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Visioni dal TFF 36.
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M Valdemar

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Visioni dal TFF 36, anno 2018. Meglio, forse, visoni. Già, ciò che sarebbe servito per il freddo cane (chihuahua, azzarderei, azzannerei) che ha caratterizzato la seconda parte della settimana festivaliera. Ma che non ha certo congelato la famelica, atavica, costipata brama cinefila; di consuete girandole impazzite di strani individui che abitano sale e spazi tra sale e salate strade cittadine con la salamata aria seria di chi conosce cose e vede gente.

Io ne ho viste cose … ecc.
A partire dai rituali innominabili; che, appunto, per (non) contraddirmi, nomino: le code, le code scodate, i nomi scordati, gli imbuti, le resse, le risse purtroppo no, le volontarie e i volontari dall'aria cortese e talora involontariamente parimenti serialkillerosa, i pasti frugali e le regali pizze ingollate da tizi in sala, così, come nulla fosse, la puzza di cibo, le facce belle e quelle truci e quelle che a pelle ti stanno sulle balle, i discorsi intesi e le intense, voluttuose occhiate a femmine d'indubbia avvenenza, i continui confronti del genere «a me è piaciuto quello-a me quell'altro-a me nessuno ma anche tutti-io ce l'ho più lungo ... l'occhio critico-non capisci un pimpernello di cinema-minchia che gambe la rossa!», l'assalto assai poco diligente alla diligenza di caffè e croissant durante la pazza Notte Horror, le telefonate e i messaggi frenetici (tienimi il posto, tienimene due, Tienanmen, l'ho vista!), le levatacce e le benefiche pause enogastronomico-turistiche, le visite stalkerose alla pasticceria crudista preferita, le crude verità svelate perché per gli spoiler è finita la pacchia, le pacchiane mise sfoggiate da signore di una certa età e da hipster, l'isteria di massa per rincorrere titoli e azioni filmiche.
E i film, epicentro epistemologico di quel bizzarro universo di critici, esperti, presunti esperti, millantatori, spettatori occasionali, blogger, appassionati, abitudinari, curiosi, boriosi.
Un'edizione forse inferiore alle precedenti, sia per la qualità delle opere che per alcuni, evidenti rinunce (budget tagliato?).
Ma sempre viva, capace di aprire profondi squarci di cinema dalle più differenti vedute astrali: il genere, i prodotti d'essai, gli sperimentali, i documentari, il mainstream, le letture politiche e quelle leggere; e della più varia provenienza geografica. Tante pietanze, tanto da vedere.
Capita la perla insperata, capita la delusione, capita la noia. Il gioco è sempre quello.
Il godimento, pure.
[di ritrovarsi con gli amici di filmtv, che spettacolo].

Insomma, cotanto tombal preambolo per dirvi che sì, anche quest'anno, malgrado eventi potenzialmente avversi, fui testimone nonché complice del fagocitante, irresistibile delirio torinofilmfestivaliero.

Come da indefessa tradizione mvaldemariana, a gran richiesta (mia, perdinci! serve altro?) si propone l'usuale carrellata di ciò che i miei bulbi oculari videro, nel mitologico buio di sale ove magica illusione avvenne, in compagnia di altri folli.
Segue pertanto elenco dei film visti, in rigoroso peloso ordine cronologico, con annesse brevi riflessioni pseudocritiche che vogliate prendere cortesemente e simpaticamente per verità assoluta, per dogmi, come atto di fede.
Fidatevi, fidelizzatevi, infilatevi in calde cavità pixelose.

I migliori tre del concorso (tra quelli visti: me ne mancano quattro):
1 – THE GUILTY
2 – LA DISPARITION DES LUCIOLES
3 – VULTURES.


I migliori cinque in assoluto (escluso per ovvie ragioni Peeping Tom):
1 – NOTHING OR EVERYTHING
2 – ALPHA, THE RIGHT TO KILL
3 – ASH IS PUREST WHITE
4 – HIGH LIFE
5 – MANDY.

I peggiori:
1 – RELAXER
2 – EL BUQUE MALDITO
3 – RIDE
4 – IN FABRIC
5 – TYREL.


[Ah, alla fine di tutto (dei tempi, degli empi esempi, della ragione, della cagione di tutti i mali, di tutte le metafore forate e di tutti i frutti), appunti e testimonianze dall'oltrefestival, più o meno. Presenze …]




1 - IN FABRIC (Afterhours).
Il quotato autore di Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy («pinastriiii» … ma vaff …), Peter Strickland, torna (anche al TFF), con In Fabric, a esibire il suo (comunque riconoscibile) immaginario di mortifera eleganza: un'impaginazione infiocchettata, curatissima come l'opera d'imbellettatura del coscienzioso beccamorto sul freddo cadavere, che mescola commedia grottesca e toni orrorifici dalle palesi reminiscenze dei prodotti di genere degli anni 60-70. Cromature estetiche e cromatismi ricercati rivestono l'ammuffito abito filmico che narra di un abito maledetto: se lo vesti, ti uccide. Qualche buono spunto (il negozio di abbigliamento come luogo di orrore del consumismo estremo), comunque mal sviluppato, non salva una storia divisa in due parti (il collegamento è un filo esile) che tende spesso al ridicolo involontario, al riciclo di idee, al ricamo opulento, alla presenza di corpi e facce che fanno e dicono cose strane perché devono farlo.
Non indossatelo.
(voto: 3)

2 - HAPPY NEW YEAR, COLIN BURSTEAD (Festa mobile).
Il discontinuo Ben Wheatley propone il classico gioco al massacro di famiglia in interni. Il ricorso a un feroce, spesso riuscito e pungente, british humour, dal quale ricava dialoghi brillanti e battute anche cattive, lo aiuta nel difficile atto di cercare di rendere interessante e personale il già visto. Il resto lo fanno il buon cast capitanato dal fido Neil Maskell di Kill List (e tra le cui fila annovera l'attrice Hayley Squires, appena prima vista nel film di Strickland), il montaggio serrato e l'ambientazione (una enorme, nobile e decaduta magione); sebbene s'impantani nelle conclusioni.
Guardabile.
(voto: 6)

