Sei amici x 236 episodi e un numero incalcolabile di risate. Sei profili iper-stereotipati per una vita senza problemi, tutta amicizia e appuntamenti rimandati col destino. Sei personaggi cult accomodati su ‘il divano’ di Central Perk tra il profumo di caffè e una corrente d’aria fresca quando la porta si apre e Friends debutta.

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Friends

Sono già tutti là (o quasi), al principio del pilota con una grande tazza in mano. Ross, (David Schwimmer), Joey (Matt LeBlanc), Phoebe (Lisa Kudrow), Rachel (Jennifer Aniston), Monica (Courteney Cox) e Chandler (Matthew Perry) provano a diventare paleontologo, attore, massaggiatrice, fashionista, cuoca, “transponster”... Ma quello che lancerà il lungo sodalizio di approdi è un doppio turbamento nel desiderio femminile.

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Da una parte, quella del divano, Ross confessa che sua moglie è lesbica, dall’altra, quella dell’ingresso, Rachel in abito da sposa fugge da un matrimonio da sogno con un ricco ortodontista.

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Questa doppia rottura del contratto eterosessuale apre il vero cerchio amicale. Inutile dire che la serie impiegherà dieci stagioni per ‘ripararlo’ nella maniera più classica: innamorando Ross e Rachel e riconciliandoli per sempre. Perché intorno a quel divano, dove Joey conta una nuova conquista, Phoebe monda l’aura di Ross e Monica e Chandler ignorano il loro futuro, Rachel e Ross si cercheranno mille volte per ritrovarsi altrettante.

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Nei primi minuti della sitcom ci sono già i ‘caratteri’ dei friends e il deragliamento, costante del programma. Ma attenzione, i nostri deviano dal piano previsto, solo per tornarci meglio. Nel mentre, ovviamente, ciascuno vivrà la sua dose di avventure, professionali o sentimentali. Ogni sorta di ‘frontiera’ sarà superata: Ross uscirà con un’inglese, Rachel avrà una storia con un tipo più giovane di lei, Monica con un uomo molto più vecchio di lei, ma nessuno di loro reggerà a lungo alla pressione del gruppo. Perché quella allegra brigata amicale, così apparentemente aperta, non esce dal cerchio magico e si conforma alla generazione che dovrebbe rimpiazzare: padri e madri dentro soggiorni che assomigliano a un campo di rovine, a un sistema imploso di cui non riusciranno a liberarsi e che conserva ancora la sua sacralità.

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Monica e Ross, fratello e sorella, devono fare i conti con le nevrosi dei loro genitori, caricature di un falso successo sociale, la madre nutre un’ammirazione ostinata per il figlio e un disagio permanente per la figlia. Phoebe ha una sorella gemella che odia, un fratello che non sapeva di avere, una madre adottiva che si è suicidata e un padre biologico che l’ha dimenticata, Chandler vive nel terrore che la madre ninfomane e il padre travestito si facciano vivi alla prima occasione, Joey è il cucciolo di una grande famiglia italiana (sette sorelle), tanto ingombrante nella sua vita quanto assente sullo schermo. Quanto a Rachel, principessa ebrea per antonomasia (e per Marta Kauffman), deve emanciparci dall’affetto e dal portafoglio di papà, per diventare adulta e ‘guadagnarsi’ finalmente la sua vita.

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Nel pilota, Rachel ha appena dribblato il destino triste che la sua educazione e il suo ambiente le avevano apparecchiato. Tuttavia, come per gli altri, la famiglia resta il solo e unico orizzonte. Se non si può vivere senza, tanto vale scegliersela. Così a metà della serie Monica sposa Chandler e sul “the end” Rachel convola con Ross. Friends si ferma al diciottesimo episodio della decima stagione, un attimo prima di diventare una sitcom familiare degli anni Ottanta.

I buffi amici si riconvertono allora in tenera famiglia, influenzandosi mutualmente e rifocalizzandosi verso l’obiettivo comune. Ma questa calibratura delicata riguarda soprattutto le personalità più eccentriche del gruppo che progressivamente, come per magia, si rimettono alla regola collettiva. Normalizzato il sarcasmo originario di Chandler a colpi di sentimentalismo, è soprattutto Phoebe, arrivata direttamente dalla rivoluzione culturale e dalla contestazione degli anni Settanta, a rientrare nella norma. A forza di consigli questo totem hippie comincerà ad apprezzare le convenzioni borghesi e farà, nel senso più tradizionale del termine, un ‘bel matrimonio’.
Nondimeno questa creatura magnificamente stravagante e vegetariana sarebbe risultata più di vent’anni dopo l’unico personaggio veramente contemporaneo, la coscienza woke della serie che, in un ideale reboot, rieducherebbe i compari secondo i suoi dettami.

