È impossibile raccontare Barbara, nessuno ha braccia così larghe da abbracciarla. Ma l’impossibilità di fare un film sulla Dame noir della canzone francese diventa paradossalmente una chance. Evocazione, ossessione, caleidoscopio, per evocarla Mathieu Amalric inventa un rituale di immagini e di suoni, di archivio e di improvvisazione, di parole e di musica. Un esercizio di variazione e frammentazione, un film in versi liberi che parte da un fantasma, non dalla verità, non la sua infanzia di bambina ebrea in un paese in guerra, non un padre incestuoso e una madre indifferente, la sua vita viene menzionata in sordina.

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Barbara

Dire tutto, dire troppo, non sarebbe piaciuto a Barbara che scriveva canzoni universali che parlavano solo di lei. Come un diario intimo, prossimo all’autofiction letteraria, sublimava la sua vita, la distillava in poesia, in versi che ci riguardano tutti. Amalric procede per allusioni o rivelazioni fugaci, dice velocemente, dice come lampi per non rompere l’incantesimo. Con Jeanne Balibar firma un biopic che elude le regole del genere, un biopic sull’assenza della cantante. Barbara è in mille pezzi, pezzi di vita e di canzoni, è un film di frammenti, brani di storia sparsi. L’attore-autore decide di raccontarla qui e là, di mostrarla da una parte e poi subito dall’altra in un sublime gioco di mise en abyme.

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Barbara

Pesca versi, note, carne, spirito, gesti, accessori, costumi di scena, dichiarando la sua intenzione nell’incipit ‘in nero’: comporre una ‘partitura’ filmica senza testo che avanza, cresce, conquista. Un lavoro di composizione frammentaria, che lascia spazio alla pienezza e a una voce che insegue una canzone lenta come una preghiera attraverso Parigi dentro una mattina di novembre. Chi canta? Jeanne o Barbara? Pensiamo di saperlo ma potremmo sbagliarci perché fin dai titoli di testa la modella e il suo riflesso sono impegnati in un vertiginoso pas de deux.

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In cima al film sentiamo Barbara senza vederla. Parla, confusamente ma è già una melodia, una canzone nota agli estimatori (“Chanson pour une absente”). Cediamo subito, stregati, incollati allo schermo non stacchiamo lo sguardo fino a quando un volto appare sulla superficie nera e liscia di un pianoforte. Appena sfocato ma immediatamente riconoscibile.

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Di nuovo proviamo a capire e poi mai più perché Jeanne Balibar è posseduta da Barbara, l’attrice precipita in una trance inconscia dove tutto il suo corpo, tutto il suo essere è agito e ‘cantato’ dalla chanteuse. Qualche fotogramma dopo scopriamo lo stesso Amalric, seduto al tavolo di lavoro, circondato da post-it colorati che illustrano il suo programma di riprese, sopraffatto dall’ammirazione per la sua attrice e per Barbara, che non smetteranno di disorientarci e di scambiarsi.

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La prima immagine spalanca le porte di quella casa degli specchi che Mathieu Amalric e Jeanne Balibar hanno costruito intorno alla figura dell’artista, scomparsa ventisei anni fa. Regista e interprete fingono di perdersi tra fiction e realtà, tra luoghi e peripezie esistenziali, conducendo con mano sicura lo spettatore attraverso quel luogo magico che riconosce l’impossibilità di ricostruire la vera Barbara e insieme restituisce il senso infinito di quello che ha suscitato, di quello che ha incarnato, di quello che ha simboleggiato, una passione gelosa e aristocratica la cui portata supera quella riservata a Dalida, tollerata solo come passione colpevole.

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Barbara
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Per qualsiasi cantante di lingua francese, Barbara rimane il riferimento assoluto. Dopo aver ripreso canzoni di Brassens e Brel all’inizio degli anni Sessanta, è stata la prima donna ad affermarsi come autrice, compositrice e interprete, aprendo la strada a Véronique Sanson e alle altre. È stata la prima donna a parlare d’amore in canzoni sensuali e tattili che fornivano immagini precise: la mano sul collo, la punta del seno..., dettagli fino ad allora riservati soltanto ai testi di Aznavour.

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Accomodato a distanza brechtiana, Amalric si filma autore devoto al suo soggetto, abbagliato e innamorato, mentre la sua équipe interpreta il proprio ruolo e lo spettatore teme di disturbare entrando in campo. Il regista raddoppia la finzione di Barbara con la verità di Barbara, che qualche volte appare fugacemente, una foto qui, un filmato là, emergendo viva dai suoi archivi.

