Non ha un soldo in tasca, Jerry Mulligan, ma un sogno in testa: dipingere. Tutto lo ispira, soprattutto Parigi dove è rimasto dopo la liberazione. Ce lo racconta in voce off Gene Kelly introducendo il suo personaggio sulle immagini della città che scorrono con le note pizzicate di Gershwin, che omaggerà Strauss iniettando jazz nel suo valzer. Ficcato nel pavé de Place de la Concorde, Un americano a Parigi comincia la sua galoppata nella storia dell’arte e in sella a un cavallo di Marly (“Perseo e Pegaso”), si bagna nella Fontaine des Mers e poi accarezza l’obelisco egizio di Luxor, metronomo ideale per scandire il ritmo di questa commedia musicale e misurarne col tempo il valore.

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Un americano a Parigi

La sua trama è così semplice che la si potrebbe scrivere sul petit ticket della metro parigina, eppure è diventata una delle storie più celebri del cinema perché qui non si tratta più solo di spettacolo, così astratto e così sofisticato, ma esplicitamente d’arte. Da questo punto di vista, è difficile immaginare qualcosa di più ambizioso di Un americano a Parigi, che non si confronta coi suoi pari e nemmeno con la scena, ma con le arti consacrate, la musica colta e l’avanguardia pittorica. C’è più pittura nelle coreografie che nelle croste del nostro eroe, soldato americano convertito in flâneur che si innamora di una commessa di profumi promessa a uno chansonnier.

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Un americano a Parigi

La traiettoria artistica del protagonista è segnata dal fallimento, dal compromesso e dalla solitudine.

Al debutto del film quando Jerry e i suoi amici (il pianista e il cantante) si presentano in voce fuori campo, la macchina da presa ‘sbaglia’ sistematicamente i loro volti, mostrandoli più giovani, più amati, più felici e di maggior successo di quanto non siano in realtà. L’arte quindi è dalla parte del sogno ma si trasforma sovente nel solipsismo di un incubo, come nella scena in cui il compositore (Oscar Levant) dirige un’orchestra nel “Concerto in Fa” in cui suona tutti gli strumenti.

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Un americano a Parigi

Riguardo a Gene Kelly, quando il sogno finisce avrà il suo lieto fine, certo, ma resta l’ombra di un sospetto, se l’arte o l’amore siano il sacrificio più costoso o la felicità più irreale. Le ragioni di Jerry, il suo amore per Parigi e per l’arte, ci accompagnano in una promenade che fa una riverenza all’Opéra Garnier, sfida il traffico de l’Arc de Triomphe e attraversa la Senna per piantarsi nella rive gauche, infilando la via in cui vive, ricostruita in California. Una strada e una Parigi che non esistono e di cui, malgrado i cliché, Minnelli ha saputo cogliere l’essenza atemporale e segreta.

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Un americano a Parigi

Quando finalmente la m.d.p. trova Gene Kelly lo scopre in pigiama al risveglio, qualcuno suona insistentemente alla porta per consegnargli due croissant e fare più dolce quell’esistenza costretta in una chambre che con agilità da ballerino, l’attore volge in soggiorno: ‘issa’ il letto per fare spazio al tavolino chiuso in un armadio, accomoda una sedia, apre cassetti, chiude ante, spalanca finestre e rimette ‘a giorno’ la stanza della notte con una partitura di gesti veloci e millesimali prima di accorgersi che il suo autoritratto lo osserva mesto. Si avvicina e ‘tira un tratto’ sul dolore che ha vissuto durante la Seconda Guerra Mondiale, prova a farsi sorridere ma poi cancella tutto con un colpo di spugna.

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Un americano a Parigi

A ridestarlo sono tre monelli che lo chiamano dalla strada e restituiscono a Gene Kelly il suo inossidabile sorriso. Qualche fotogramma dopo scenderà in strada con loro tracciando un’altra via per il musical e portando con Minnelli l’arte dove deve stare, al cuore della città e della vita. La sua immagine nel film è quella di un seduttore ma il suo corpo è insieme il riflesso dell’infanzia. La danza è qualcosa di leggero e infantile, ogni passo è una ricerca di sé. Quando canta coi bambini gioca alla regressione, si curva, si piega fino a raggiungere il mondo dei più piccoli.

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Un americano a Parigi

Insegnargli l’inglese è l’occasione sognata per intonare un’aria musicale (“I Got Rhythm”) in cui non si mette in mostra per loro ma con loro. Nel suo mondo la danza nasce spontanea dalle azioni di ogni giorno o dal sentimento di due amanti che si dichiarano a mani legate (“Love Is Here to Stay”), la protagonista ha il cuore ‘impegnato’, in un magnifico gioco di vero e falso. Alla falsità del contesto corrisponde la verità assoluta dell’amore e di un corpo dinamico che sa esprimere tutto quello che vorrebbe dire e che le parole non permettono. L’eroismo di Gene Kelly è tutto lì, in quella maniera di rendere adorabile agli occhi e al cuore gli istanti magici dell’esistenza.