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Dall’invenzione del genere, tutte le grandi sitcom si fondano su una realtà domestica che illustrano e interrogano insieme. I Love Lucy rendeva conto della coniugalità nella società patriarcale, Seinfeld del trionfo del celibato nella New York dei comedy club. Da par suo, Friends lavora sull’intersezione di due dati sociologici. Gli eroi sono anzitutto adolescenti, dei giovani adulti che rifiutano di crescere troppo in fretta, prolungando il loro stile di vita adolescenziale. Ma sono pure coinquilini che condividono lo stesso spazio vitale. I friends non smettono di scambiarsi (e di giocarsi) camere e appartamenti, del resto ‘tempo transitorio/luogo interscambiabile’ è il format della serie. Nel contesto americano, si tratta della generazione successiva ai “baby boomers”, nata tra il 1964 e il 1980. Una generazione che aveva la reputazione di essere svogliata, apolitica e di abbracciare pienamente la società dei consumi. La chiamavano la “generazione MTV”, (dis)credito derivato direttamente da un romanzo di Douglas Coupland (Generazione X) e da un film di Richard Linklater (Slacker). I media hanno fatto il resto, appropriandosi di questa immagine di giovinezza indolente e in rottura coi valori tradizionali americani. Non si può ovviamente generalizzare, le “caratteristiche” accennate sono una fabbricazione mediatica, veicolata e cavalcata dalla stampa negli anni Novanta. Friends è forse la prima serie a mettere in scena quella generazione, di cui non è evidentemente un riflesso fedele. David Crane e Marta Kauffman ne fanno una parodia assumendo quella rappresentazione come risorsa comica.

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I friends abitano prima della rivoluzione digitale, dentro un mondo di poster stampati e di gruppi esclusivi. Per le nuove generazioni equivale ai tempi di Gutenberg. I nostri potrebbero circolare a Manhattan in carrozza o indossare corsetti, che lo scarto non sarebbe meno grande per chi oggi rimprovera a Friends la sua omofobia, il suo disimpegno, la mancanza di diversità etnica, il body shaming e ancora. Senza entrare nel cuore della polemica, ognuno ha diritto alla propria opinione e nessuno vuole biasimare le ragioni dei millennials o offrire l’immunità alla serie cult degli anni Novanta, ammettiamolo pure, non avremmo mai pensato un giorno di dovere difendere Friends. E che fatica difendere un innocente. Ad ogni modo, se siete la madre (surrogata) dei gemelli di vostro fratello, se vostra moglie vi ha lasciato per un’altra donna, se vostro padre è una showgirl di Las Vegas, se il vostro fidanzato ha vent’anni più di voi, se avete un bambino senza essere sposati, se avete lasciato tutto per seguire i vostri sogni, se avete detto “sì” a un matrimonio bianco per aiutare uno ‘straniero’ a restare sul suolo americano o se avete accettato la sterilità e adottato senza drammi... I’ll be there for you.

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Biasimiamo pure Ross, Monica, Chandler, Joye, Rachel e Phoebe per la loro incredibile cialtroneria, per la loro inerzia, la reciproca dipendenza emotiva ma non giudichiamoli per la mancanza di apertura mentale. La risata non è nemica del pensiero progressista.
Friends non sarà una grande storia di tolleranza per i paradigmi attuali ma resterà per sempre una piccola (ed esilarante) avventura sull’accettazione di sé e degli altri. Una serie per ridere di tutto, soprattutto di se stessi. È dei protagonisti e delle loro manie che ridiamo, le repliche misogine di Joey non hanno lo scopo di schernire le donne ma il sessismo esasperato e ridicolo del personaggio. Affermare che Chandler è omofobo, poi, è altrettanto azzardato, le gag sulla sua omosessualità presunta sono un motore narrativo (e comico), non c’è alcun giudizio di valore e a essere in discussione è soltanto la sua immaturità emotiva. Attraverso di lui, il cui secondo nome è Muriel, viene evocata un’altra nota dell’orientamento sessuale. Il padre del personaggio, Charles “Helena” Bing, è trans (non è chiaro se sia transessuale, transgender o semplicemente travestito) ed è incarnato/a da Kathleen Turner. Il personaggio è in armonia perfetta coi caratteri della serie, a dimostrazione che è possibile trattare il crossdressing (o il transgenderismo) senza cadere nella caricatura del malessere e dell’esclusione.