3 - PAPI CHULO (Festa mobile).
Io confesso. Per tutta la visione del film pensavo «hey, questo tizio sembra proprio un tipo alla Matt Bomer». Sorpresa sui titoli di coda: il tizio protagonista è Matt Bomer. Per tutti i papi-papi-chulo e i te traigo el mmmm (ma grazie per avermi ricordato quell'osceno pezzo di “musica” latina di merda), sto invecchiando. Ok, questioni di senilità imminente a parte, Papi Chulo, scritto e diretto da John Butler (di cui non conosco altro), è un comedy-drama sorprendente e intelligente. Nella storia apparentemente assurda dell'amicizia tra il presentatore meteo giovane-ricco-bello-famoso-gay-single e il tuttofare messicano molto più vecchio che tiene famiglia, Butler sviluppa in maniera coerente e non priva di profondità e riflessioni lucide, tanto il tema della solitudine e della perdita quanto quello del confronto tra realtà che nemmeno parlano lo stesso linguaggio. E la stessa lingua.
Bello, fino alla fine.
(voto: 7)

4 - MANDY (Afterhours)
Un Nic Cage così

è per sempre. Straordinario. Nicola al meglio del suo peggio, al peggio del suo meglio; oltrepassa le gabbie dell'amletico, amniotico dubbio “ci è/ci fa/si fa?” per farsi maschera rossa portatrice di pestilenziale, salvifico trashume. Clonatelo. Pregate per la sua anima. Aderite al culto della sua espressione da culo mentre guarda in camera. Voglio una t-shirt con quella faccia. Adoratelo, adottatelo, veneratelo: s'aggira per la stanza in mutande, prende una manciata di coca e se la infila tra naso e bocca, fa a lotta a chi ce l'ha più lunga (la motosega), infila un'incredibile serie di momenti-cult che sputi lacrime ed erutti solidi ghigni. Un'esperienza mistica. Il film. S'apre come (quasi) serio horror di atmosfera, abitato da una straordinaria Andrea Riseborough in vesti morticiaaddamsiane, poi vira di registro, si fa sempre più grottesco e fuori di testa, scodella fluidi tipici del revenge, assume e fa assumere dosi massicce di satanismo e fanatismo religioso, versa drogatissime, psichedeliche pennellate cromatiche, mitraglia citazioni goduriose e dialoghi strafatti e nudi frontali, convoglia le note ad hoc del fu Jóhann Jóhannsson (mentre il pezzo in apertura è niente meno che Starless dei King Crimson), eccede in scenografie malate, in inquadrature malate, in sequenze malate, in un ritmo progressivamente sempre più indiavolato, in una estetica della violenza e in una narrazione che vanno dalla cialtroneria al genio al nonsense. E che finale. E che bravo Panos Cosmatos (figlio del George Pan di Cassandra Crossing, Rambo 2 e Leviathan): scrive, dirige, stupefa. E che Cage. Eccheccage.

Irresistibile.
(voto: 8. voto serio: 8. voto serio-serio: 666)

Ned Dennehy

Mandy (2018): Ned Dennehy

Andrea Riseborough

Mandy (2018): Andrea Riseborough


5 - INCIDENT IN A GHOSTLAND (Notte Horror)
Il primo della maratona. Dicono, scrivono “lovecraftiano”. Manco per il tentacolo più loffio di Cthulhu. L'omaggio è solo nominale, incidentale, pretestuoso. Poteva pure essere Stephen King, o Clive Barker, o Michela Murgia. La sostanza non cambia. Ma, evocazioni risibili a parte, Incident in a Ghostland del Pascal Laugier di Martyrs (che film! Horror puro, ai limiti dell'insostenibilità), è robaccia. Residuato farlocco dalle molteplici suggestioni e basi. Derivativo. Con personaggi alla deriva (le vittime, l'orco, la mente, i poliziotti). Sciocco, per l'insistenza irritante dell'ammasso di bambole. Per aver pensato che bastasse la (presunta) sovrapposizione temporale per sopperire alle carenze di scrittura di storia e soprattutto personaggi. Che rimangono rinchiusi nella gabbia di poche idee. La regia regala pure discrete sequenze ma conta poco. Il finale, in più finali, è un'ulteriore zappata che affossa qualsiasi velleità.
Trascurabile.
(voto: 4)

6 - PEEPING TOM (Notte Horror)
L'occhio che uccide. Michael Powell. Nella retrospettiva dedicata al geniale duo Powell & Pressburger, il seminale thriller psicologico diretto dal solo autore inglese finisce nella cornice della Notte Horror per via della tematica legata ai “maniaci”. Ampiamente discusso, studiato, mandato a memoria. Mark Lewis è un archetipo: delle ossessioni, della banalità del male, del disturbo psicologico, dello sguardo, dell'occhio (umano, cinematografico, dello studioso) che riflette, filma, uccide, costringe a vivere la propria morte. Visto su grande schermo, non si può che ammirarne la grandezza.
Imprescindibile.
(voto: 9)

7 - PIERCING (Notte Horror)
Alla regia il giovanissimo Nicolas Pesce, tratto da un romanzo di Ryu Murakami (di cui lessi Tokyo Soup, tempo fa) che diresse il controverso Tokyo Decadence (sempre da una sua opera), Piercing non riesce mai a uscire da un sostanziale disinteresse. Il classico film che procede senza guizzi né sorprese di sorta (eppure il classico ribaltamento di ruoli almeno un minimo di sviluppo in tal senso lo esige), sorretto da personaggi anonimi (e spiace per la solitamente brava Mia Wasikowska) e da una regia mandata avanti col pilota automatico. Il titolo è un appiglio, una postilla per giustificare un hype che non c'è.
Boh.
(voto: 4)

