solo fragile e tutt'altro che consistente ma per di più contrappuntata da evidenti nervature didascaliche talora sconfinanti nel ridicolo. Per merito delle soluzione visive adottate, non ultima la destrutturazione spaziotemporale, della gestione della tensione, delle suggestioni instillate con la diligenza morbosa del dissezionatore di cadaveri, Operazione paura riesce a ottenere il respiro “maledetto”, antico della letteratura del terrore classica, tra case maledette, comunità chiuse che celano segreti innominabili, tragedie e sacrifici per nutrire un perverso senso di fedeltà, maledizioni, figure inquietanti (la bambina fantasma catalizzatrice di morte: intuizione notevole), scontri tra fede e scienza. Considerato nel tempo, giustamente, un caposaldo dell’horror.
Voto: 7,5

34 - OHONG VILLAGE (Concorso)
Un mare che sembra una distesa desertica, desolata, povera, soggetta a intemperie e iper-sfruttamento da parte dell’uomo; e, adagiato come un parassita che segue la sua natura, il villaggio. Gente umile, dedita a lavori duri e faticosi, scarsamente remunerativi (principale attività: l’allevamento di ostriche), incastrata in una sorte avversa dal quale chiede una via uscita, anche attraverso scorciatoie più o meno lecite (la zattera con cui portare turisti in giro; il raggiro sulla pelle dei morti). Succede che quando torna in famiglia un uomo sulla trentina da Taipei, in teoria arricchito (“grande boss” lo apostrofa il suo amico) in realtà nient’affatto, come presto si intuisce, dovrà far conto con il detestato villaggio e con suo padre. Due entità con i quali credeva di aver chiuso, due mondi in conflitto con lui e i suoi sogni. Ohong Village è sia uno spaccato su una realtà a noi distantissima in superficie (lo strano, antico rituale con la sedia, con il santone che predice il futuro e ammonisce sui comportamenti da tenere) ma con il quale condividiamo certamente l’ossessione per l’individuo (e quindi desideri e fallimenti, successi e rovinose cadute), sia un intelligente, accorato racconto di formazione e maturazione.
Voto: 7

35 - NOW IS EVERYTHING (Concorso)
Oibò. Oblò. Oblitererò. Now. Is. Everything. Now … Vabbè, eccetera. Dunque, chi ha lasciato all’apparire dei titoli di coda la visione del film diretto da Valentina de Amicis e Riccardo Federico Spinotti (figlio di Dante, sì) si è perso una buona dozzina di minuti degli stessi accompagnati da voci fuori campo (ripresi dal film), musica elettronica di sottofondo, didascalie più o meno oscure, dediche la qualunque (dal primissimo “questo film è dedicato alla memoria di Heath Ledger” … ‘zzo c’accezza?!? a un florilegio di nomi tra cui Truffaut, Carax, Paul Thomas Anderson, i fratelli Spinotti, i cugini-qualcosa … tipo ringraziamento di condoglianze), fino a giochi col titolo sullo schermo prima a pezzi poi con la parola “everything” che letteralmente copre l’intero schermo. Sperimentale, s’è scritto. Anti-narrativo (di per sé non un male, anzi). Ma meno terribile di quanto temessi o mi avessero riferito. In realtà contiene cose buone (il sound design, la fotografia ovviamente del celebre padre, lo studio su corpi e volti, il volteggiare malickiano della mdp); e certamente i rimandi a Lynch (per via di figure enigmatiche e fughe oniriche) così come a Malick o a Refn sono palesi e dicono di un oggetto derivativo, forse troppo, e ambizioso, senz’altro troppo, però affascinante nelle sue ricercate incomunicabilità e indecifrabilità, e per come riesce ad affrontare con una certa coerenza le soglie del ridicolo. Da segnalare nel cast, a parte un Anthony Hopkins che declama versi criptici, la Madeline Brewer di Orange Is The New Black e The Handmaid’s Tale, il bellissimo volto e il culo espressivo della modella Camille Rowe, mentre dei costumi si occupa niente meno che Colleen Atwood (eh, quando sei nel giro giusto).
Voto: 6