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Stesso trattamento per la relazione tra Susan e Carol, gli autori non ne hanno tirato una lezione morale sulla normalità o sulla marginalità. Questa mancanza di “messaggio” moraleggiante è uno dei tratti distintivi di Friends, che sfida costantemente la nozione di ‘genere’. La serie gioca con la consueta distinzione ragazzo-ragazza, mostrando il côté femminile dei fanciulli e quello maschile delle fanciulle, confondendo i confini dei comportamenti considerati “normali”, e allora un uomo fa la tata, Monica e Phoebe chiedono la mano dei rispettivi fidanzati, Ross recupera con tenacia la sua adorata camicia rosa, Joye è orgoglioso della sua borsa a tracolla e delle sue culotte velate, Chandler è campione indiscusso della pinzetta per sopracciglia perfette. E potremmo andare avanti all’infinito, tra schemi familiari affatto tradizionali e ripudio di valori idioti trasmessi dai padri (verificate personalmente, stagione 9, episodio 12), tra rappresentazioni di coppie moderne, Chandler tenta un cambiamento di carriera e Monica provvede a mantenere entrambi (sempre stagione 9), e matrimoni gay, quello celebrato tra Susan e Carol nella seconda stagione, un atto rivoluzionario nel 1995 a cui NBC partecipa con orgoglio. Nel corso della puntata Phoebe è addirittura posseduta da un’anziana signora che ridicolizza le idee conservatrici del passato. Tutte idee perfettamente assunte dalla serie che non questiona mai ma espone con franchezza e senza (pre)giudizio.

Forse non è tutto divertente, forse non ridete di tutto ma Friends resta una serie riconfortante ancorata a un’epoca che non è mai esistita, avulsa da qualsivoglia realtà politica o sociale. Niente è mai troppo gravoso per questi amici che si incontrano al bar per parlare tra loro e leggere riviste, che hanno poster di film alle pareti e la televisione al centro della sala, che prendono appuntamenti che non possono disdire, perché i cellulari arriveranno soltanto nelle ultime stagioni (anni 2002-2004) e avranno un ruolo ingrato: spaccare il gruppo. In una scena a doppio senso e double mobile, Chandler fa credere a Rachel e Phoebe, che lo spiano dal café, di essere ancora in ufficio mentre sta andando a vedere il suo futuro appartamento in un sobborgo di New York.

Prima, nel loro mondo preistorico, la loro vita brillava alla luce di oggetti obsoleti, la segreteria telefonica su tutti. Installata in un angolo neutro dei loro appartamenti, svolgeva il ruolo costante di intermediario e di cuscinetto tra i personaggi. Interveniva sovente a perturbare la relazione tra Monica e Richard, tra Ross ed Emily, tra Joey e il mondo del lavoro. In particolare, ha giocato un ruolo cruciale nell’amore rimandato tra Ross e Rachel. Non è stato soltanto il luogo della prima dichiarazione, ma anche quello dell’ultima, quando Rachel confesserà il suo amore da un aereo in partenza per Parigi.

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La scena tanto attesa del ricongiungimento è interamente costruita sulla contrapposizione di tecniche vecchie e nuove: una battaglia tra la fissità (coniugale) della segreteria telefonica e la mobilità (fluida) del cellulare. Scatola nella scatola, è il cuore sonoro del focolare domestico. Una stranezza tecnica che aggiunge alla sitcom un elemento decisivo di discontinuità temporale. Impedisce che le cose coincidano troppo in fretta, desincronizzando sottilmente i sentimenti. Del resto l’arte della serie è rimandare le scadenza, separare, soprattutto, le promesse d’amore dal loro compimento. Questa operazione di temporizzazione sostiene tutta l’architettura narrativa delle dieci stagioni, si innesca con l’ingresso di Rachel al Central Perk e scivola come un genio della lampada sul fondo di una box telefonica. 236 puntate dopo il messaggio è ricevuto.



Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.