A volte semplicemente un titolo, a volte un elenco di nomi, gli opening credits si riducono sovente a una sequenza aneddotica, una sorta di passaggio obbligato che interessa poco o affatto i registi. Se molti pagano pegno e passano oltre, per altri i titoli di testa sono cosa seria, un film prima del film che deve attirare lo spettatore e immergerlo in una storia ancora tutta da raccontare. Formalista di genio, David Fincher appartiene alla seconda categoria, uno di quegli autori per cui i titoli si fanno nota di intenti, un manifesto cinegenico.

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Fight Club

L’autore americano si applica con passione all’arte dell’incipit a partire da Seven, il ‘primo’ film autenticamente fincheriano, che contiene da solo tutto quello che sarebbe diventato il lavoro del regista. E i titoli di Seven sono quasi più cult del film. Su un remix sperimentale della canzone Closer dei Nine Inch Nails, il debutto di Seven ci immergeva direttamente nella mente perturbata del cattivo della storia, John Doe. Titolo dopo titolo, scoprivamo il feticismo meticoloso, diabolico e perverso del serial killer. Collage, fotomontaggi e linee di scrittura in miniatura, tutti punti di accesso alla mente dell’assassino, tutte tracce che annunciavano gli orrori a venire. Concepito con uno stile volontariamente artigianale e graffiato, grazie all’effetto della pellicola Kodalith, quest’ouverture si distingue da quelle che sono le (pigre) abitudini in materia.

Tra SevenPanic Room e Millennium. Uomini che odiano le donne, è chiaro che Fincher utilizzi questo passaggio essenziale come strumento di narrazione. Fight Club non fa eccezione ed è forse il più riuscito di tutti, fosse solo per quella maniera così coerente di integrarsi alla storia e donare immediatamente allo spettatore tutte le chiavi.

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Fight Club

Mai alba fu più spoiler. Custodito nelle profondità del cervello del Narratore, il racconto comincia (da) lì e avanza, spinto dalla forza centrifuga e dalla colonna sonora techno, sparata a tutto volume dai Dust Brothers, fino a farsi rigettare dal corpo in fondo a un piano sequenza vertiginoso. Cronaca di una schizofrenia dalle devastanti conseguenze sociali e intime, l’adattamento fincheriano del romanzo omonimo di Chuck Palahniuk si apre su titoli rapidissimi che tuffano lo spettatore direttamente nella testa del protagonista. Una lunga carrellata indietro che parte dai dendriti - una giungla di fibre che si ramifica a partire dal neurone ricevendo e traducendo l’impulso nervoso -, risale fino ai lobi frontali, attraversa il cranio ed esce da un poro della pelle e poi scala la canna di una pistola che scopriamo infilata nella bocca del protagonista.

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Fight Club

La sequenza, prima di essere realizzata e per essere biologicamente realistica, è stata interamente disegnata. Senza fronzoli, i titoli scandiscono il ritmo elettrico del film, dando allo spettatore l’impressione di trovarsi in un parco di attrazioni. Tanto semplice quanto efficace.

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Fight Club

Fight Club, uscito nel 1999 e alla vigilia del nuovo secolo, comincia con un suono: una puntina gratta un vinile e apre le danze di un film conosciuto per la sua critica acerba alla società dei consumi. Riconosciuto, soprattutto, come importante precursore di effetti speciali innovativi e al servizio di una più ampia riflessione intra ed extra-diegetica. Nei film di Fincher la questione degli effetti speciali dimora centrale, sono il riflesso della sua visione del cinema. La sua carriera, d’altronde, debutta alla Lucasfilm e alla Industrial Light & Magic. Fight Club ha per protagonista il Narratore (Edward Norton), l’uomo disilluso di un secolo morente, un middle manager single e annoiato, un personaggio houellebecquiano, versione Usa, che sembra uscito direttamente dalle pagine di Estensione del dominio della lotta.

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Fight Club

Soggetto a insonnia, relativizza la sua esistenza frequentando gruppi terapeutici e crea il suo doppio, Tyler Durden (Brad Pitt), anarchico e seducente venditore di saponi che lo condurrà in una spirale di violenza estrema e irreversibile. Lo inizierà soprattutto alle regole del Fight Club, un ring dove sfogare il proprio malessere ed esprimere a suon di pugni il proprio bisogno di azione. Ma non si accontenta di questo il film, che racconta la sua storia attraverso la totale egemonia del suo Narratore. Onnipresente può, proprio come uno scrittore che cancella le frasi, riavvolgere il film o raccontare un dettaglio che aveva omesso qualche scena prima. Lo dichiara fin dall’inizio Fincher, Fight Club è un’opera costruita interamente sulla soggettività del suo Narratore. Ed è grazie a questo punto di vista unico che il film mette a segno uno dei più celebri colpi di scena della storia del cinema. Perché lo spettatore scopre nell’ultimo quarto del film che il Narratore e Tyler Durden sono in realtà la stessa persona. Tyler è una proiezione, un doppio fantastico, la rivelazione che sconvolge la comprensione della storia e conferma la sensibilità dell’autore per la svolta improvvisa e per l’illusione appesa al ‘corpo cellulare’ del suo eroe.

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Fight Club

I titoli di testa sono creati con effetti speciali ‘illusori’ e immersivi, generati in 3D. La mdp segue in modo fluido il tragitto della paura nel cervello del personaggio. E il motivo della sua paura è spiegato in fondo ai titoli: il Narratore è minacciato da una pistola. Da quel momento in poi, attraverso la voce over, il protagonista conduce lo spettatore nel suo passato e nella sua esistenza consumata e consumistica, monotona e insignificante. Fin dal principio, è spettatore della sua vita, sulla quale non ha evidentemente alcun controllo. La transizione tra gli effetti speciali 3D dei titoli di testa (e nella testa) e l’inquadratura dal vivo, si produce sull’estensione dell’impugnatura della pistola, come se i primi contaminassero l’immagine reale e il narratore stesso, costantemente schiavo di un’illusione e degli effetti che la producono per tutta la durata del film.

