No, non è iniziato tutto con il 7 ottobre. E non finirà nemmeno con un eventuale cessate il fuoco. Quello che è richiesto dal comune senso dell’umanità, ma anche dal buon senso storico, è un cambiamento ben più radicale, che non può non passare per una considerazione complessiva di ciò che accade in quella terra da ormai più di un secolo. Quello che accade a Gaza e in Cisgiordania dal 7 ottobre deve esser collocato in un contesto storico più ampio e dolorosamente criminale. Criminale nel senso specifico e formale della lunga sequela di crimini contro l’umanità che uno Stato membro delle Nazioni Unite ha commesso nei confronti di un popolo a cui ancora ci si ostina a negare il diritto alla autodeterminazione. E che ormai sono sanciti come crimini da più di una sentenza della Corte internazionale di giustizia (d’ora in avanti ICJ).

No Other Land ci racconta la terribile storia di Masafer Yatta, nel frattempo diventata ancora più terribile: la colonizzazione avanza, con il suo corredo di distruzione di case, furto di terre e di acqua, violenze coloniali, assassini in favore di telecamera e connivenza dell’esercito. Il genocidio di Gaza e l’“operazione speciale” in Cisgiordania (l’operazione “Carri di Gedeone”, ennesimo sfregio suprematista e nichilista di una tradizione religiosa che meriterebbe ben altra pietas) ci parlano di una storia che sta finendo malissimo. È però bene anche chiedersi come sia iniziata, perché solo così potremmo decidere se ciò che abbiamo sotto gli occhi è la deviazione da un progetto o il suo compimento. Questa necessaria decisione fa tutta la differenza nella postura politica, umana e culturale che saremo chiamati e chiamate a prendere. E allora indietreggiamo, per meglio prepararci al salto di qualità che è richiesto al nostro pensiero e alla nostra umanità. Non è iniziato tutto il 7 ottobre, visto che l’anno precedente era già stato l’anno con il maggior numero di morti di civili palestinesi in Cisgiordania. La violenza politica e militare non si era però limitata ai territori occupati: occupati illegalmente, come statuisce la sentenza della ICJ del luglio scorso, che ingiunge a Israele di liberarli, smantellando tutti gli insediamenti coloniali e pagando risarcimenti, entro settembre 2025.

Una violenza politica di altra natura ma non meno feroce era stata perpetrata nel 2018 con la legge fondamentale “Israele, Stato-nazione del popolo ebraico“, che sancisce il fatto che Israele è lo Stato della sola Nazione ebraica, e che quindi solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione, e non gli “arabi israeliani”, abbassati per legge al rango di cittadini di seconda classe. E dal 2018 (anno anche della marcia del ritorno a Gaza, in cui dal 30 marzo al 22 maggio i cecchini israeliani hanno ucciso almeno 195 palestinesi, tra cui 41 minori, e ferendone 28.939) vale la pena fare un salto indietro di 101 anni, giacché quello che la legge del 2018 statuisce è precisamente il contenuto della “Dichiarazione” del 1917, rivolta da Lord Balfour a Lord Rothschild perché la facesse pervenire alla “federazione sionista”: «Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una sede nazionale (national home) per il popolo ebraico e farà tutto il possibile per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, fermo restando che non verrà intrapresa alcuna azione che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, né i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei in qualsiasi altro paese». In questa dichiarazione tutto è detto: autodeterminazione per gli ebrei e (eventuale e formale) salvaguardia di diritti civili, senza autodeterminazione, per gli “altri”. E soprattutto è tracciato il solco che la spada difenderà attraverso varie tappe e varie vicissitudini, ma senza che venga mai meno il trattamento preferenziale a quella che fin dall’inizio si affaccia nelle terre di Palestina come una minoranza espansionista dotata di forti appoggi presso le potenze coloniali occidentali.

