Average Joe è un po’ la versione americana dei nostri Tizio, Caio e Sempronio. Ma se a noi quei tre servono per indicare una qualsiasi persona presa a caso, l’average Joe statunitense viene invece usato per indicare una persona qualsiasi, ma non a caso; è il nomignolo dedicato all’americano perfettamente medio, quello che non spicca né da una parte né dall’altra, quello che lo vedi per strada e non ti accorgi nemmeno che ti è passato di fianco perché non ha niente di sbagliato o di fuori posto, niente di particolare o memorabile, niente di esagerato o sopra le righe. Il Mario Rossi di Omaha, il tal dei tali di Orlando. Solo che gli americani ce l’hanno talmente sul gozzo l’average Joe – loro che apprezzano così tanto gli ego che sprizzano fuori da tutti i pori – da avere approntato un’altra mezza dozzina abbondante di sinonimi papabili, tutti non particolarmente lusinghieri: ordinary Joe, Joe Sixpack, Joe Lunchbucket, Joe Snuffy, Joe Blow, Joe Schmoe; senza contare il progressismo delle versioni al femminile come ordinary Jane, average Jane e plain Jane.

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Average Joe

Average Joe è anche l’ultima (in ordine di tempo) serie originale prodotta da BET+, il servizio di streaming (in comproprietà fra Paramount e gli studios di Tyler Perry) gemmato dall’emittente BET (Black Entertainment Television), canale nato nel 1983 (ufficiosamente nel 1980) la cui programmazione è pensata principalmente per un pubblico afroamericano. Average Joe è l’epitome della serie invisibile, pensata per un mercato ristretto i cui canali distributivi sono (all’estero) praticamente inesplorati. Il problema è che Average Joe è anche una black comedy fatta davvero come si deve, dannatamente divertente e con un occhio furbo rivolto a Steven Soderbergh, uno dei sultani del sottogenere “piani criminosi convoluti portati a termine da persone interessanti e/o impreparate”. Non a caso la serie, ispirata a una storia realmente accaduta, l’ha creata e sceneggiata quel gran professionista di Robb Cullen, che insieme al fratello Mark ha scritto faccende solide per il cinema – roba che non svolta la vita a nessuno, ma che intrattiene e costa poco – come Poliziotti fuori - Due sbirri a piede libero e C’era una volta a Los Angeles.

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Average Joe

L’Average Joe del titolo risponde al cognome Washington ed è un onesto idraulico di Pittsburgh, che all’inizio del pilota piange la morte prematura del padre, scomparso in seguito a un tragico incidente. A consolarlo ci sono anche gli amici di una vita, l’imprenditore Leon – ex proprietario di una catena di ferramenta di successo, oggi soppiantata dalla grande distribuzione – e lo sbirro Benjamin Tuchawuski, detto Touch, incastrato in una carriera senza via d’uscita anche a causa di qualche problemino di dipendenza dagli oppioidi. Nei primi venti minuti del pilota, Cullen caratterizza i personaggi – Joe persona quadrata e ottimo padre di famiglia senza fronzoli, Leon sull’orlo di una crisi di nervi e portato a spasso da una moglie capricciosa, Touch potenziale scheggia impazzita per via della droga – e tutto sembra andare liscio. L’inciampo arriva tutto d’un tratto e ribalta la narrazione. Il giorno successivo alla veglia funebre, Joe passa dal negozio del padre – che in teoria faceva semplicemente il conducente di carro attrezzi – e viene aggredito da due malviventi russi (uno dei quali è Dimitri, il fidanzato della figlia ventenne) che lo legano, gli spezzano qualche dito e gli fanno una domanda assurda: dove sono finiti i dieci milioni di dollari e la Lamborghini che il tuo babbo ha rubato alla mafia russa? Questo sì che è un potente epitaffio alternativo da incidere sull’urna del padre.

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Average Joe

Ma non è ancora finita, non abbiamo ancora raggiunto il cuore della serie. Joe, infatti, si libera e uccide fortunosamente i due aggressori. Prima ancora di riuscire a fare il conto delle dita rotte nella sessione di tortura, Joe viene raggiunto da Leon che passava di lì per caso e ha notato il furgone dell’amico. E prima ancora che Joe e Leon riescano a mettersi d’accordo sul piano d’azione, i due vengono raggiunti da Touch che girava da quelle parti in pattuglia. I tre concordano: dieci milioni di dollari sono troppi per essere denunziati alle autorità competenti, teniamoceli. Dunque, per ricapitolare, abbiamo un poliziotto corrotto eroinomane, un imprenditore fallito con una moglie stronza appassionata di true crime e un idraulico che non ha mai nemmeno parcheggiato in divieto di sosta che si mettono d’accordo per far sparire due cadaveri e cercare di rubare dieci milioni di dollari alla mafia russa. Cosa mai potrà andare storto?

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.