8 - WILDLIFE (Concorso)
Il titolo vincitore del TFF. Wildlife, esordio alle regia per l'ottimo Paul Dano (scritto con la compagna Zoe Kazan), mette in scena le vicende di una famiglia disfunzionale americana nel 1960, dramma dalle connotazioni forti e dai toni agrodolci. Il problematico rapporto moglie-marito che prende svolte sorprendenti e influisce inevitabilmente sull'animo e sulla vita del figlio, il classico bravo ragazzo, che è l'unico, nell'arco della storia, a mantenere un comportamento maturo e consapevole. Un intenso turbinio emozionale ben realizzato ed esposto da Dano, che rifugge l'enfasi urlata così come la gabbia-indie per aderire a uno stile asciutto e lineare (per sfociare nel didascalismo), coeso e coerente come la figura del ragazzo. Impreziosito da un cast di alto livello (Jake Gyllenhaal è una garanzua, Carey Mulligan è presenza luminosa anche quando il suo personaggio s'affaccia ad aperture verso il buio, il giovanissmo Ed Oxenbould recita con la stessa cifra attoriale di Paul Dano). Bel finale malinconico.
Da vedere.
(voto: 7)

Carey Mulligan, Ed Oxenbould, Jake Gyllenhaal

Wildlife (2018): Carey Mulligan, Ed Oxenbould, Jake Gyllenhaal



9 - L'ULTIMA NOTTE (After Hours)
Giallo-thriller padano basato su da fatti di cronaca nera (e vera), L'ultima notte ha riferimenti precisi (Avati, Argento su tutti) ma nessuna identità. Se la brutta storiaccia di fratelli e omicidi e azioni abiette ha una sua fascinazione, dati anche il contesto provinciale sociale (la campagna modenese) e le miserie umano-culturali che ne scaturiscono, la realizzazione difetta in troppe componenti. Dalla fotografia in perenne tonalità grigiastra, enfatica ed eccessiva, alla regia che insegue una ricerca formale che non sa padroneggiare (salvo poi, appunto, scivolare su espedienti balordi), allo stonato commento sonoro (spesso fuori fase, come buttato a caso) fino alla direzione degli attori quasi amatoriale, il film diretto da Francesco Barozzi si rivela un oggetto assai grezzo, adatto semmai a collocazioni televisive.
Brutto.
voto: 4)

10 - PRETENDERS (Festa mobile)
Quel furbastro di James Franco. Ancora una regia, ancora un altro film (dopo l'acclamato The Disaster Artist) destinato all'anonimato prima e all'oblio dopo. Pretenders declama discendenza e amore verso la Nouvelle Vague, a partire dall'immortale Jules et Jim. Sequenze inequivocabili, citazioni, omaggi, battute (tra i bersagli anche Ultimo tango a Parigi: che Franco cerchi di affrancarsi dal giogo del MeToo al quale è stato anch'egli accostato?), clip, poster, immagini, icone. Un frullato ipervitaminico vittima delle proprie aspirazioni, che lascia i personaggi (lui, lei, l'altro) in balia di eventi caotici e soluzioni bislacche, che anela a un'autorialità malriposta, che insegue maldestramente modelli irraggiungibili, che scade in zone pericolose. Finale da buttare, perché vanifica istanze e perché pretende di raccontare/spiegare/giustificare un enigma laddove non ce ne dovrebbe essere alcuno (dove la mettiamo l'inafferrabilità insita della donna?). Bellissima la Jane Levy di Shameless, Suburgatory e Man in the Dark.
Pretenzioso.
(voto: 4)

Jane Levy, Shameik Moore, Jack Kilmer

Pretenders (2018): Jane Levy, Shameik Moore, Jack Kilmer


11 - EL BUQUE MALDITO (After Hours)
Primo incontro per il sottoscritto con il cinema dello spagnolo Amando De Ossorio (del quale è stata presentata al TFF la “tetralogia dei resuscitati ciechi”). Primo e ultimo. El buque maldito, in italiano La nave maledetta, è un filmaccio della peggior risma. Impossibile scatti il guilty pleasure: non solo la storia è risibile, i dialoghi sconcertanti, gli attori dilettanteschi, gli effetti speciali indegni (il modellino della nave che affonda è roba che manco Muciaccia sotto stupefacenti), la messa in scena inesistente e svogliata, è che manca proprio un qualsiasi spirito trash. Zero volgarità, zero nudi, zero comicità (anche involontaria, ma magari!). Solo il nulla.
Perdita di tempo.
(voto: 1)

12 - TYREL (After Hours)
“Il nuovo Scappa – Get Out”. Più che altro, il nuovo sticazzi. Stitica messa in opera di (presunte) problematiche razziali, Tyrel è la verbosissima tiritera di un tizio di colore che passa un paio di giornate in una casa di montagna con altri tizi, tutti bianchi. Anche ammesso ce ne siano, le ovvie istanze, mai così attuali, sono sommerse da una valanga d'istupidente chiacchiericcio. La (flaccida) tensione, nelle relazioni tra gli individui, si scatenano perlopiù da azioni e dichiarazioni sceme in evidente stato di alterazione alcolica, che non da comportamenti intolleranti. Odiosi tutti i personaggi (Caleb Landry Jones, un fenomeno, lo deve essere per copione; gli altri …), ha un guizzo solo con l'entrata in scena di Michael Cera. Troppo poco.
Irritante.
(voto: 3)

13 - NOTHING OR EVERYTHING (Onde)
Dalla sezione più sperimentale e interessante del TFF (Onde), arriva questa perla, Nothing or everything. Dramma sudcoreano incentrato su due figure femminili che ripercorrono il percorso fatto dalla sorella di una di loro che si è suicidata. I faticosi sentieri di un fitto bosco come urgenti, tormentose tappe della (ri)elaborazione di una perdita: di una persona cara, di sé, della propria Natura. Vita e Morte. Rivivere la morte come atto rivelatorio, come presa di coscienza. Il dolore è un implacabile compagno di viaggio, che non cessa mai di sollecitare l'animo ferito e le corde della memoria e della psiche spezzate; sino a sospendere le coordinate spaziotemporali in una dimensione indefinibile di oscura esplorazione degli anfratti esistenziali. Pochi dialoghi, niente commento sonoro (ma sound design potente e immersivo, di fruscii ambientali persistenti, penetranti e vibrazioni umani implose), camera a mano insistente che carezza e insegue i personaggi, realismo ricercato e viscerale, interpretazioni aderenti e intense: un'opera dolente, rigorosa e inesorabile, di estrema, feroce fluidità.
Finale da brividi.
(voto: 8,5)

