L’inizio di Jubilee di Derek Jarman è un concentrato di anomalie: un film “punk” che parte dalla Corte della Regina Elisabetta I nel 1578 e che edifica le sue basi sul contrasto col resto della narrazione, finendo poi per negare sia il prologo che il prosieguo.
Una distopia in cui il futuro distopico è però il presente (o meglio il presente dell’epoca), terrificante per gli abitanti dell’età elisabettiana, ma il regista si premura di renderlo spiacevole anche ai contemporanei.
La dama di corte della regina dà da mangiare ai cani reali e li porta a spasso nel giardino di Buckhingham Palace; il gradevole cinguettio degli uccellini la accompagna, figure di quella tranquillità e serenità che abbandoneranno prestissimo il film, sostituite dal frastuono violento e volgare dell’epoca moderna.
Stacco sull’interno della reggia dove Elisabetta I sta passeggiando avanti e indietro in una piccola stanza fiocamente illuminata da un candelabro e l’alchimista di corte John Dee, chino su un tavolo, sta dormendo su un poderoso tomo. La dama è con lei e le serve una coppa che la Regina beve e le porge nuovamente, con gesti cerimoniosi tanto quanto la deferenza della suddita: residui di un passato spazzato via dalle urla, dai gestacci e dalla maleducazioni degli eroi punk del film (se eroi possiamo chiamarli). Il bon ton e la parolaccia come intercalare, i due poli tra i quali oscilla l’universo di Jarman.
La Regina chiede a John Dee, forse annoiata da quella quiete suprema, di evocare uno dei suoi angeli e subito l’alchimista si alza in piedi per porgere un elogio alla sua Sovrana. Elisabetta gli restituisce altrettanti elogi (“antico antimonio”, “occhi del nostro Regno”) e lui la fa accomodare al suo posto mentre dichiara, ossequioso, di appellarsi a Gesù Cristo prima di compiere la magia, cominciando ad agitare il suo scettro magico come a disegnare una croce, e declamando l’arrivo di uno spirito del fuoco, Ariel.
Ariel appare in un breve flash all’esterno, come fuori da una grotta, emettendo un forte lampo dal basso ventre. Ma ecco che nel secondo controcampo, dopo lo sguardo attonito della regina e di Dee, è nella stanza con loro, dietro i simboli del sole e della luna incisi sul muro, intento a salutare “il grande padrone”, cioè l’alchimista che lo ha invocato. Qui per la prima volta percepiamo lo spazio diversamente: i controcampi di Ariel sembrano provenire da una quinta parete, nonostante siano posizionati nella quarta che prima non vedevamo.
L’impressione è che l’angelo stia sovrastando e ampliando l’ambiente angusto e disadorno in cui si muoveva questa ristrettissima Corte fino a pochi momenti prima. È il primo indizio dello squarcio nella realtà che Ariel provocherà per permettere a Elisabetta di viaggiare nel futuro del suo paese. John Dee chiede ad Ariel di mostrare alla Sovrana le “pure acque che sono l’essenza che unisce il creato tutto”. Il neoplatonismo e l’olismo tipici della cultura alchemica sono riassunti in questa frase, che farebbe pensare a una deriva mistica del film ma prelude all’amara constatazione che nulla unisce le sue due parti, nessuna analogia, nessun elemento primario può sintetizzare tutta l’esperienza della creazione. L’alchimia – così amata da Jarman – fallisce dinanzi all’epoca del sintetico e del metallico. Il rumore odierno e il silenzio elisabettiano/shakespeariano non possono essere in armonia.
Ariel intima la regina di prendere coraggio perché le mostrerà “l’ombra del tempo” ed ecco esplodere l’immagine e il rumore: rifiuti e macerie che bruciano e uomini malvestiti che le attraversano, siamo finalmente nell’epoca moderna (il 1977). Un gruppo di ragazzine con le chiome colorate e i vestiti borchiati che picchiano una coetanea contro un muro, ridendosela.
Le ferma Crabs con un fucile, uno dei personaggi principali della cricca di punkettari che ruota intorno all’alter ego moderno della Regina, Bod. Le ragazze vengono portate in un rifugio sporco e pieno di scritte dove Crabs presenta Amyl Nitrite, cantante, anarchica, storiografa del vuoto e della decadenza. Da qui in poi siamo immersi in un tripudio di kitsch e cattivo gusto.
L’incipit di Jubilee confuta sia il resto del film che la sua interpretazione più in voga: non è davvero un film emblema del New Queer Cinema o dell’Underground britannico, ne è una summa e insieme una critica, un saggio sulla sua decadenza e le sue derive, a loro volta simbolo della dissoluzione del paese tutto. Ecco perché Amyl scrive il suo Decline and Fall: dell’impero britannico e anche dei suoi movimenti di controcultura. Solo gli occhi barocchi e romantici del passato possono aiutare a vedere meglio la distonia che l’anarchia ha portato con sé.
Non è un caso che l’epoca barocca nell’incipit sia relegata in una piccola stanza, presente solo nel vestiario e non nell’ambiente intorno (anche per questioni di budget) mentre il punk deflagra e dilaga non per aggiungere nuovo contenuto ma per girare su se stesso.
L’eccentricità è nei costumi e negli atteggiamenti ma gli ambienti sono spogli, o decadenti, post-apocalittici (ricordano Miller, Carpenter, ma perfino il post-atomico italiano dei vari Martino, Massaccesi etc). Ariel promette aperture di orizzonti e mutazioni alchemiche, l’uscita dalle prigioni mentali e quindi anche fisiche in cui si trovano la Regina e la sua Corte, ma apre uno squarcio di bruttezza e non di luce. L’altro grande dogma alchemico presentato nei primi minuti, quando Ariel dichiara di essere quello spirito puro e chiaro tramite il quale “puoi trasformare qualunque metallo in oro purissimo”, sembrerebbe la dichiarazione poetica del regista: trasformare il piombo dell’epoca punk in oro. Ma qualcosa va storto, l’Inghilterra affoga nella violenza e nel finale Elisabetta I sconsolata chiederà di tornare indietro, contemplando il vasto mare senza uomini che circonda l’isola, unico elemento ancora salvifico.
Sotto l’aspetto più generale Jubilee è una classica storia di viaggi nel tempo per cui l’inizio non può che essere la presentazione dei futuri viaggiatori. L’eloquio ricercato e formalistico non nasconde alcuni accenti di bizzarria quanto meno nella scelta degli attori: se la dama è infatti impersonata da un attore affetto da nanismo, John Dee altri non è che Richard O’Brien, la mente dietro il Rocky Horror Picture Show e la Regina è interpretata da Jenny Runacre che sarà anche Bod, il suo opposto. Il viaggio che compiono avviene in tempi e luoghi che non sono fonti di meraviglia quanto di disgusto, ed è ancor più evidente se si pensa che il prologo non ha nulla di splendente e sfarzoso, è il teatrale minimalismo dell’autore di Caravaggio e Edoardo II. Eppure risulta preferibile all’Inghilterra in cui l’amato punk e la briosa estetica queer hanno preso il potere. Le riverenze andavano abolite certo, ma il prezzo da scontare è l’horror vacui di un mondo agli sgoccioli. Jubilee in fondo è un film conservatore.
Il film
Jubilee
Grottesco - Gran Bretagna 1978 - durata 104’
Titolo originale: Jubilee
Regia: Derek Jarman
Con Jenny Runacre, Nell Campbell, Jordan, Toyah Wilcox, Ian Charleson
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