Nicholas Hathaway si prepara. Riviste intorno al corpo, nastro adesivo, un cacciavite sul braccio e un coltello nella cinta. Pochi strati a separarlo dalla possibile fine, pochi attimi, pochi ultimi sguardi prima di andare.

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Blackhat

Uno è dedicato a Lien, che lo guarda dall’altra parte della stanza. Non può trattenersi, sta per incontrare il blackhat, ma le parole della donna che ama forse gli risuonano ancora in testa: “Pensa a dove ti trovi, non a dov’eri prima. Dovrai prendere decisioni rapide. Agire secondo l’intuito. Non hai il tempo di adattarti”.

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Dopo avere perso tutto, Nick ora lo sa, conosce l’imperativo dell’epoca, è lui questa volta a chiarirlo per entrambi: “Tutto si decide se sarò abbastanza vicino, abbastanza veloce” dice, prima di stringere Lien con gli occhi, prima di trattenerla un poco. L’immagine quasi si fa convincere dalla forza di questo amore, e rallenta per un attimo. È il ralenti di Mann, pura frizione dei corpi contro l’attimo che finisce. Ma ha ragione Pier Maria Bocchi nel suo “Michael Mann. Creatore di immagini”: in Blackhat non c’è quasi più neanche questa concessione, questa sospensione esistenziale – e non c’è infatti più neanche l’inserzione di pellicola nel tessuto digitale, che in Nemico pubblico scolpiva fuori la luce dalla morte di Dillinger.

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Il tempo, in effetti, è già finito, è stato ucciso, scoppiato sotto la pressione del tasto di una tastiera, bruciato dalla connessione istantanea, dal flusso di informazioni simultanee. Anche lo spazio è in fase terminale, non più di un residuo, una rovina esplosa che si attraversa correndo. Un punto indefinito, una coordinata volatile, la porzione (fasulla) di piazza (Papua Square) in una metropoli asiatica (Giakarta): è questo ciò che il presente concede alla resa dei conti di due hacker, cittadini del codice che non possono sottrarsi alla gravità.

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Allora ecco Banteng Park (questo il vero nome dello scenario), un acquario – come sembrava anche il night club della sparatoria di Collateral - in cui galleggiano alghe fatte di fuoco e coralli rosso sangue, un flusso di manifestanti religiosi e Nick, che insegue il terrorista Sadak e il suo braccio Kassar. In questa piccola porzione di spazio incandescente, in cui a tratti ancora le immagini fiammeggiano al rallentatore, tutto si decide in pochi secondi: pur braccato, Nick uccide Kassar e mette fuori gioco gli altri sicari. I corpi spintonati dai proiettili perdono l’equilibrio, capitolano sotto la pressione del mondo. Anche i fantasmi digitali, senza volto, traccia e identità, sanguinano.

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Sadak invece pare fluttuare come uno spettro, disinteressato al destino dei suoi uomini: “Le persone muoiono su questo pianeta tutti i giorni. Cosa vuoi che faccia? Soffrire, solo perché lo conoscevo? Non è neanche più qui. Dove sono i miei soldi?”. Di fronte a questo aggiornamento 2.0 dell’Harry Lime di Orson Welles (anche in Il terzo uomo la massa era ornamento senza volto di un ultimo confronto a due, oltre che sineddoche di un quadro geopolitico deciso da pochi), Hathaway rivendica un umanesimo luttuoso, da filosofo contrario al realismo capitalista (Mark Fisher avrebbe apprezzato questo detenuto letterato): “Non si tratta di soldi, non si tratta neanche di zero e uno, o di codici. Hai ucciso i miei amici”. Ma quale visione ha la meglio? La lotta tra i due è condotta all’arma bianca e finisce con la vittoria di questo umanesimo: Sadak muore, improvvisamente appesantito dalla propria carne.

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Mann, classicista che qui pensa anche al western (fordiano) come genere che alla fine di ogni mito è cornice per un’ultima istanza umana, però non fa perdere il blackhat – letteralmente il cattivo con il “cappello nero” - per imporre una qualche visione passatista sulla gloria del corpo nel nuovo spazio mediatizzato. Piuttosto fa vincere Hathaway per fargli pagare un altissimo prezzo: la consapevolezza dell’impermanenza di quello stesso corpo, o meglio, del sentimento del corpo, e cioè del suo sentire. Perché nel mondano impasto irregolare di materico e virtuale, in cui le distanze del villaggio globale si assottigliano come stringhe e i circuiti si espandono come quartieri urbani, il corpo umano, il corpo organico, sta lì a metà, costretto a esperire il dissolversi della vecchia carne e l’imporsi della nuova materia.

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Nell’intermezzo, nel non-luogo tra, conservare ciò che si ama è impossibile, perché, al tempo del disincanto quantistico, “due oggetti non possono occupare lo stesso punto nello spazio, nello stesso momento”.  Nick e Lien lo sanno, quando attraversano in fuga la soglia dell’aeroporto. Solo una cosa possono fare per condividere ancora uno spazio e un tempo, ora che il loro corpo è espropriato delle immagini dei nuovi ordini che sorvegliano e puniscono: possedere il proprio svanire.

Autore

Leonardo Strano

Leonardo Strano si è laureato in Filosofia dell’Esperienza Estetica con una tesi sull’inconscio ottico in Walter Benjamin e Jacques Tati (il suo regista preferito). Mentre prosegue gli studi in Teoria dell’immagine scrive per Filmidee, Pointblank e DinamoPress.

Il film

locandina Blackhat

Blackhat

Thriller - USA 2015 - durata 135’

Titolo originale: Blackhat

Regia: Michael Mann

Con Chris Hemsworth, Viola Davis, Wei Tang, Leehom Wang, John Ortiz, Holt McCallany

Al cinema: Uscita in Italia il 12/03/2015

in streaming: su Apple TV Amazon Video Rakuten TV