scena

Nothing or Everything (2018): scena

scena

Nothing or Everything (2018): scena


14 - NOS BATAILLES (Concorso)
I francesi sanno fare cinema. Mi si perdoni l'ovvietà, ma le cose stanno così. Nos Batailles, ben lungi dal rappresentare chissà quale novità, è un solido dramma familiare e sociale al cui centro risiede un uomo, marito e padre, operaio e caporeparto, collega e appassionato sindacalista. La moglie, insoddisfatta e repressa, inascoltata, scappa: all'uomo tocca mettere mano agli affetti, coniugare lavoro e impegno sociale con le necessità primarie di badare, come non aveva fatto prima, ai due figlioletti. Romain Duris, al solito impeccabile (grande attore, per quanto mi riguarda), impersona questa figura umanissima ma interrotta, in un film che procede compatto e attento verso una meta in divenire. Non solo le difficoltà del ruolo paterno-materno, anche quelle del sindacalista realmente attento alle esigenze altrui e personali. Forse il ritratto (perlomeno nelle vesti lavorative) è un po' troppo “pulito” e idealista, però Nos Batailles riesce a dar voce a istanze reali mantenendo una sua coerenza.
Sensibile.
(voto: 7)

15 - THE GUILTY (Concorso)
Sorpresa. Dalla Danimarca, un robusto thriller svolto sulla linea (telefonica …) alla Locke, in tempo reale (alla 24, ma vero), capace di tenere la tensione infiammata e costante lungo l'ora e mezza di svolgimento. Al centro delle scene, il poliziotto Asger (un ottimo Jacob Cedergren), nell'imminente atto di dover rispondere ad accuse pesanti, e ora relegato nel castrante ruolo di operatore di emergenza (quello che risponde al 112, per capirci). Solo (se non fosse per esigenze di copione e di alleggerimento potrebbe esserlo davvero), al telefono con una donna vittima di sequestro. Una rappresentazione quasi teatrale che rispetta fedelmente unità di luogo, tempo e azione: la risoluzione del caso oltrepassa le linee del protocollo, il background del poliziotto si rivela essere nient'affatto pretestuoso, l'ansiogena progressione della vicenda assume toni drammatici e sorprendenti. Forse qualcosa potrebbe non tornare, il finale magari può indispettire (ma, a farci bene attenzione, è del tutto congruente e credibile), sta di fatto che The Guilty è opera compiuta e riuscita.
Teso.
(voto: 7,5)

Jakob Cedergren

Il colpevole (2017): Jakob Cedergren



16 - ANGELO (Concorso)
La figura, realmente esistita, di Angelo Soliman, africano vissuto nel diciottesimo secolo e venduto come schiavo a una contessa austriaca (interpretata da Alba Rohrwacher, bravissima anche a recitare in francese), cresciuto nella Vienna nobiliare da cui fu istruito fino a diventare popolare e richiesto a corte. Richiesto ed “esposto”, letteralmente, tanto da vivo quanto da morto: un pezzo da museo, un'attrazione esotica in epoca illuministica, che pure in vita gli aveva dato la possibilità di elevare la propria condizione sociale e finanche di diventare proprietario di casa (e di sposarsi, in segreto). Dunque, alle origini del razzismo moderno. Opera divisa in cinque capitoli, Angelo ha la dimensione – ricercata – di un'esposizione museale: immagini fissate come tableau vivant, scene lentissime come se spostassimo gli occhi da un pezzo a un altro, personaggi immobili o semi-immobili, dialoghi effettati (e affettati), passo placido. Un po' troppo, sinceramente.
Faticoso.
(voto: 5)

17 - ALL THESE SMALL MOMENTS (Concorso)
“Coming of age”. Numero millequattrocentodue. Carino, eh. Ben fatto, con tizi simpatici – l'adolescente che prende per una sbandata per una trentenne che vede sull'autobus, il fratello minore battutaro, la compagna di scuola che ci prova, i genitori incasinati – con i quali ci si può identificare, e caratterizzato da scenette scritte bene e da alcuni momenti indubbiamente divertenti. La presenza di Molly Ringwald (sì, proprio lei, la “Bella in rosa”, icona delle commedie adolescenziali anni ottanta) è chiaramente evocativa.
Carino.
(voto: 5,5)

Molly Ringwald, Jemima Kirke, Brendan Meyer

All These Small Moments (2018): Molly Ringwald, Jemima Kirke, Brendan Meyer



18 - HIGH LIFE (After Hours)
Claire Denis e la fantascienza speculativa e filosofica. Un'esplorazione dell'evoluzione dei rapporti umani in un'epoca sempre più arida di sentimenti, futura ma non troppo distante dalla nostra. Un carcere fluttuante nello spazio i cui ospiti sono soggetti a esperimenti volti a creare vita, laddove la vita sembra una presenza accessoria, meramente incidentale, e destinata al nero oblio. Il buco nero attorno a cui gravita la navicella riflette la precarietà esistenziale ma anche la nascita stessa. Giusto un altro “incidente” può dare senso alle cose tutte al prigioniero interpretato da Robert Pattinson. Un'estetica di forte impatto, una meccanica della narrazione elaborata su più piani temporali, una progressione degli eventi trascinante, una serie di sequenze spettacolari e forti, un flusso di pensiero che attraversa fasci di ambiguità e foreste di simboli. Un altro ruolo importante nella carriera post-Twilight di Pattinson, supportato da Juliette Binoche (come in Cosmopolis). Qualcosa sembra non tornare nella conta dei corpi ma è un dettaglio trascurabile.
Attraente.
(voto: 8,5)