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Fight Club

I titoli scalano la canna della pistola ed esplodono sulla faccia del Narratore, dentro un primo piano che rivela i suoi occhi spalancati e spaventati mentre gocce di sudore gli imperlano la fronte. È legato e minacciato da una pistola ficcata in bocca, non può parlare, mugugna vocali dentro i pantaloni del pigiama e in una posizione di subalternità. Fin dal principio si tratta di farne un uomo passivo, statico e deriso. Questa dominazione spaziale e fisica è ugualmente visibile nelle sequenze successive, nella relazione che il protagonista intrattiene col suo capo, che gli ordina cosa fare, nella ‘convivenza’ con l’insonnia, a cui è sottomesso perché non può gestirla. I titoli anticipano la sua costante passività, il suo essere costantemente soggetto a un’illusione, quella della propria identità, che sarà il punto centrale del film. Potremmo aggiungere che è la stessa illusione e la stessa passività a cui è sottoposto lo spettatore, proiettato contro la sua volontà nel passato del Narratore, vittima dell’inganno stesso del cinema e dell’ambiguità degli effetti speciali che alterano la visione reale fingendo di fondersi con essa, di sposare la realtà.

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Fight Club

Se è vero che il Narratore è passivo, possiamo affermare che è anche paradossalmente attivo, un maestro dell’illusione. È un prestigiatore che gioca con lo spettatore, è il motore dell’azione e della narrazione, ci manipola come manipola la sua storia. È lui la fonte dell’allucinazione che attraversa il film, lui che ci fa credere che Tyler sia un personaggio separato da sé. La sua testa è un artificio, lo anticipano i titoli, ed è rappresentata con gli effetti speciali. La sua voce guida e controlla l’immagine, conducendo lo spettatore dove vuole. Gli effetti speciali e l’illusione che creano non sono attrazioni per impressionare lo spettatore, sono al servizio della narrazione, servono una logica anti-sensazionalista e anti-spettacolare. Tutto quello che in quei primi minuti può sembrare eccitante (“tra due minuti le cariche esploderanno”), viene immediatamente messo da parte dal Narratore, che decide di immergerci in un passato tutt’altro che effettistico.

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Fight Club

Inoltre, dichiarando già la fine (Il Progetto Mayhem), viene anche cancellato qualsiasi elemento di sorpresa e di suspense. L’azione non decolla davvero e quella successiva - Meat Loaf ‘ingrassato’ che piange a dirotto allacciato a Edward Norton - non è certo la scena che gli spettatori si aspetterebbero di vedere dopo una simile apertura. Tutti piangono raccolti in un “gruppo di sostegno per pazienti affetti da carcinoma testicolare” e i commenti del narratore mirano a decostruire tutto quello che è spettacolare, soffocato com’è “tra quelle tette grandi e sudate, che pendevano enormi, come immaginiamo quelle di Dio...”. L’immagine stessa di Dio, essere di potenza, viene abbassata.

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Fight Club

Per Fincher gli effetti speciali non spezzano la narrazione ma la servono e servono l’efficacia stessa della storia. Sono pienamente integrati nel racconto, non si mostra il loro effetto, non sono mai attrazione e sono sempre in linea con la dinamica del racconto, col suo ritmo sostenuto, al passo col ragionamento veloce e confuso del Narratore. Fight Club comincia come un racconto in prima persona e termina dipingendo un mondo distorto dalle rappresentazioni mentali del Narratore. Una trasformazione che avviene col twist finale (Tyler Durden non esiste) ma che Fincher ha evidentemente preparato in anticipo. Dai titoli di testa, che animano il movimento delle sinapsi del personaggio, alle sottigliezze più discusse del film (l’inserimento di immagini subliminali), Fight Club suggerisce fortemente che quello che stiamo guardando è generato in tempo reale dal protagonista. È questo il senso del dispositivo fincheriano, ricondurci al punto di vista di un personaggio che evolve in una realtà che ha inventato.

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Fight Club

È un po’ come se Martin Scorsese avesse realizzato Shutter Island utilizzando lo stesso processo narrativo di Quei bravi ragazzi. Ma è soprattutto a Taxi Driver che il film di David Fincher rimanda, col suo eroe antisociale e incapace di essere all’altezza delle sue rappresentazioni. Come Travis Bickle (Robert De Niro), il Narratore parte dalla sua alienazione per inventare una finzione in cui il suo alter ego soddisfa il suo bisogno di confronto. Entrambi finiranno con una pistola in bocca: metaforica da Scorsese, letterale da Fincher. Rafforzando fin dall’incipit la nostra relazione col personaggio, l’autore abolisce praticamente la distanza di sicurezza tra lui e noi e punta sul massimo realismo attraverso la massima artificialità, provocando e sostenendo la sua riflessione, permettendo soprattutto alla sua macchina da presa di liberarsi dalle regole della fisica e di muoversi fluidamente attraverso i muri e i corpi. Oggi come allora, la filosofia anticapitalista e nichilista di Fight Club continua a dividere, ma un film che si conclude con “Where is my mind?” dei Pixies non può essere così male. E poi non dimenticatevi che la prima regola del Fight Club è che “non si parla (male) del Fight Club”.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

Il film

locandina Fight Club

Fight Club

Drammatico - USA 1999 - durata 135’

Titolo originale: Fight Club

Regia: David Fincher

Con Brad Pitt, Edward Norton, Helena Bonham Carter, Jared Leto, Meat Loaf, Zach Grenier

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