Vale la pena ricordare che le “comunità non ebraiche” a cui fa riferimento Balfour assommano nel 1917 al 94% della popolazione della Palestina storica: la terra che, dopo la caduta dell’impero ottomano, verrà ahinoi affidata alla Gran Bretagna con un mandato della Società delle Nazioni. Un mandato che con l’ambiguità e l’arroganza di una potenza coloniale (quindi innanzitutto badando ai propri interessi) non verrà mai meno al trattamento preferenziale deciso con la dichiarazione del 1917. Una situazione di cui il nuovo Yishuv (l’insediamento degli ebrei europei nella Palestina storica a partire dalla prima Aliyah del 1882) non mancherà di approfittare fin dall’inizio, replicando l’atteggiamento coloniale europeo, e riversando nei confronti dei palestinesi lo stesso disprezzo che l’Europa aveva riservato per secoli agli ebrei. Lo ricorda un ex sionista, Hans Kohn, divenuto poi uno dei maggiori studiosi del pernicioso fenomeno del nazionalismo. Nel 1929, dopo quello che è noto come il massacro di Hebron, dove 67 ebrei vennero uccisi da rivoltosi palestinesi (ma più di 450 vennero salvati da famiglie palestinesi, stando alla ricostruzione di Lorenzo Kamel), Kohn scrive quanto segue: «Sento che non posso più rimanere un funzionario di spicco all’interno dell’Organizzazione Sionista... Fingiamo di essere vittime innocenti. Certo, gli arabi ci hanno attaccato in agosto. Non avendo un esercito, non potevano rispettare le regole della guerra. Hanno perpetrato tutti gli atti barbarici tipici di una rivolta coloniale. Ma noi abbiamo il dovere di indagare sulle cause profonde di questa rivolta. Siamo in Palestina da 12 anni [dall’inizio dell’occupazione britannica] senza aver mai fatto un serio tentativo di cercare, attraverso i negoziati, il consenso della popolazione indigena. Abbiamo fatto affidamento esclusivamente sulla potenza militare della Gran Bretagna. Ci siamo prefissati obiettivi che, per loro stessa natura, dovevano portare al conflitto con gli arabi... per 12 anni abbiamo finto che gli arabi non esistessero e siamo stati contenti quando non ci è stata ricordata la loro esistenza». Quanto scritto da Kohn nel 1929 si attaglia purtroppo perfettamente al 2023, con un semplice aggiornamento, in peggio, della cronologia delle complicità, concrete e ideologiche. Davvero no, non inizia tutto il 7 ottobre. Continuiamo dunque con il nostro viaggio a ritroso.

Se la legge del 2018 può essere interpretata come la sanzione costituzionale finale da parte di Israele della dichiarazione Balfour, può essere anche interpretata come il suggello di una politica di discriminazione iniziata già nel 1948 e continuata con ancora maggior vigore dopo il 1967. Le due date sono note ai più, ormai: la prima data segna la nascita dello Stato di Israele, la seconda marca l’inizio dell’occupazione dei territori palestinesi, che dura fino a oggi, fino ai “carri di Gedeone” e ai crimini dei coloni a Masafer Yatta. Partiamo dal 1967. In seguito a una guerra preventiva (fondata sull’ipotesi, non verificata e probabilmente non vera, di un imminente attacco delle forze arabe su Israele), Israele occupa quello che resta dei territori potenzialmente affidati ai palestinesi dal piano di partizione del novembre 1947 (e già ampiamente ridotti con le annessioni effettuate nel 1948), e in quel momento sotto amministrazione giordana ed egiziana: Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Se l’occupazione militare di territori non propri è consentita a uno Stato durante le operazioni militari, essa non solo non può continuare indefinitamente, ma soprattutto ingenera obbligazioni dello Stato occupante verso la popolazione occupata. Questi due elementi sono stati presi in carico dal parere vincolante della ICJ del luglio 2024. Non solo l’occupazione è illegale e deve cessare, ma il modo in cui è stata condotta ha generato illeciti e crimini nei confronti della popolazione occupata e sottoposta a un regime di confisca e di apartheid, e dunque generano un diritto al risarcimento.