Robert Pattinson, Juliette Binoche

High Life (2018): Robert Pattinson, Juliette Binoche



19 - HEAVY TRIP (After Hours)
Dalla Finlandia col furore blackmetallico. Gli Impaled Rektum, ovvero quattro sfigati di paese che inseguono (da oltre una decina d'anni) il loro primo concerto, e le assurde, variopinte traversie che li condurranno a suonare in Norvegia. Umorismo semplice, spesso demenziale, con parentesi drammatiche sempre però in ottica “positiva”, personaggi paradossalmente credibili (il vero metallaro è innocuo come un panda), esplorazione del mondo musicale infimo convincente, filologia del genere colta (citazioni, certo, ma pure un fottuto sound tritura ossa! Grazie renna macellata incastrata!); peccato per la troppa faciloneria in cui scade, da tre quarti in poi. Comunque divertente, astenersi gente che non ha mai ascoltato gli Emperor o un riff dei Children of Bodom e non ha mai nemmeno sentito nominare i Carcass (e che poi, magari, pontifica su cose che non conosce. Fanculo).
Symphonic Post Apocalyptic Reindeer Grinding Christ-Abusing Extreme War Pagan Fennoscandian Metal.
(voto: 7,5)

scena

Heavy Trip (2018): scena


20 - DOVLATOV (Festa mobile)
Già autore dello splendido Under Electric Clouds (visto al TFF33), Alexej German jr. porta sullo schermo la figura di Sergej Dovlatov, scrittore tra i più importanti e amati della letteratura rossa (riconoscimento post mortem). Trentenne, divorziato e con figlia a carico, giornalista per necessità, autore non riconosciuto né pubblicato, perché il controllo da parte delle autorità è ferreo e duro. Non si può deviare da codici prestabiliti e ordini costituiti. Ma non si può, parimenti, rinunciare alla propria integrità, morale e autoriale: in un contesto socioculturale e politico castrante, frustrante, di letture proibite e vincoli burocratici imperanti, Dovlatov sceglie una sua via, personale e libera, a costo di perdere tutto. Radicale, implacabile lettura politica, il film di German jr travalica confini e regole del biopic (il racconto si ferma a cinque, fondamentali giorni nella vita dello scrittore) per creare un componimento elaborato, impegnato (e impegnativo), di sequenze (e piani sequenza) immersive, di messa in scena dalla caotica eleganza, di oscillazione dei personaggi che sembrano frammenti viventi, di contenuti alti e coraggiosi.
Necessario.
(voto: 8)

21 - BLAZE (Festa mobile)
Le opere, la vita, le colossali bevute del misconosciuto Blaze Foley, autore country morto a quasi quaranta anni nel 1989. Dirige Ethan Hawke. Buon film, corretto, anche duro e a suo modo poetico, che bene inquadra una figura borderline – il tipico loser, solitario, piantagrane e integralista – ad alta gradazione alcolica, sullo sfondo di un'America rurale e di locali fumosi e fumati. Respiro lento, patina vintage, adesione sincera, Blaze, suddiviso su tre piani temporali che si intersecano in maniera elementare ma efficace, segue, fino a farli suoi, il ritmo e le sonorità e i turbinii di parole del musicista. Un po' troppo verboso (conformandosi allo spirito di Floey) e ripetitivo, una due ore, che alla lunga estenua, di country music.
Prolisso.
(voto: 6)


22 - RIDE (Concorso)
Ride. Non fa ride'. Né piangere, come la protagonista. Il simpatico Valerio Mastandrea si regala il suo superfluo debutto alla regia con un film ambizioso, su tematiche non consuete, ma non riesce a oltrepassare la cortina fumogena e fuffosa di molto cinema nazional-provinciale. Sconnesso, non riesce a gestire i diversi toni e registri, con presenze che paiono catapultate sul set come per caso e istanze sociopolitiche (la fabbrica, la morte al lavoro) infilate per dare un tono al film. Risibili tutte le scene con i bambini. Chiara Martegiani, compagna di Mastandrea, è una Micaela Ramazzotti meno cagnesca e con un voce normale.
Abbaglio collettivo.
(voto: 3)

23 - ATLAS (Concorso)
Il bravissimo Rainer Block (già visto quest'anno nel meraviglioso Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck) è Walter, il protagonista di questo solido thriller drammatico che fotografa una realtà inusuale, quella dei traslocatori “forzosi”, ossia la forza bruta delle compagnie di recupero crediti (quelli che portano vie le cose agli sfrattati). Solitario, senza affetti, vecchio ma ancora prestante, risoluto, il migliore della squadra: l'esistenza paludata viene sconvolta dall'ingresso di due personaggi. Atlas è un film di atmosfere, di facce dure, di corpi, di normalità indossata come un abito, di silenzi e improvvise deflagrazioni di violenza (mai “spettacolare”; è il percorso di espiazione e redenzione di un uomo che sa di avere sbagliato e di non avere altra scelta se non l'azione. La sceneggiatura sbrodola cede nella seconda parte con qualche sbavatura, con alcuni personaggi monodimensionali (il cattivo) e in particolare con un finale posticcio che rovina quella che era una chiusa esemplare (ottimamente girata e illuminata, peraltro).
Duro.
(voto: 7)

Rainer Bock, Thorsten Merten

Atlas (2018): Rainer Bock, Thorsten Merten


24 - FIRST NIGHT NERVES (Festa mobile)
Aspirazioni melodrammatiche (mah), composizione sofisticata, impianto drammaturgico di matrice teatrale, attenzione alle figure femminili, contesto sociale borghese e di celebrità: il ritorno di Stanley Kwan dopo Showtime (2010), è un mezzo flop. Parte bene, benissimo, con le due protagoniste che devono dividere loro malgrado il palco dell'importante, sfarzoso City Hall di Hong Kong: per una, ritenuta tra le migliori attrici, è l'occasione di un ritorno alle scene dopo un addio complicato, per l'altra, attricetta probabilmente ascesa con mezzi non proprio nobili, è invece vissuto come terra di confronto con l'altra e con la propria professionalità. Dal conflitto tra primedonne naturalmente discendono piccole grandi scene (sulla scia di un classico come Eva contro Eva) dai toni brillanti e mordaci, con battute ficcanti ed entrate in scena godibili (in particolare il regista, che da uomo si trasformando in donna). Ma, nonostante l'indubbia maestria del girato, delle inquadrature formalmente ineccepibili, le cose precipitano in una soap all'acqua di rose. Dal conflitto allo sconforto il passo è breve: la scrittura perde progressivamente brillantezza, il ritmo cala, i personaggi smarriscono spessore e identità. Rimangono l'eleganza, l'opulenza, i vestiti firmati e le auto di lusso. Per chi si accontenta.
Interrotto.
(voto: 5)