L’esaltazione amorosa certo ma più sovente la nostalgia e la solitudine. ‘Sotto la pioggia’ o lungo la Senna, l’attore è un’epifania, come il suo sorriso ottimista e quella maniera di riempire lo spazio con la sua danza che qualche volta gioca con gli ostacoli e la gravità, qualche altra col romanticismo dentro un décor celestiale. Con lui la danza comincia una nuova avventura: sorprendere il corpo e scoprirne uno nuovo in un momento che appartiene soltanto al protagonista. Mulligan ha bisogno della solitudine perché la sua nuova felicità possa esultare fino al parossismo. Esistono mille modi di danzare a Hollywood, in due, in tre, in gruppo, ma Gene Kelly dimostrò che si poteva farlo anche da soli. Non c’era bisogno di un partner in carne ed ossa, per quello un cartoon o un oggetto del quotidiano potevano bastare, un cappellino girato o piegato è sufficiente per essere Napoleone o cowboy. La sola cosa su cui il ballerino non può fare economia è se stesso. Questa componente riflessiva ispira alla commedia musicale una figura di predilezione: l’assolo. Una parentesi introspettiva, il momento in cui l’eroe si abbandona a uno stato di melanconica o esaltata vaghezza, in cui sembra ballare solo per se stesso.

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Un americano a Parigi

Per Minnelli la commedia musicale non era un genere minore e poteva rendere conto di tutta la complessità della vita. Forse per questo apre il suo film ‘in minore’, cogliendo il suo protagonista al risveglio da un incubo bellico o forse dal sogno più bello. Voilà l’artista. Si stiracchia Gene Kelly con la nonchalance pigra del mattino e di un ballerino che accenna e trattiene una tensione di gesti che esploderanno più avanti. Anche senza ballare dispiega tutta la dimensione atletica del suo stile, mani, braccia, piedi, ginocchio, tutte le sue parti creano forme e soluzioni ardite nella ricerca di disallineamenti e fuori peso. La coscienza del baricentro in Gene Kelly è così sbalorditiva da fargli assumere quell’atteggiamento rilassato, elastico, pronto, in simbiosi con lo spazio e gli oggetti che lo attrezzano.

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Un americano a Parigi

Quello che osserviamo in quella stanza angusta è una presenza scenica ‘a riposo’ ma già artisticamente efficace. Parafrasando Eugenio Barba, è lo ‘slancio’ che precede il compimento di un’azione, una prima forma di coordinazione. Un’energia contenuta che Gene Kelly rende visibile allo spettatore, la preparazione al dinamismo che irrigherà le sequenze successive.

Saltare dentro le pozzanghere quando la pioggia fa “doo-doo-doo”, fare colazione dopo uno squillante “Good morning!”, misurare le strade di Parigi con un impeto di debordante comunione, sono alcune delle tracce che ha lasciato in noi Gene Kelly. Ballerino, coreografo, genio discreto, ha fatto della ‘gioia di vivere’ un genere, soffiando sulle nostre vite un po’ della gioia pulsante che emana dai suoi film.

 Come se applicasse al nostro sguardo un filtro di colori brillanti, vestendo di euforia ed ebrezza un quotidiano di cui l’attore non ha mai negato l’asprezza. Con Un americano a Parigi, Kelly e Minnelli ridisegnano i contorni di Parigi che cede il passo alla ‘ricostruzione’ in studio. Da una parte la realtà e dall’altra il sogno, l’astrazione del reale e l’arte splendente della superficie. Un americano a Parigi è un film eterno e in quel sogno meraviglioso e nostalgico che è la vita per Minnelli, Kelly dimora per sempre giovane, sfavillante, fiducioso, innamorato, sorridente con una punta di tristezza negli occhi, senza rughe e senza lacrime.

Autore

Marzia Gandolfi

Marzia Gandolfi (1971) è una “ragazza della Bovisa”. È cresciuta nei racconti di Testori e ha studiato nella città di Zurlini. Collabora stabilmente con MyMovies e resta duellante per sempre. Nel 2021 ha pubblicato con Bietti Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano e con Santelli Editore La forma dell’attore. È membro della Commissione selezionatrice dei cortometraggi per i premi David di Donatello e dal 2015 membro della giuria di Presente Italiano. Si occupa di serie TV per La Gazzetta del Mezzogiorno e di icone popolari per le riviste che amano le attrici e gli attori. Il suo eroe ha “gli occhi di ghiaccio”, il suo piccolo era più grande di lei. Nickname: la Tula.

Il film

locandina Un americano a Parigi

Un americano a Parigi

Musicale - USA 1951 - durata 112’

Titolo originale: An American in Paris

Regia: Vincente Minnelli

Con Gene Kelly, Leslie Caron, Oscar Levant, Nina Foch, Georges Guétary

Al cinema: Uscita in Italia il 09/06/2016

in TV: 03/05/2024 - Iris - Ore 04.10

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