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Qualche altra indugia più a lungo, si installa a tutto schermo, come quando è seduta al pianoforte e canta con Maurice Béjart al suo fianco. Ma più spesso compare furtivamente, quasi fosse un’immagine subliminale, spettrale, che si fonde con la figura di Jeanne Balibar, un’attrice che interpreta un’attrice che cerca Barbara dentro un film nel film. Jeanne Balibar è a turno la Dame in noir e Brigitte, un’artista esiliata altrove che torna a Parigi il tempo tempo di ‘incarnare’ il suo personaggio.

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Più free jazz che chansonette, Amalric sfuma i confini tra Barbara e Jeanne, il profilo dell’una e la voce dell’altra, i gesti dell’altra e lo sguardo dell’una. Le loro immagini si fondono e si confondono in un’illusione perfetta e inquietante. Autore e attrice giocano con Lei e con noi, che non sappiamo più chi è chi, la vera Barbara o il suo avatar cinematografico, perché nella stessa inquadratura l’una è l’altra, l’interprete scivola nel suo modello in una gemellanza esaltante tra reale e irreale.
A portare quella reincarnazione alla vertigine, intervengono la lunga silhouette di Jeanne Balibar, la stessa di Barbara, gli stessi lineamenti spigolosi, la stessa seduzione immediata e potente, camuffata qualche volta da una protesi o rivelata dagli stessi gesti. Non si tratta soltanto di un virtuoso esercizio di mimesi, servito dal trucco e dagli effetti del guardaroba. Non basta vestirsi come Barbara, imitarla, copiarla, scimmiottarla. La singolare interpretazione di Jeanne Balibar trascende questo lavoro di somiglianza ideale.

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Barbara

La libertà e la forza drammatica della sua performance non derivano soltanto dalla formula ‘film nel film’, Jeanne Balibar compie un’impresa epica, un profondo lavoro musicale e interpretativo. Si appropria delle canzoni di Barbara e le canta con altrettanta distinzione. Cantare per lei non è una novità, ama farlo e ha già pubblicato due album (“Paramour” e “Slalom Dame”), ma non lo aveva mai fatto così bene, non aveva mai trovato, spiegato e sviluppato la sua voce fino a queste altezze. Barbara è lì, in quella voce, è tornata e ci incanta. Amalric non cerca il ritratto di Barbara o di Balibar ma il loro incontro, lo organizza, come un esperimento chimico tra due organismi o sostanze che si arricchiscono a vicenda. L’innesto è fruttuoso e appassionante, perché al di là della loro somiglianza fisica, condividono la stessa natura, appartengono alla stessa specie: naturalmente esuberanti, ricavano la verità dall’artificio, dalle maschere e dalle maniere superbe. Qualcosa di magnifico si produce tra loro, le due dive si accordano, si completano, si illuminano reciprocamente attraverso la pratica della loro arte, Balibar rivela Barbara e viceversa.

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Barbara

C’è qualcosa di miracoloso nel successo di Barbara, che avrebbe potuto essere un pretenzioso fallimento.

Il film su un regista che fa un film su Barbara era votato al rischio, sulla carta era una falsa idea, troppo teorica, troppo meta. E invece, il principio del film nel film non è solo un abile trucco per evitare le convenzioni del biopic ma un dispositivo per costruire un ritratto esploso della cantante, moltiplicando i punti di vista, impiegando il falso per arrivare al vero. Fin dalle prime battute il set è un luogo dove si provano cose, dove si fa e si disfa, dove si cerca a tentoni di raggiungere la bellezza.

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Barbara

Un grande cantiere in cui cinema e musica, attrice e modella, riprese e montaggio si mescolano nell’ebrezza creativa fino a raggiungere la grazia, fino a toccarla. Messaggio d’amore per una cantante e per un’attrice, che fu a suo tempo compagna di vita, Barbara è un film dirompente e disarticolato, che procede per accumulo o inavvertenza, quasi inconsapevole tra immagini d’archivio e ricostruzione romanzata. E poi echi e sospiri, vocalizzazioni e silenzio, tutto quello che componeva il canto di Barbara che sboccia di nuovo da Balibar.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

Il film

locandina Barbara

Barbara

Drammatico - Francia 2017 - durata 120’

Titolo originale: Barbara

Regia: Mathieu Amalric

Con Mathieu Amalric, Jeanne Balibar