locandina

First Night Nerves (2018): locandina



25 - ULYSSES & MONA (Festa mobile)
Un intenso, barbuto Eric Cantona, presenza scenica sempre formidabile, interpreta un artista ritiratosi in un casale, isolato dal mondo e dagli affetti, che incontra Mona (Manal Issa, brava a tenergli testa), la quale lo venera e cerca in ogni modo di entrare in contatto con lui, e la assume come assistente. Il film – un dramma dai toni intimisti, intriso di un umorismo spiazzante – racconta, attraverso una sequela di avventure dolceamare e tragicomiche, l'animo di un uomo inaridito e solitario, misantropo e inadatto a relazionarsi col prossimo, pigro e laconico, e di come un evento imprevisto e una presenza solare e viva, lo rimettano in moto, verso l'abbraccio a ex moglie e figlio, ad aprirsi alla società. Buoni dialoghi, costruzione del rapporto credibile, bella colonna sonora.
Prezioso.
(voto: 7)

Eric Cantona, Manal Issa

Ulysse & Mona (2018): Eric Cantona, Manal Issa

Eric Cantona, Manal Issa

Ulysse & Mona (2018): Eric Cantona, Manal Issa

 

 26 - RELAXER (After Hours)
The Dark Side of Ready Player One”: recita così la sinossi del programma del TFF. Da galera. Tra le cose più risibili mai viste, Relaxer sembra il compito di classe di uno quattordicenne svogliato ed evidentemente non troppo sveglio sul quale il cane del vicino ha evacuato solide e liquide realtà. Puzzolente, marcito, brutto a vedersi-sentirsi-odorarsi, irritante e istigante i peggiori sentimenti, è un film a getto continuo di idee riciclate-rimasticate-rigurgitate con nessun senso né fine se non il proprio sollazzo. E grazie al lazzo. Nemmeno il versante trash né gli ammiccamenti funzionano: liquidi corporali, escrementi, la centrifuga citazionista (che prende sempre i nostalgici pronti a bersi tutto), l'attitudine babbea (come fosse una puntata di Jackass tagliata perché troppo stupida), il crescendo schizzato, la gittata demenziale. Che pena. Nulla che valga la pena salvare. Vanta persino estimatori. Da dissezionarne i cervelli.
Inguardabile.
(voto : 1)


27 - NUEVA ERA (Onde)
Per bocca dello stesso regista presente in sala, Matti Harju, artista finlandese, Nueva Era è un collage di clip e immagini fatte dal suo iPhone. Due anni circa di girato e montaggio: si susseguono video (della durata di pochi secondi a non più di due-tre minuti), foto, inquadrature fisse, didascalie sovrapposte (delle più disparate: da “opulenza” a “cultura casuale” a “nueva era”), riprese di altri mezzi, interrotte sempre in modo brusco e grezzo. Rumori di fondo, ambientali, silenzi rumorosi, musiche elettroniche. Oggetto/missione: una sorta di diario, forse, o in parte, autobiografico, antinarrativo, di scene divise con un paio di amici, di dialoghi della quotidianità, di fotogrammi spesso indirizzati ai margini del campo visivo, di immagini incomprensibili, e dalla differente risoluzione. La domanda, stranamente non posta, rimane: come è stato fatto l'assemblaggio? Ovvero, perché quell'assemblaggio e non un altro, non essendoci alcun senso nella progressione delle sequenze? Gli intenti di mostrare la deriva angosciosa e angosciante della società (mah) sono ingenui, sia per la resa dell'opera, francamente sterile, che per la mancanza di un'idea strutturata. Rimane l'interessante connubio di formati.
Innocuo.
(voto: 4,5)

28 - PITY (Concorso)
I greci e la società alienata/alienante. Ancora un tassello di una cinematografia altamente caratterizzata. Pensi, inevitabilmente, a Lanthimos, e pensi giusto: il suo sceneggiatore di fiducia, Efthymis Filippou, è coautore dello script di Pity, diretto, alla sua seconda prova, da Babis Makridis. Il grottesco è un porto sicuro quanto efficace, una cifra stilistica preziosa, uno stato della mente. Ognuno elabora il dolore a modo suo: l'avvocato interpretato da Yannis Drakopoulos, maschera imperturbabile, che ha la moglie in coma in seguito a un incidente, si sostiene e rinfranca la sua anima grazie a quel tipico sentimento di pietà che suscitiamo negli altri in simili circostanze. La ricerca sistematica di questo impulso disinteressato porta l'uomo a una serie sempre più assurda, tragicomica, incontrollabile, di azioni e gesti anche cattivi, criminali, fino alla completa alienazione. Sì, il film è esattamente come sembra, come lo aspetti: meccanico nell'evoluzione, incisivo nei rivoli brillanti della commedia nera, spiazzante nel contrasto tra svolte drammatiche e distacco dell'individuo. Almeno un paio di scene ampiamente prevedibili (inquadratura per inquadratura), comunque godibile nel complesso.
Greco.
(voto: 6,5)


29 - JULIET, NAKED (Festa mobile)
Jesse Peretz è il regista del bruttissimo, idiota Quell'idiota di nostro fratello (2011). Con Juliet, Naked, tratto dal romanzo omonimo di Nick Hornby, non fa danni. Anzi, su script adattato tra gli altri da Tamara Jenkins, si mette al servizio di una storia oggettivamente irresistibile, con personaggi fantastici e dialoghi strepitosi (e grazie, è Hornby!). Il fanatismo quasi religioso di certi adoratori di star o presunte tali, che abita selvaggio la rete tra miti ricostruiti e siti folli, dà spunto e carica comica alle vicende dell'inglese Annie (Rose Byrne, adorabile) e del di lei compagno Duncan (Chris O'Dowd, caratterista perfetto, con quegli occhi ravvicinati e l'espressione scimunita dipinta in faccia), la cui ossessione è Tucker Crowe (Ethan Hawke, bravissimo; sue le performance musicali della band di Crowe), misconosciuto musicista ritiratosi da venticinque anni. La filigrana romantica non rovina affatto il maelstrom impetuoso di battute spassose e situazioni brillanti: l'umorismo è sempre intelligente, folgorante, colto, caustico. Che ridere!
Esilarante.
(voto: 8)