Ma qui veniamo a un punto cruciale per la comprensione non solo del presente di Masafer Yatta, ma anche del suo lungo passato, sperando che il futuro non riservi solo il prolungamento di questa orrenda storia. La ICJ chiede di smantellare le colonie, ma vale la pena spendere qualche parola su come si sono formate. È fin dall’indomani dell’occupazione militare che quelle terre sono state pensate in Israele da un’opinione ebraica sempre più diffusa come “terre liberate”. Lo racconta bene un documentario israeliano del 2016, The Settlers di Shimon Dotan: se è vero che il fanatismo di movimenti come Gush Emunim (il “blocco dei credenti”) non è sempre stato maggioritario, è altrettanto vero che non c’è stato un solo governo che dal 1967 abbia opposto un no convinto e secco all’occupazione illecita e strisciante. Le uniche differenze sono state nel ritmo delle concessioni. Ma, vale la pena ricordarlo, il primo ad autorizzare questo grave illecito fu il laburista Shimon Peres. Del resto, anche durante il processo di Oslo gli insediamenti non hanno mai smesso di crescere. Se c’è da trovare un obiettivo razionale a questo crimine collettivo e reiterato, l’unica spiegazione è che in tal modo la stessa possibilità di uno stato palestinese viene erosa alla radice: fra insediamenti civili e militari, il territorio che dovrebbe, e potrebbe, costituire un possibile stato palestinese non ha più il requisito minimo per essere considerato tale, ossia la continuità. La nera caparbietà con cui si è proceduto in questa direzione testimonia di una volontà pianificata e condivisa.

Che ci fa fare un passo ulteriore, verso il 1948. «Noi non vogliamo schiavi, vogliamo la terra» disse un giovane ufficiale della Haganah ai palestinesi che stava sfollando da un villaggio che abitavano da secoli e che non avrebbero mai più rivisto. Quasi 500 furono gli insediamenti palestinesi sfollati e distrutti, proprio per impedire il ritorno. Il prequel di Gaza. E in effetti di pulizia etnica nel 1948 non ha avuto esitazione a parlare Ilan Pappé in un suo libro del 2006: come minimo 750 mila ma forse addirittura 900 mila palestinesi furono espulsi con la violenza per non tornare mai più, mentre i restanti palestinesi furono sottoposti alla legge marziale fino al 1966, per poi essere trattati come cittadini di serie B dal 1967, con la definitiva sanzione della loro minorità nel 2018. I fatti del 1948 non sono disputabili, sono le interpretazioni che divergono: se Benny Morris vede nelle espulsioni pianificate e sistematiche il male necessario per la costruzione di uno stato ebraico (la “guerra di indipendenza”), Pappé vi vede, appunto, una pulizia etnica, per i palestinesi al-Nakba, voluta dai dirigenti sionisti con una determinazione degna di miglior causa. Queste però non sono solo diatribe fra storici. Giacché qui siamo, noi tutti. Di fronte all’orrore di questi mesi dobbiamo chiederci una volta per tutte se ciò che vediamo sia il compimento di un progetto o la sua perversione. E vale la pena dirlo: più la ricerca storica procede, meno la seconda ipotesi sta in piedi. Non rimane altro allora che prendere atto della lunga deriva che porta a Gaza e a Masafer Yatta, passando per il genocidio a Gaza. E trarne le conseguenze, politiche morali e umane, che è imperativo trarne.
I film
No Other Land
Documentario - Territori Palestinesi Occupati 2024 - durata 96’
Titolo originale: No Other Land
Regia: Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor
Al cinema: Uscita in Italia il 16/01/2025
in streaming: su MUBI MUBI Amazon Channel
Upshot
Drammatico - Palestina, Italia, Francia 2024 - durata 34’
Titolo originale: Upshot
Regia: Maha Haj
Con Mohammad Bakri, Areen Omari, Amer Hlehel
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