Prodotto in seguito alla pandemia di COVID-19, Pantser di Jan Verdijk recupera a piene mani l’ambientazione post-apocalittica di un film come 10 Cloverfield Lane di Dan Trachtenberg (pellicola del 2016 di cui è estremamente debitrice per estetica, costruzione narrativa e sviluppo dei personaggi), strizzando l’occhio persino allo Shyamalan di E venne il giorno. L’aria sulla terra è diventata (per ragioni che al pubblico restano oscure) irrespirabile, così che Mira e sua sorella sono costrette a rinchiudersi in casa, una villetta sigillata ermeticamente, in attesa del ritorno dei genitori, partiti da un tempo indefinito e apparentemente interminabile (forse morti, forse dispersi).

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La vita delle due procede monotona nella villa, dove sopravvivono consumando le ultime provviste rimaste, consolandosi l’un l’altra e guardando ossessivamente oltre le numerose finestre che compongono l’abitazione. All’esterno, non sembra esserci nient’altro che una minacciosa foresta fotografata con gli stessi toni grigi e inquadrata con la medesima reticenza con cui Robert Eggers inquadrava la selva che accerchiava la famiglia in The VVitch e che potrebbe anch’essa contenere degli oscuri segreti: non, però, streghe o caproni, ma semplici esseri umani.

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Proprio da lì, dagli alberi fitti e leggermente sconquassati dal vento, un giorno, si presenta alla loro finestra un uomo bardato all’interno di una tuta e provvisto di maschera antigas che chiede aiuto e ospitalità, affermando di poterle condurre alla salvezza in una grotta, scatenando così il panico nelle ragazze, incapaci di capirne le reali intenzioni e spaventate dalla sua figura minacciosa. Il reale tema del corto si scopre così essere la cultura del sospetto all’interno di una situazione di crisi. Di chi ci si può fidare quando il mondo è in rovina?

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Il filo rosso che lega il film dell’autore olandese (già regista di diversi short movie come De Ark e A Stranger From the Past) alla pandemia è sfacciato e costruisce la tensione attorno alla minaccia rappresentata dall’Altro, ormai non più umano ma puro pericolo. Pantser rigetta lo spettatore indietro nel tempo, quando un celebre videogame come Among Us (un gioco multiplayer nel quale a uno dei partecipanti veniva assegnato il ruolo di assassino su un’astronave ma aveva la possibilità di dissimulare la propria lealtà al gruppo mentre si discuteva coralmente su chi stesse compiendo la carneficina) sembrava riassumere tutta una serie di logiche (denuncia, delazione, congetture) scatenate o esacerbate dalla reclusione casalinga, di cui si faceva catarsi (d’altronde, si dice che alcuni bambini nei campi di concentramento giocassero alle “camere a gas”).

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Proprio la casa, luogo di riparo dall’esterno ma anche possibile prigione, finisce quindi col simboleggiare la distanza che intercorre tra i personaggi, separati da un vetro che ne impedisce il contatto e rende difficile il dialogo, finestra su un mondo che potrebbe regalare un nuova vita come porvi termine ma anche specchio in cui non si riesce a riconoscere la propria immagine riflessa.

Pantser di Jan Verdijk è disponibile in streaming gratuito su arte.tv

Autore

Pietro Lafiandra

La prima epifania cinematografica la ebbe a quattro anni con Pomi d’ottone e manici di scopa. La seconda in adolescenza con Cosmopolis. Ora, in età adulta, prova a trovare un’improbabile sintesi tra questi due lati di sé muovendosi faticosamente tra un dottorato in visual studies, deepfake, cinema horror, film d’animazione per bambini e musica elettronica. I componenti della sua band, Limonov, dicono che è colpa dell’ascolto compulsivo dei Radiohead. Gli amici che è colpa del suo segno zodiacale, i gemelli. I dottori della schizofrenia. Lui pensa sia più cool dire che è un intellettuale post-moderno. Ai posteri l’ardua sentenza.