Il salario della paura non è soltanto il film più bello di William Friedkin ma un’opera emblematica della New Hollywood (e della sua fine), di un’epoca in cui gli autori erano dèi e riuscivano a imporre i loro progetti temerari agli studios. William Friedkin era uno di loro, Il salario della paura il suo prodigio, un’odissea o forse un’ossessione che avrebbe potuto costargli la carriera, la salute mentale, forse la vita. Un film mostro, un “grande film malato”, per usare la bella espressione di Truffaut, che è innanzitutto la storia della sua stessa creazione.

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Il salario della paura

Girato nelle profondità della giungla dominicana, fu per Friedkin un’esperienza estrema, come Apocalypse Now lo fu per il suo amico Coppola, impantanato nello stesso periodo nel pantano delle Filippine. Il resto dell’avventura lo dimostra ampiamente: uscito contemporaneamente con Guerre stellari, Il salario della paura fu un clamoroso flop. Tre anni dopo, I cancelli del cielo piantarono l’ultimo chiodo nella bara della New Hollywood. Eppure tutto prometteva bene per il regista. Reduce dal doppio trionfo di Il braccio violento della legge (1971) e L’esorcista (1973), poteva adesso permettersi tutto, persino il remake di un classico di Henri-Georges Clouzot (Vite vendute, 1953). Paramount e Universal si unirono per finanziare l’impresa, convinti che Il salario della paura avrebbe seguito il glorioso destino dei suoi precedenti successi. Si sbagliavano. Guerra civile, malaria, intemperie, dimissioni, il film fu un viaggio alle porte dell’inferno e della follia, che il disprezzo critico e l’indifferenza del pubblico precipitarono in fondo al box office. Ancora oggi, nonostante la tardiva riabilitazione nelle cineteche, rimane un oggetto maledetto, sconosciuto ai più, definitivamente all’ombra del monumento di Coppola, che vinse l’eternità e la Palma d’Oro a Cannes.

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Il salario della paura

Ma procediamo con ordine e dall’inizio, dagli inizi, perché Il salario della paura comincia quattro volte. E quattro sono gli uomini che devono unire le forze per trasportare un carico di esplosivo instabile attraverso la giungla. Ma azione e convoglio partiranno soltanto a metà film. Prima di allora, Friedkin si prende il suo tempo per presentarci la vita dei suoi protagonisti e le ragioni che li hanno condotti nello stesso posto, un angolo remoto nel cuore dell’America Latina. Il principio del film (e la sua prima ora) forniscono un contesto esistenziale e un décor quasi documentaristico: Vera Cruz, Gerusalemme, Parigi, Elisabeth (New Jersey), frammenti di un mondo sofferente connesso dal capitalismo integrato.

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Il salario della paura

Fuggendo le loro vite precedenti, un sicario (Francisco Rabal), un terrorista palestinese (Amidou), un truffatore finanziario (Bruno Cremer) e un gangster (Roy Scheider) finiscono intrappolati a Porvenir, un buco infernale vessato da una dittatura militare e dalle multinazionali petrolifere americane, che ‘assumono’ i nostri per pochi dollari e molti rischi. Per offrirsi un’illusoria via d’uscita accetteranno una missione sucida: trasportare diverse tonnellate di nitroglicerina destinate a spegnere un pozzo petrolifero in fiamme.

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Il salario della paura

Friedkin li osserva meticolosamente, trasformando il prologo in un vero e proprio movimento che illustra lo sfondo, il passato e il peso di carne e di vita dei futuri mercenari della giungla. Un pugno di uomini che dimenticheranno se stessi in una lunga fuga metafisica. Le costrizioni delle riprese - Friedkin non si accontenta di una vaga ricostruzione in studio, ma gira su campo, più campi ostili -  rafforzano la scala del loro incubo vegetale e minerale. Friedkin rifiuterà qualsiasi espediente o effetto speciale. Il film è stato girato in un vero villaggio nella Repubblica Domenicana, coi suoi abitanti assoldati come comparse o personaggi secondari, e in una giungla altrettanto reale, con tutte le difficoltà annesse in termini di logistica, finanze e rischi fisici.

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Il salario della paura

Improntato all’intrigo di Henri-Georges Clouzot, il regista devia verso un viaggio mentale alla Joseph Conrad. Il salario della paura viene da caos e al caos ritorna, in mezzo un’esplosione, un pozzo prende fuoco e l’unica soluzione è seppellirlo con un’altra esplosione. Quattro uomini vengono scelti per trasportare su un camion, due camion, casse di nitroglicerina sensibile alla minima scossa.

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Il salario della paura

Prima della corsa, Friedkin taglia bruscamente le sue inquadrature perfette, ricomponendo l’attualità violenta dello sfruttamento e della politica in guerra. La prima parte del suo film è un tripudio di immagini e suoni che avanzano nel frastuono universale, in una deflagrazione costante, connessione espressiva di realtà senza altro in comune che il denaro, il dio visibile che le mette l’una contro l’altra.