[così, alla fine]

36 - DYLDA/BEANPOLE (Concorso)
Oh, ecco. Lo spendo subito: capolavoro. Pensare che solo un paio di mesi fa ho recuperato il notevolissimo Tesnota ed ecco che già mi sono inebriato come un fumatore d’oppio ossessivo-compulsivo alla nuova opera del russo Kantemir Balagov, classe 1991 (li mortacci!). Dylda sta per “spilungona”, Iya, la tizia altissima, introversa e impacciata, tornata dalla guerra anzitempo per via di un disturbo che la porta a stare immobile per alcuni istanti (occhi sbarrati, un sinistro miscuglio di suoni gutturali che le esce dalla gola), infermiera in mezzo a soldati malati e mutilati, amica intima della “collega” esuberante e sfacciata Masha. La storia di due sopravvissute agli orrori della guerra; orrori che perdurano in una Leningrado tetro teatro di posa, inospitale, e su cui aleggiano gelidi venti di dolore, di tormento e di morte. Lo studio sulle personalità, sul complesso dei sentimenti che tumulano l’animo umano in un eterno, straziante purgatorio – attraverso una narrazione superba, che non si risparmia nemmeno intermezzi brillanti (il duetto tra Masha e la madre del fidanzato è da applausi: gli uomini stiano a guardare, tutt’al più) – è di uno spessore, di una profondità e di una sensibilità tali che ammutolisce; un’indagine multisfaccettata e densa che cresce di sfumatura in sfumatura, di svolta in svolta, di oscillazione in oscillazione, di riflessione in riflessione (si pensi soltanto alla missione da angelo della morte di Iya), di sequenza in sequenza (quasi insostenibili, per la enorme carica emotiva, quella della perdita del figlio e il rapporto a tre forzato, d’una tragica, infinita bellezza che perdura in ogni cellula del corpo!). Straordinario, estatico il pittorico impianto formale, sia per il rigore della messa in scena, austera eppure viva e vibrante, immersiva, che per la colorazione calda e pastosa (dominano le gradazioni di rosso e verde, mentre il bianco apre parentesi di malattia e morte), grazie alla quale si può inoltre godere di inquadrature che sono veri e propri meravigliosi ritratti (evocativi dei preraffaelliti). Maestose le due interpreti, Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina. Che film.
Voto: 9

37 - LETTO N. 6 (After Hours)
Emanuela Martini e la difficoltà per le donne di fare le registe in Italia n. 2. Sfortunata: ha preso gli esempi sbagliati. Oltretutto, se il tanto decantato “sguardo femminile” passa, tra soggetto (tra cui i Manetti bros, anche prdouttori) e sceneggiatura per le mani di ben cinque uomini, allora c’è qualcosa che non torna, no? Letto n. 6, diretto dalla veterana Milena Cocozza (una vita spesa sul set come aiuto regista), è un horror di presenze fantasmatiche, segreti sepolti nelle segrete del passato, misteri da risolvere, eroi(ne) loro malgrado, cattivi che hanno le loro motivazioni e ometti inetti, il tutto in un’ambientazione ospedaliera “da paura” (c’è più vita su Marte il venerdì sera che durante il turno di notte, povera dottoressina-incintina-crescentina). Ma inutile tentare un qualsiasi approccio critico, appigliarsi a incongruenze, debolezze, ridicolaggini e via sprofondando: il film semplicemente è fatto male, scritto male, anzi, peggio, recitato malissimo (ok, vedi Carolina Crescentini e pensi, e questa volta è meritata: «cagna … cagna maledetta!»). Niente paura, niente emozioni né divertimento, solo risatine imbarazzate che sorgono spontanee come lucciole nella notte, mentre assisti a una storia che conosci a memoria e che largamente puoi anticipare nei colpi di scena e a un compitino eseguito in maniera scolastica e forse controvoglia, come fossimo in una puntata di una mediocre serie per giovanissimi (ché l’Horror è una cosa seria, porca zozza). Unica, piccola nota di merito la colonna sonora di Motta. Lanciato in super-anteprima in una sala riempita sì e no per un terzo, a fine proiezione si sono sentiti timidissimi applausi di circostanza e per educazione, solo per via della presenza di regista, interpreti, produttori.
Voto: 2

