Un taxi avanza sulla Fifth Avenue e dentro un’alba luminosa. L’aurora più amata della storia del cinema. Sulle note nostalgiche di Henry Mancini, una cover girl scende dalla vettura gialla. Gli occhiali da sole oversize nascondono le tracce di un’altra festa, una festa di troppo. In una mano un caffè, nell’altra un croissant.

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Colazione da Tiffany

Scolpita dalla semplicità di un tubino nero Givenchy contempla per qualche istante le vetrine di Tiffany, la grande gioielleria di Manhattan. Lo charme opera all’istante.

Si chiama Holly Golightly, starlette in attesa di un ruolo che esce di notte e dorme di giorno. Tiffany, lo apprenderemo dopo, è il solo rimedio alla sua depressione, il solo luogo che, per l’ordine e la sicurezza che riflette, riesce a calmare il suo disordine interiore. È un simbolo, un assoluto, un rifugio ideale e meraviglioso per dimenticare un’infanzia miserabile in Texas. Effimero e quieto, il debutto dona il senso al titolo e insinua il ‘blue’. Moon River dilaga e il tono è dato.

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Colazione da Tiffany

Siamo davanti a una commedia sofisticata che non (si) nega nessuna tristezza. Rideremo molto per i grattacapi messi in scena da Blake Edwards e asciugheremo qualche lacrima per il bacio finale sotto una pioggia battente. Perché il film assume il romance e incontra Holly e Paul, due personaggi a un passo dal naufragio. Lei è un piccolo animale selvaggio, come ama definirsi, che viene da chissà dove (lo scopriremo) e vive con frenesia le notti newyorkesi dei primi anni Sessanta. Il suo solo scopo è trovare un miliardario sotto i cinquant’anni e dimenticare la noia della vita ordinaria nella vertigine di un diamante. Lui è uno scrittore senza lettori che si guadagna da vivere facendo l’amante retribuito di una decoratrice più âgée. Paul trasloca nell’immobile di Holly ed è immediatamente attirato dalla sua vicina che canta Moon River alla finestra e lo trascina in una serata memorabile, animata da produttori hollywoodiani, miliardari degenerati, scrocconi chic, donne disperate, ereditieri sudamericani.

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Colazione da Tiffany

Una delirante accozzaglia umana che preannuncia la demenza euforica di Hollywood Party e un’idea di festa intesa come momento pieno e vuoto, come riformulazione di situazioni sociali e sessuali, una gerarchia notturna e una mescolanza di generi magnificamente incarnati. Blake Edwards introduce i suoi protagonisti sognatori e pragmatici e non esita a definire i loro miseri affari: lei è una cacciatrice di dote, lui un irriducibile gigolo. Ma questo non esaurisce il loro fascino ne tantomeno impedisce il miracolo dei sentimenti. L’intero film si muove lungo questo confine, si salta dal triviale al sublime, dal burlesco all’emozione, dal glamour alle lacrime. A questo punto va detto, Holly è Audrey Hepburn, eroina moderna ancora stretta nella camicia di forza degli anni Cinquanta. Con un’eleganza quasi sovrannaturale e un volto che Roland Barthes definirà “événement”, l’attrice stringe un patto magico col pubblico e con Givenchy, la cui partecipazione autoriale ai suoi film è altrove argomento illuminante. Ma di quale ‘avvenimento’ si tratta esattamente?

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Colazione da Tiffany

Possiamo approcciare la sostanza di quell’evento, osservandola nel suo ruolo più celebre, e forse il più bello, quello di Holly Golightly, che la rese un segno grafico incancellabile, una figura persistente trent’anni dopo la sua morte. La singolarità di Audrey Hepburn è originalmente dovuta alla sua magrezza. Una magrezza evidente come le curve dell’altra icona hollywoodiana del dopoguerra, Marilyn Monroe. Billy Wilder, che le aveva scritturate entrambe, sosteneva che la Hepburn fosse “la sola ragazza capace di far passare il seno per un valore démodé...”. Nel paese delle bionde minuscole e polpose, “Audrey voleva mostrare la sua magrezza”, precisa Hubert de Givenchy, confessando che gli sforzi per dissimulare i suoi difetti (le scapole pronunciate, i piedi troppo grandi, il collo troppo lungo...) si scontravano invariabilmente con la rivendicazione ostinata dell’attrice a esibire il suo corpo smilzo, ossuto e bizzarramente proporzionato. Così la “ragazza troppo magra”, che innamora un uomo troppo vecchio in Arianna, dissimula a malapena di non trovarsi perfetta ma Gary Cooper, abbonato fino a quel momento a donne troppo piccole, risponde che per lui lei è perfetta, con quel “côteé parigino, rive gauche...”.

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Colazione da Tiffany

E Parigi è l’asse attorno a cui ruotano la maggior parte dei ruoli di Audrey Hepburn, da Sabrina ad Arianna, da Cenerentola a Parigi a Insieme a Parigi, passando per Sciarada. Ma è a New York che la immagina Blake Edwards, sofisticata e selvatica, fragile e dura, balorda e distinta, incarnazione smagliante delle pagine di Truman Capote. Sempre sul punto di infrangersi, innamora Paul, uomo in panne rigenerato dal sentimento. Gli occhi blu sono di George Peppard, istrione dell’Actors Studio, che sarà toujours il ‘partner di Audrey Hepburn’. La prima scelta sono Steve McQueen e Tony Curtis ma la bellezza morbida di Peppard si adatta meglio al ruolo di seduttore indolente.

Negli anni successivi, l’attore biondo e garbato avrebbe interpretato spesso quel tipo di personaggio, anche nel sorprendente film di guerra di Carl Foreman (I vincitori, 1963). Insieme Hepburn e Peppard sono come il fuoco e l’acqua, come il gatto e il cane, la coppia (in)compatibile, indispensabile per le grandi commedie.

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Colazione da Tiffany

La promessa dell’alba è l’incontro tra Holly e Paul, due personaggi in fuga da se stessi, costretti a confrontarsi con l’unica vera domanda: l’amore. Lui si mette vivamente in discussione e ha la metà del film per convincere lei a seguirlo. Perché sotto l’abito della screwball comedy, Colazione da Tiffany è un film struggente in cui Holly avanza pelle ossa, occhi smarriti alla ricerca di un uomo e di un gatto da amare. Ha preso il treno giusto per la città giusta Audrey Hepburn, cantando a mezza voce una miniatura pop e desueta che Mancini e Edwards hanno la bella idea di affidare proprio a lei. La delicatezza e la fragilità del suo timbro, la passione e il dolore sussurrati annunciano altre belle eroine: le Nico, le Marianne Faithfull, le Jane Birkin, che coloreranno il mondo con la loro voce diafana. Chignon a banana, grandi occhi d’ingenua, gambe lunghe, petto d’uccello, allure da ragazzo e grazia tutta femminile, Audrey è un colpo di fulmine. È trench e sigaretta, un bacio e tante lacrime. E piangere sotto la pioggia non è da tutti.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

Il film

locandina Colazione da Tiffany

Colazione da Tiffany

Commedia - USA 1961 - durata 115’

Titolo originale: Breakfast at Tiffany's

Regia: Blake Edwards

Con Audrey Hepburn, George Peppard, Patricia Neal, Martin Balsam, Buddy Ebsen, José Luis de Vilallonga

Al cinema: Uscita in Italia il 09/11/2011

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