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Il salario della paura

Il secondo movimento, il tragitto dei camion attraverso gli ostacoli e un sistema di avversità che provano a ogni metro la fragilità del corpo umano - nudo e sporco senza il costume sociale -, è preceduto da una sequenza che unisce e divide il film, è la forza motrice centrale, meglio, il momento in cui il motore (letteralmente) è messo a punto. Il salario della paura ‘imbarca’ due atti di uguale durata su grossi camion che i protagonisti rimettono a nuovo, riparando la carrozzeria, montando le parti del motore, stringendo dadi.

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Il salario della paura

Lontana dall’essere una scena di passaggio, questa descrizione precisa della conversione di vecchie carcasse in mezzi pesanti dal potere quasi mistico è il punto di ‘assembramento’ massimo del film, il momento in cui qualcosa regge, in cui la macchina si aggiusta. È anche quella in cui i quattro uomini compaiono per la prima volta insieme, ed è anche l’ultima, con un’unica eccezione. Prima di questo momento di comunione meccanica, c’è una frammentazione che Friedkin ricompone a scatti, dopo, una disintegrazione infinita.

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Il salario della paura

Nel 1977 i camion erano allegorie, macchine ‘duellanti’ che travolgevano la strada. Lo stesso anno uscivano in sala (e su strada) due grandi road movie, due veicoli avventurosi che non hanno ancora finito di attraversarci, perché il loro passaggio ha rimodellato il mondo. Se i furgoni truccati di Friedkin sfidavano le piste interrotte di una giungla latinoamericana, Le camion di Marguerite Duras era un veicolo assoluto che viaggiava fluidamente lungo le strade della campagna francese. Due visioni geopolitiche divergenti, il primo sprofondava nelle profondità del mondo contemporaneo, il secondo scivolava sulla superficie di un mondo perduto, che raccontavano lo stesso pianeta ostile sotto il controllo di una cospirazione nota come “globalizzazione”. Attraversando ponti sospesi o girando intorno alle rotonde, questi camion maestosi, spettrali e cinegenici, prendevano il comando della narrazione. Sotto le loro cortine tese covava tutta la violenza del XXI secolo, tutta la speranza che le utopie portavano con sé e tutto il disincanto del loro lutto.

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Il salario della paura

Tra suspense e sospensione, quella dei camion che attutiscono l’impatto fatale, quella del lungo ponte pronto a cedere, quella della narrazione ai confini della vita e della morte, il film raggiunge un assoluto, una forma al limite dell’astrazione. Quando un enorme albero abbattuto ostacola il passaggio ai protagonisti, Francisco Rabal ride. Ride la risata di un uomo che ha capito che il destino è contro di loro, che le circostanze sono contro di loro. Comprende e accetta la follia. Perché Il salario della paura non esalta una libertà possibile ma l’espressione della nostra non-libertà, è una riflessione spettacolare sulla metafisica del destino, sul tentativo irrisorio di controllare il corso della propria vita. Il film, come i suoi protagonisti, sembra non voler capire e dopo aver registrato il carattere esorcizzante della risata fa saltare l’albero. Ostinato, risponde al caos con il caos e libera la strada. Per qualche chilometro almeno...

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Il salario della paura

La determinazione del film e dei suoi antieroi fa il paio con l’ostinazione del regista, ‘inchiodato’ per giorni sul ponte tibetano spazzato dalla tempesta, scena leggendaria che ha rischiato di affossare l’intero progetto. È questa volontà fisica a fare di Sorcerer (titolo originale) l’ultimo grande film d’azione, l’ultimo a sfidare la natura ostile prima che Hollywood ceda alla dematerializzazione. All’epica impresa partecipa un cast eccellente (ma totalmente sconosciuto all’epoca) che fa tutta l’intensità dell’opera e la sua dimensione esistenziale: Bruno Cremer, Francisco Rabal, Amidou e Roy Scheider. Truffaut diceva che “il cinema consiste nel far fare cose belle a belle donne”, in un film senza donne, interpunzioni segrete e foriere di fatalità, Friedkin ne realizza uno per far fare cose pericolose a uomini ruvidi (e colpevoli).

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Il salario della paura

Di quell’intervallo incantato che va dal Mucchio selvaggio a Il Padrino, passando per Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!), Il salario della paura è stato senza dubbio il canto del cigno, l’orazione funebre, tanto abbagliante quanto dimenticata, che risorge come spettro visibile soltanto ai cinefili nostalgici. Un film da (ri)vedere e interpretare all’infinito, fosse solo per assistere a quello strano esorcismo che libera dal realismo solido e dai lampi spettacolari un sentimento estetico (e quasi magico) lanciato inesorabilmente verso l’abisso e il cinema di ‘domani’.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

Il film

locandina Il salario della paura

Il salario della paura

Drammatico - USA 1977 - durata 125’

Titolo originale: Sorcerer

Regia: William Friedkin

Con Roy Scheider, Bruno Cremer, Francisco Rabal, Amidou, Ramon Bieri