30 - BAD POEMS (Concorso)
L'equivoco del concorso. Il regista, l'ungherese Gábor Reisz, dirige sé stesso in una banalissima storia che non riesce a fare a meno di ricorrere a espedienti narrativi abusati e archetipi della commedia adolescenziale, al fine di costruire un personaggio sospeso nella propria malinconia in seguito a un trauma amoroso. Bellini certi siparietti, carine le inquadrature, simpatiche le versioni più giovani dell'uomo, ma il film è sostanzialmente fuffa.
Fuffoso.
(voto: 4)

31 - MADELINE'S MADELINE (Festa mobile)
Che sofferenza. Josephine Decker, spesso al TFF, scrive e dirige Madeline's Madeline. I dolori della giovine Madeline. Fragile, psicologicamente instabile, partecipa alle prove di uno spettacolo in cui l'improvvisazione e la ricerca della performance assumono un ruolo determinante. Anche nel portare la ragazza, sulla spinta delle due figure principali (la madre, dimessa e severa; la regista, risoluta ed esigente), a (con)fondere le due realtà, a portare in una le pulsioni dell'altra e viceversa. Il climax è un pezzo di improvvisazione ricercata che, nel trascendere piani e dimensioni, è atto rivelatorio della condizione e del pensiero stesso di Madeline. Interessante, più per le intenzioni e la scrittura che non per la regia. Il taglio documentaristico, la narrazione sbandata, gli impulsi dialogici invadenti, il lessico caotico, la colonna sonora di vocalizzi urticanti, la ricerca formale dell'arte come verità (camera a mano convulsa), affossano un film dalle alt(r)e potenzialità. Madre e regista sono interpretate da volti noti, Molly Parker e Miranda July. Ma la vera sorpresa è Madeline: la ventenne Helena Howard, al suo debutto, una bellezza selvatica esplosiva dall'intensità e dall'espressività disarmanti. Mi sbilancio: diventerà una star atomica.
Indigeribile.
FOTO (voto: 4)

Helena Howard

Madeline's Madeline (2018): Helena Howard

Helena Howard

Madeline's Madeline (2018): Helena Howard



32 - UNTHINKABLE (After Hours)
C'è dell'apocalittico in Svezia. Disaster movie alla maniera dei classici americani degli anni settanta, Unthinkable è un'opera concepita e realizzata da un collettivo (Crazy Pictures) e cosceneggiata dall'attore protagonista, Christoffer Nordenrot (venuto al TFF a presentare il film). La Bim lo distribuirà in Italia. L'adolescenza problematica di Alex, madre dolce ma remissiva e padre autoritario e violento, paranoico, con le possibilità di un amore che non sboccerà mai per cause avverse; e infine la fuga. L'assunto è l'impalcatura psicologico-introspettiva dell'uomo che, cresciuto e diventato musicista famoso, si trova a dover far ritorno nei luoghi dell'adolescenza, mentre una crisi elettrica e attacchi terroristici stanno affondando il Paese. Se lo sguardo è curioso, la progressione degli eventi comunque avvincente, il ritmo sostenuto (ma non come i blockbuster americani, per fortuna), la tensione costante, Unthinkable non evita passaggi sconclusionati (uno su tutti, che ha fatto esplodere la sala, ma è umorismo involontario), si prende un po' troppo sul serio, si poggia su un volto non propriamente espressivo, deraglia un po' nella seconda parte. Ma ha il coraggio pazzesco di dare un nome e un volto (e soprattutto retta alle paranoie del padre) a quello che è un nemico da molti paventato ma che pochi osano mettere in evidenza.
Impensabile.
(voto: 6,5)


33 - LA DISPARITION DES LUCIOLES (Concorso)
La bella Karelle Tremblay, sguardo penetrante ed espressivo, furbetto, è Léonie, adolescente ribelle e arrabbiata, insoddisfatta: della famiglia (la madre si è risposata con l'uomo che ha causato il fallimento del padre, emigrato per lavoro), della propria condizione, del posto in cui vive (una cittadina nel Quebec, provinciale e inaridita, colpita dalla crisi economica), dell'estate sfigata e sonnacchiosa che l'attende, delle possibilità di un futuro da determinarsi. L'incontro con un uomo più maturo (un chitarrista che vive con la madre, d'indole mansueta e solitaria) le offre lo spunto per emanciparsi, per trovare una sua via, per maturare. I toni tenui, il volto fresco della ragazza, l'ariosità e la luminosità delle scene, lo spirito genuinamente indie, la cura per personaggi e ambienti, la coesione narrativa e dialogica (non priva di battute ficcanti), persino il simbolismo elementare e un po' pretestuoso delle lucciole, rendono apprezzabile e incisiva la pellicola diretta da Sébastien Pilote.
Meritevole.
(voto: 7,5)

Pierre-Luc Brillant, Karelle Tremblay

The Fireflies Are Gone (2018): Pierre-Luc Brillant, Karelle Tremblay


34 - VULTURES (Concorso)
Due fratelli. Uno è un criminale spacciatore di basso profilo, l'altro è un avvocato di successo. Succede che quest'ultimo, per coprire un ammanco notevole da egli stesso causato a un caso che sta seguendo, decide di mettersi in affari con il primo. Gli ovuli di droga fatti ingerire a una ragazza polacca in arrivo a Reykjavík, rappresentano dunque un'ancora di salvezza. Il film islandese, un thriller noir teso e violento, crudo, dall'incedere rigoroso e intenso, abitato da facce giuste, mette in scena le ambiguità e le rovine di una società che spesso, ingenuamente, immaginiamo diversa, “pura”. Il racconto è avvincente e la tensione costantemente alta, mentre la violenza infesta individui e collettività come il carico di ovuli con il corpo della povera ragazza. Sul finale un po' sbanda (la poliziotta che penetra da sola nell'habitat dei criminali e non chiama rinforzi, né prima né dopo, è difficile da accettare), ma la chiusa è ideale e inconsueta.
Travolgente.
(voto: 7,5)

