Cleo dalle 5 alle 7, secondo lungo di Agnès Varda, comincia a colori, con quattro mani e due mazzi di tarocchi. Si apre con un’inquadratura dall’alto, prima più stretta poi più larga, che riprende un tavolo su cui vengono schierate le carte per la divinazione.
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Mentre sfilano le figure delle Sibille Lenormand e poi dei tarocchi marsigliesi, scorrono i titoli di testa e in sottofondo sentiamo due voci femminili: una medium predice il futuro (funesto) a una giovane donna. La camera rimane sopra quella superficie su cui si combinano le immagini degli arcani - quasi un germoglio, nel 1962, all’inizio di una lunga carriera, di quella che sarà l’arte combinatoria di una regista-bricoleuse dall’innata capacità di cucire insieme frammenti all’interno di arguti film-collage.
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Compare L’appeso. Stacco: vediamo il volto della cartomante e poi, come controcampo, quello in primissimo piano della protagonista Cléo. In questa repentina apparizione delle due donne si passa dal colore al bianco e nero. Una sorta di transizione - come spiega la stessa Varda nei contenuti extra (i boni) del dvd del film - dalla finzione alla realtà. E in quella finzione, scritta nelle carte quasi fosse un racconto dal destino incrociato di Calvino, è già riassunta tutta la sinossi del film.
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I primi minuti proseguono così, con un continuo switch dal colore (i tarocchi) al b/n (le donne) e viceversa, mentre i dialoghi fra Cléo e la veggente sono volutamente fuori sincrono. Sperimentazione, certo (siamo in piena nouvelle vague), ma anche volontà di focalizzare fin da subito l’attenzione sullo scollamento tra un tempo reale e un tempo soggettivo. Il film è stato girato in ordine cronologico e segue 90 minuti della vita di Cléo, dalle 17 alle 18.30. Le ore e i minuti sono scanditi in maniera oggettiva dagli orologi disseminati in quasi ogni scena e dalle didascalie che suddividono la storia in capitoli. A questo flusso temporale concreto se ne innesta uno soggettivo, quello percepito dalla protagonista, in attesa del risultato di un esame medico. La sua percezione di uno scorrere lento e angoscioso la avvertiamo, per esempio, già nell’incipit, quando esce dall’appartamento dell’indovina e scende le scale del palazzo: un jump cut trasmette la sensazione di un mancamento, un piccolo shock, quasi a volersi intonare allo stato d’animo preoccupato della donna.
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Seguiamo ancora Cléo, che, prima di uscire dall’edificio, si guarda allo specchio. La Varda riempie il film di superfici riflettenti, dichiarando dal principio il nodo del suo lavoro: lo sguardo. Nella parte finale dell’incipit, la camera segue la nostra dall’alto e un po’ a distanza mentre cammina per rue de Rivoli. È questo uno sguardo esterno, altro, che rende la protagonista un oggetto guardato. Ma dalla metà del racconto in poi la prospettiva cambia: Cléo diventa soggetto che guarda, e osserva i café, i negozi, le persone lungo le strade parigine della rive gauche, che attraversano, con un itinerario ben preciso, il 14° arrondissement (in cui abitava e viveva la Varda). Uno sguardo, inoltre, che si fa via via più documentaristico, catturando i volti e le espressioni dei passanti, come già nel corto L’opéra mouffe.
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E se i primissimi minuti di Cleo dalle 5 alle 7 “spoilerano”, attraverso i tarocchi e le parole della medium, il finale del film, l’incipit è costruito non solo per introdurre i temi chiave (il tempo, lo sguardo, il femminile), ma anche, e soprattutto, per essere ribaltato, sovvertito. Come il gesto di voltare una carta dal retro al fronte, per svelarne la vera immagine.
Il film
Cléo dalle 5 alle 7
Drammatico - Francia/Italia 1962 - durata 85’
Titolo originale: Cléo de 5 à 7
Regia: Agnés Varda
Con Corinne Marchand, Antoine Bourseiller, José-Luis De Villalonga
in streaming: su Rai Play
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