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Le joli mai

Regia di Chris Marker, Pierre Lhomme vedi scheda film

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La recensione su Le joli mai

di EightAndHalf
9 stelle

La risposta (ma non l’antidoto) alla Dolce vita.

 

 

Le joli mai è il maggio felice di migliaia e migliaia di parigini. Nella caotica capitale francese infatti tutti quanti si affaccendano e si muovono con velocità inaudite per rincorrere il loro personale sogno (se ce l’hanno) o per celebrare quel poco che posseggono in barba a qualsiasi sventura. Certuni vivono nella costante ironia, nel tentativo di alleggerire il dramma di una vita ripetitiva. Certuni investono in borsa e comprano azioni, incerti su quelle che sono le conseguenze del capitalismo, e cosa il capitalismo davvero voglia dire. Certuni riescono finalmente a ottenere una nuova casa (popolare) dopo aver atteso 7 anni che il Comune o qualcun’altro per lui gliela concedesse, alla luce del fatto che ormai quei certuni sono diventati una famiglia con due genitori e nove figli. Certi altri rivendicano i loro diritti scioperando e bloccando per un certo lasso di tempo le attività di fabbrica negli edifici della Renault. Altri ancora sono innamorati, ma si dovranno presto separare perché lui sta per partire per l’Algeria. Altri sono di colore, e affrontano le esperienze razziste giorno dopo giorno, nella speranza che la gente intorno a loro “si abitui”. Alcune donne ripercorrono lo stereotipo di donne disimpegnate e frivole forse per privarsi delle responsabilità civili o forse perché ci credono davvero. Altre donne trascorrono la loro vita a concepire costumi e a travestire gatti, incapaci di rispondere ai loro veri dilemmi esistenziali e impauriti dalla morte. Qualcun’altro è un algerino anche lui oggetto di scherno e di umiliazioni e che da giovanissimo è costretto a campare i propri genitori e le sei sorelle; nonostante questo, però, dà poca importanza all’amore. Intanto un ex-prete rivela di aver perso gradualmente la fede, in misura inversamente proporzionale alla lotta politica. E mentre al cinema proiettano Cléo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda e L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais qualcuno chiamato Chris Marker insieme a un coraggioso e necessariamente muscoloso cameraman di nome Pierre Lhomme chiedono ad alcuni parigini di parlare delle loro esistenze e delle loro credenze, cercando di andare a fondo di quel sentimento di esteriore rassegnazione e di intima disperazione che sembra contraddistinguere tutti, dal primo all’ultimo, dal più ottimista al più becero nichilista. Tutti gli uomini, le donne, persino i bambini, provano solitudine. Ed è una coincidenza brutalmente grottesca che la primavera del 1962 sia la prima cosiddetta Primavera della Pace, la prima dopo la cessione dell’autonomia all’Algeria.