38 - A WHITE, WHITE DAY (Concorso)
Con gli islandesi vai (quasi sempre) sul sicuro. Narrazione e messa in scena asciutte, ai limiti d’una rigidità formale letale, coesione di racconto, robustezza di temi, concentrazione estrema e capacità di sintesi (niente svolazzi né virtuosismi di sorta, insomma). Non difetta questo dramma teso e avvincente (vincitore peraltro del Torino Film Festival, immeritatamente, a mio illustrissimo parere), che il giovane regista e sceneggiatore Hlynur Palmason incolla sul volto e sulle spalle del solido Ingvar Eggert Sigurðsson il quale interpreta Ingimundur, poliziotto e uomo tormentato dalla perdita della moglie e rinfrancato dal rapporto con la nipotina Salka. Dopo la sequenza dell’incidente mortale, ripresa dall’alto con ottima tecnica, si susseguono insistite riprese della casa isolata in cui vive Ingimundur, catturate nello scorrere placido e immutabile delle stagioni. Immutabili come sono le stagioni dei sentimenti dell’uomo, stagnante in uno stato sospeso tra afflizione, torpore del quotidiano e speranza (la vivace nipote, certo, così come la ristrutturazione della dimora). Come talora accade, basta un moto del caso per azionare il caos, ridestare gli intorpiditi, dare il corso alle danze della violenza. Mano sicura, regia di sostanza - anche quando la svolta a tre quarti del film appare forzata e poco plausibile -, gestione dei tempi e della tensione esemplare, direzione attoriale buona e coinvolgente. A white, white day è insomma uno di quei film consistenti e compatti che fa sempre bene guardare.
Voto: 7

39 - UN CONFINE INCERTO (After Hours)
Tra ladino, italiano, romeno, tedesco Un confine incerto valica linee e barriere geografico-linguistiche esplorando delimitazioni e confini dell'innocenza perduta, o meglio, manipolata, sedotta, tradita, deviata verso territori dall'incerta dimensione che terminano nel più terribile, disgustoso dei mali: la pedofilia. Virato nel caso specifico nell'ottica di un rapporto "esclusivo", all'apparenza quasi gentile (al giovane che ha sottratto la bambina alla sua famiglia piace più guardare ma esige una devozione completa), che cela in realtà sotto la superficie un morboso, perverso senso di possesso: questo legame si sostanzia quindi in una credibile, totale sottomissione da parte della piccola, che vede nel disturbato, schifoso criminale uno "zio" con il quale vivere gioiose avventure. Il film di Isabella Sandri, collaboratrice di Giuseppe Gaudino (Per amor vostro è un titolo alquanto sottovalutato), vibra però più sulla cart(in)a, ovvero sulla mappa delle (pur lodevoli) intenzioni che non sulla resa effettiva. Sebbene le atmosfere siano in parte azzeccate, anche per via dei paesaggi inconsueti filmati (dalla Foresta Nera alle valli trentine), i confini entro quale si muove l'opera della Sandri restano sempre quelli al limite con la fiction televisiva nostrana. Non aiuta il finale, esile e sbrigativo, come per dover chiudere i conti entro stringenti paletti prestabiliti. Valeria Golino ha più un ruolo da guest, la protagonista è la brava Cosmina Stratan del pluripremiato Oltre le colline di Cristian Mungiu.
Voto: 5,5


----------------Infine, testimonianze dal festival-------------

[Roger Tornhill/Roberto fotografato assieme alla sua creazione palloncinara, che la megadirettrice si è portata via]

[ancora Freddy il simpa]

[i cinque dell'Ave Cesare! - da sinistra a destra: Daniele/Supadany, il sottoscritto, Gianni/Giannisv66, Roberto/Roger Tornhill, Fabrizio/Kurtisonic]

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