“Meriteresti di meglio...”, dopo avergli mormorato una manciata di parole, John Dutton (Kevin Costner) abbatte un cavallo ferito in un incidente stradale. Lo fa con la morte nel cuore e più compassione negli occhi di quella rivolta a un autista che giace morto pochi metri più avanti. Del resto, come impariamo presto, il protagonista non prova a suscitare empatia e conosce un solo mezzo di comunicare: il conflitto.

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Yellowstone

Il conflitto aperto coi vicini indiani, col progresso (l’elicottero è l’unica concessione alla modernità), con la sua famiglia, affondata nel dolore dei non detti. Perché nell’autentico Far West, o in quello che ne rimane coi suoi ranch, i suoi bisonti, le tribù indigene, la musica country e le risse da bar servite al banco con le birre, non si parla, si picchia, duro. Che si agisca col porto d’armi, per legittima difesa o in nome di una legge facile da aggirare, il mondo di Yellowstone chiama in permanenza la violenza e la questione della sua legittimità.

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Benvenuti nel Montana e nel teatro fumante di uno scontro tra un cavallo e una catenaria scavatrice, che anticipa una guerra tra promotori immobiliari e cowboy, latifondisti e indiani, corsa al progresso e resistenza elegiaca. Una guerra nascosta dietro le scrivanie di avvocati e di politici più spesso corrotti. Requisitorie e difese hanno scalzato i duelli al sole ma nessuno si senta al riparo, qua e là un proiettile vagante uccide vite e illusioni. In quell’ostinato carnage, John Dutton è la grande attrazione, l’obiettivo da abbattere. Le sue terre, al centro di un dilemma storico ed economico, attirano il desiderio di risarcimento della comunità nativa e gli appetiti di urbanizzazione del big business.

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Nei panni di un patriarca monolitico, che marchia uomini e bestie, l’attore rimette lo Stetson, rivisita i suoi ruoli chiave e ritorna nei luoghi sondati ai tempi del suo splendore, come se non potesse incarnare altro che una forma di nostalgia in azione. Nel debutto folgorante di Yellowstone, la serie Paramount che interroga la crisi identitaria dell’America con una proposizione più federatrice di quanto sembri, Taylor Sheridan sa filmarlo come i cavalli e le praterie. Sfidando all’O.K. Corral Lawrence Kasdan, che di Costner aveva svelato soltanto i polsi tagliati e la fronte (Il grande freddo), lo (det)taglia retoricamente e lo introduce con un ‘colpo di mano’, una mano cauta che entra in campo dopo un cielo azzurro, avvicina un cavallo, lo accarezza e lo rassicura prima di piantargli una pallottola in testa.

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Segue la vestizione del cowboy che fu, l’attore raccoglie il cappello dalla strada, rinfodera la pistola, ricompone la figura e raccoglie indizi per lo spettatore: una scavatrice Vermeer per la posa del mondo a venire, una bolla intestata alla “Paradise Valley”, la società di sviluppo fondiario che mira ad acquistare le sue terre, un ‘bestiario’ al pascolo, che racconta da solo una storia di origini, le prime ore del capitalismo e della formazione implacabile di una società e del suo apparato economico.

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In un minuto e venticinque secondi i fondamentali di Yellowstone sono annunciati, piantati come le recinzioni, onnipresenti, che ossessionano John Dutton e anticipano la chiave del racconto: la proprietà privata. E lì risiede tutta la tragedia di una serie western situata cronologicamente all’altro capo del racconto fondativo. Yellowstone guarda cosa resta oggi della costruzione fangosa del Paese. Il richiamo dell’altrove, così fondamentale nel genere, è naufragato in una terrificante stagnazione. Non c’è più niente da conquistare e non resta che lottare per il proprio pezzo di terra e l’identità che le è associata. Il ranch Dutton, governato dal suo patriarca con pugno di ferro e una buona dose di mostruosità trattenuta, è allora un’immensa prigione, il disegno di un’ideale oscurato dalle sue stesse contraddizioni.

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Saldo nei suoi stivali e nell’alba della serie, Kevin Costner è un’evidenza limpida. È sufficiente guardarlo appeso a una staccionata o al suo cinturone, per comprendere che è il solo attore americano che possa indossare jeans e Lucchese boots senza sembrare mascherato. Non si inventa quella credibilità ma si costruisce battendo i sentieri di western onesti, che mostrano con inedita acutezza la violenza fisica e morale con cui si diventa cowboy. Ecco perché è così bello guardare Kevin Costner, guardarlo cavalcare dentro paesaggi prodigiosi e in un’atemporalità propriamente americana. Nel suo sguardo competono un residuo di fede e il ritegno malinconico di chi sa di aver perso per sempre la battaglia culturale. Ma quello che trova nella perdita, il cavallo è solo il preludio di un declino, è un’umiltà così seducente da marchiare a fuoco il cuore.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

La serie tv

locandina Yellowstone

Yellowstone

Western - USA 2018 - durata 45’

Titolo originale: Yellowstone (2018)

Creato da: John Linson, Taylor Sheridan

Con Hugh Dillon, Taylor Sheridan, Mike Faiola, Kevin Costner, Kelly Rohrbach, Jen Landon

in streaming: su Now TV