A Chris Marker non importa il trattato sociopolitico o il sondaggio sistematico delle ideologie dei parigini. Le sue domande sono le più generiche e le più “banali” che si possano pensare, come anche le più disparate, e spesso colgono nel segno costringendo gli esseri umani più semplici, ingenui e balbettanti a dire parole che lentamente compongono un mosaico, allettante quanto dispersivo, di un vero spaccato antropologico. È il tipico essere umano della seconda metà del Novecento, compresso fra pessime condizioni di vita proprie di un luogo sovraffollato come la città di Parigi, la spinta frustrata e impossibile verso una maggiore libertà, la formazione turbolenta di una propria coscienza critica e il sospingere alterno e indifferente dei grandi eventi storici, riguardo i quali Marker spesso chiede e domanda, alle sue “vittime”da offrire, alla fine, al Dio Cinema. Se anche Le joli mai non è Cinema-Verità, rappresenta sicuramente il percorso per raggiungere quella stessa Verità, come dice lo stesso Marker verso la fine della pellicola. Perché nella volontà di comporre frammenti di vite, senza sistematicità né didascalismo, cerca di cogliere il mal di vivere stampato sulla faccia di “tutti i mondani (e non) di” Parigi, così come lo erano i romani de La dolce vita. E quel joli assume i tratti di quell’irrisorio e al contempo pietoso “dolce” posto proprio nel titolo del film di Fellini: è evidente che sotto la faccia del boom si celi il macabro spettro (del capitalismo?) dell’(in)sofferenza esistenziale. Ma quali differenze finiscono per condannare (non indiscriminatamente) i personaggi felliniani e invece, al contrario, per salvare (non a caso) i personaggi, anzi, le “persone”, di Marker? Il fatto che, probabilmente, in Le joli mai trionfa l’ingenuità, l’immediatezza, l’istinto che spinge l’uomo verso la felicità personale. Quale motore se non quello dell’autodistruzione guida i masochisti de La dolce vita, e quale altro se non quello della “ricerca della verità, come della felicità” spinge gli uomini vivi de Le joli mai! Il maggio 1962 fu pur sempre sei anni prima il ’68, e già custodiva in sé i germi di quello sviluppo culturale che sarà spartiacque nei lunghi anni della Guerra Fredda e che permetterà una maggiore diffusione dello spirito critico in tutti gli individui che, come dice una donna nel film di Marker, trovano nel comunismo un’alternativa laica al cristianesimo, per dare senso alla loro vita.

 

Nonostante infatti Le joli mai verta alla fine verso una dimensione onirico-riflessiva, in cui la voce narrante di Yves Montand (come anche la coscienza registica di Chris Marker) osserva trafitta dalla tristezza i volti spauriti e perplessi dei francesi “imprigionati”, il documentario del grande regista francese è uno straordinario inno alla vita e alla riflessione critica, alla luce della concretezza storica e sociale in cui si vive, come allora, oggi. Le joli mai inquadra l’esprit du temps e lo trascende in un discorso universale e catartico sulla forza della nostra coscienza, e su come, travolti da grandi eventi storici e piccoli risvolti economico-sociali, dobbiamo sempre essere in grado di mantenere la nostra funzione vitale, salvifico fattore che può portare (come effettivamente portò) a rivoluzioni culturali come quella del ’68. Amori, speranze, sogni che tingono la realtà: tutti momenti necessari allo sviluppo stesso della storia, perché la responsabilità è “di tutti e di nessuno”, ma certo solo “di nessuno” se restiamo inerti sui nostri passi. Così, nella scarna essenzialità del suo sguardo (opposto, non a caso, allo sguardo inerente al soggetto della felliniana Dolce vita), senza eleganza può cogliere i grandi paesaggi (stupendi) di Parigi, su cui poeti e cantori narrarono in versi le gesta umane più note e importanti (dalla lotta al dispotismo di Voltaire fino alla morte di Molière), come anche i più piccoli dettagli che la storia spazza via ma che sono metro di giudizio di tutti gli esseri umani, come un ragno che nell’inconsapevolezza dell’intervistato percorre imperterrito tutta la giacca del suddetto o come due mani che si stringono tra pudore e grandissimo affetto. O magari il volto più tenero e sottilmente inquietante del gufo (naturale alternativa all’arte, “naftalina della bellezza”, incapace di rispondere) agli occhioni curiosi e bislacchi di gatti e di bambini. E intanto ci si sente dentro uno sguardo direttamente ispirato dalla filosofia di Schopenauer, uno sguardo che cerca di trovare una soluzione per i suoi personaggi e che non a caso inquadra un uomo che dichiara di attuare una pratica buddhista (ovvero la noluntas) per non provare più niente e dunque non soffrire.

 

Sono inutili, insomma, i panegirici sulla negatività della politica o sulla valenza parassitaria (o salvifica, a seconda) del denaro. Quello che interessa Marker e Lhomme è rendere sullo schermo quella “prigione” in cui si sentono tutti i francesi, prigione che nell’immanenza si tinge di libertà ma che è la condizione umana di chi si sente piccolo rispetto ai grandi eventi storici, così come di fronte e dentro l’immensità metropolitana di Parigi.

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