35 - ASH IS PUREST WHITE (Festa mobile)
Presentato da Jia Zhang-ke (Presidente di giuria del TFF) e dalla moglie-attrice Zhao Tao [coi quali ebbi la pazzesca occasione di farmici una foto: correte e piè pagina. NdMV], Ash is purest white è un affresco superbo sul profondo, angoscioso sperdimento di fronte a una realtà vasta e in continuo, caotico mutamento come la Cina, attraverso quindici anni di racconto della vita di Qiao. Prima moglie del boss locale Bin, poi incarcerata per avergli salvato la vita, infine ritornata alle origini. Un prontuario di traversie e sentimenti forti, di contraddizioni e paradossi, che riflette la costante, colossale trasformazione (non in meglio, la denuncia) del Paese della Rivoluzione Culturale. La violenza esplode, la sofferenza dilaga, la trasformazione è un magma irrefrenabile e imprevedibile, le tensioni sociali aumentano, la distanza tra ceti è una placca continentale che si allontana, sempre più, l'imbarbarimento è un virus che infetta luoghi fisici e virtuali, la stagnazione morale è un fenomeno irreversibile, la sopravvivenza come difesa estrema della propria umanità: tutto un mondo sul volto, di un'intensità enorme, di Zhao Tao. L'autore di Still Life è qui meno teorico e compiuto del mastodontico Al di là delle montagne, ma il suo pensiero, critico e politico e storico, scorre fluido e necessario, rigoroso, con la consueta maestria nel comporre sequenze e dipingere inquadrature, nell'esigere attenzione e rappresentare frantumazioni dell'individuo e della collettività.
Notevole.
(voto: 8,5)

Zhao Tao

I figli del fiume Giallo (2018): Zhao Tao

[Emanuela Martini, direttrice del TFF, con Zhao Tao e Jia Zhang-ke]



36 - THE ELUSIVE PIMPERNEL (Powell & Pressburger).
È purtroppo l'unica pellicola che ho visto del mitico duo (oltre al già conosciuto Peeping Tom del solo Powell nella cornice della Notte Horror), all'interno della retrospettiva completa presentata al TFF. L'inafferabile Primula Rossa – che io preferisco chiamare L'elusivo Pimpernello perché sono scemo –, anno 1950, è un titolo senz'altro minore di P&P, un avventuroso giocoso e goliardico, ambientato durante la rivoluzione francese. La Primula Rossa è un nobile inglese, il baronetto Percy Blakeney, che si cela dietro le sembianze di un damerino superficiale. Ma è anche David Niven. Perfetto per l'impianto rocambolesco costruito da P&P, tra travestimenti e battute pungenti, duelli e fughe, piani ben riusciti e sbeffeggiamenti del nemico (ma anche di certi amici), equivoci amorosi e decisioni azzardate. Non buona la copia presentata, soprattutto per l'audio scadente. Ma vale sempre la pena.
Reperto storico.
(voto: 6,5)

37 - ALPHA, THE RIGHT TO KILL (After Hours)
Già al TFF 34 fu presentato il notevole Ma' Rosa. Con Alpha, the right to kill, Brillante Mendoza completa il discorso sulla drammatica deriva della società filippina, sulla violenza e sulla corruzione insite, a ogni livello. Aperto e chiuso da filmati di parate della polizia che si autoglorifica, il film è un'immersione totale e totalizzante in un mondo lercio e abietto, dominato dalle norme della sopraffazione e in cui vige il feroce motto del “cane mangia cane”. L'autore filippino serra i ranghi e compone un'opera scevra da prolissità di sorta, dritta al bersaglio come una freccia che si conficca nel cuore. Pulsano, nel vivissimo flusso filmico, le fagocitanti riprese con la mdp a mano, i piani sequenza lunghi e raffinati, le deflagrazioni della violenza, la meccanica degli eventi, l'implacabile scansione narrativa, la brutale eleganza delle sequenze di azione (come fosse Michael Mann), la lucidità della messa in opera. Che film.
Visione potente.
(voto: 8,5)

scena

Alpha, the Right to Kill (2018): scena




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[pizzata tra amici-utenti di filmtv.it, indigeni, infiltrati, e rifugiati. Bella gente]


[discorsi agguerriti, mentre il sottoscritto è sfocato: meditavo, forse, su Gerhard Richter?]

[il gelo ci costringe in un abbraccio forse mortale: da sinistra a destra, Roberto/Roger Thornhill, il sottoscritto, Gianni/Giannisv66, Fabrizio/Kurtisonic]

[in principio fu Fabrizio, a beccare Jia Zhang-ke, che gli chiese di fare una foto ... ma glazie!]

[poi venne il sottoscritto, per l'occasione de-mvaldemarianato. Andò così: causa necessità primarie, ero in coda alle nobili latrine del Cinema Massimo, quand'ecco che scorsi nell'atrio Jia e Zhao accompagnati da traduttrice, dalla Martini e un paio di fotografi. Da cui, l'atroce dubbio: che faccio, perdo il numero (si fa per dire) e mi avvicino a loro? Dopo un decimo di secondo ero già lì. Dapprima potei solo (hai detto niente!) con la meravigliosa Zhao Tao ...]

[in seguito, un evidentemente ingelosito Jia, si aggregò a noi]

[interno sala in attesa di Ash is Purest White]

[foto di cinefilo che fotograga cinefilo che fotografa cinefilo che fotografa un leghista intelligente. Con Gianni e Fabio/Ethan]

[frugali pasti alansmitheeiani in un ristorante coreano. Io c'ero stato il giorno prima.]

[pasti sani. Ma l'abbinamento quesadillas-tequila è la morte sua. O mia, chissà]

[programmi sottosopra]

[visite salvifiche: dopo una mangiata pesante, duecentodieci gradini per salire su in cima è stata una faticaccia]

[ma ne è valsa la pena, per scorci come questo]

[e questo]

[altri scorci cittadini: il cinefilo altrimenti cosa deve fare mentre si sposta da una parte all'altra?]

 

 

[di ritorno, la notte. Così]

 

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