Un gruppo di poveri derelitti perennemente affamati (tra i quali spiccano Roberto Benigni, Ninetto Davoli e Franco Citti) è ricoverato in ospedale a seguito di una intossicazione alimentare, l’ennesima beffa ai danni dei loro stomaci: mangiano poco ma quelle poche volte o vomitano tutto, o se lo stanno solo immaginando o – come in questo caso – sarebbe stato meglio non aver mangiato affatto.

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Il minestrone

Appare loro un altro degente, interpretato da Giorgio Gaber, che dopo aver snocciolato numeri sulla malasanità del posto li convince a seguirlo verso una meta ignota, che poi risulta essere “l’estero” dove presumibilmente troveranno cibo o occasioni di procacciarne.

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Mentre camminano fanno proseliti e il gruppo sempre più numeroso ne incontra un altro che si dirige nella direzione opposta: “non c’è trippa per gatti” fa segno uno di loro. Ma Gaber e seguaci proseguono. Il paesaggio è innevato, sempre più astratto e sempre meno terreno e alla fine anche il neo-guru deve ammetterlo: alla domanda “Ma dove ci porti?” risponde “Ma che cazzo ne so”.

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Il finale di Il minestrone (1981), uno dei capolavori di un maestro ‘minore’ come Sergio Citti (a cui il Torino Film Festival 2023 dedicherà una rassegna, ma il film è disponibile su RaiPlay nella versione tv in 3 puntate) consegna la lunga e faticosa epopea della Fame allo sberleffo, dopo essere passati dalla metafora “pasoliniana” dell’inizio, al grottesco diffuso, al fantastico (come nelle scene oniriche ma non solo) fino alla delicatezza del finto pranzo in spiaggia. Molteplici registri differenti, dalla volgarità alla poesia (le definizioni di fame che Benigni propone ai suoi amici), dall’iniziale maltrattamento di un cane alla sua accoglienza tra i derelitti, riconoscendo nel “povero diavolo” a quattro zampe un fratello e non uno sfidante.

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Ma un unico ossessivo tema: la ricerca del cibo; i modi furbeschi per rubarlo, l’umiliazione di elemosinarlo, l’angoscia di sognarlo. Il patto siglato dai due senzatetto all’inizio (Citti e Davoli) con tanto di stretta di mano è un patto basato sulla fame, una fame che affratella il popolo invece di incattivirlo ed è qui la differenza di toni rispetto ai primi lavori del regista (in particolare l’agghiacciante esordio di Ostia, che metteva in scena addirittura la dissoluzione dell’amore fraterno). Tutto quello che accade è una variazione sul tema della ricerca di cibo, che pian piano diventa chiaro essere prima di tutto fuga dalla morte (e in fondo vivere è la funzione biologica del nutrirsi): dall’abbandono di una bara in un fosso, ai clienti di un ristorante toscano uccisi a fucilate quando non possono pagare, fino alla scena della donna anziana che compie una specie di danza macabra con un pollo in mano intorno ai suoi figli, e appunto il finale in cui il nuovo mentore convince gli accoliti a seguirlo spaventandoli con la prospettiva della morte imminente.

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E forse le montagne bianche che raggiungono non sono altro che il Paradiso, sfumata la possibilità della fuga all’estero (una fuga di stomaci vuoti più che di cervelli pieni), e i montanari che suonano sono cherubini. Si parte dalla spazzatura di una Roma deserta e triste, il rumore della gente che mastica a ricordarci che la fame è il più terreno dei desideri, ma lentamente si scivola nell’etereo: Citti è autore molto più complesso di quanto suggeriscono le sue ascendenze pasoliniane (costantemente ricordate dai critici). Nonostante Gaber sia una specie di Statua della Libertà con tanto di asta con le flebo al posto della fiaccola, il grido implicito “date a me gli affamati, i poveri, le masse”, la direzione del viaggio è sbagliata, come era vano il viaggio stesso fin dal principio perché non c’è speranza che i poveri mangino, tanto quanto è impossibile rispondere ai grandi quesiti (“Chi siamo? Dove andiamo?”). La fame è un problema esistenziale e metafisico, forse l’unico che conti nel mondo di Citti. E come tutta la metafisica la ragione non può risolverla, mentre l’arte costituisce solo un palliativo: nel caso del Minestrone la semplice e popolare risata liberatrice.

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Autore

Dario Denta

Nato a Bari nel 1994, ha studiato Matematica e Filosofia tra Perugia e Firenze, caporedattore de Lo Specchio Scuro, è uno dei conduttori del podcast di cinema Salotto Monogatari. Ha scritto su Shiva Produzioni, L’inutile, Ghinea, La Chiave di Sophia, agit-porn e Immoderati e ha dato un piccolo contribuito al Dizionario Mereghetti 2022. Si interessa di estetica del cinema e della videoarte.

Il film

Il minestrone

Grottesco - Italia 1981 - durata 104’

Regia: Sergio Citti

Con Roberto Benigni, Franco Citti, Ninetto Davoli, Giorgio Gaber

in streaming: su Rai Play