Bud sta sull’uscio di casa e come sempre guarda le sue sorelle andare via. “Posso venire con voi?”, chiede con poca convinzione, “per favore fatemi venire con voi”. C’è poco da fare, non lo ascoltano quelle figure in lontananza. Chissà poi se ci sono davvero, sembrano quasi irreali mentre svaniscono dietro l’angolo, spegnendosi dietro a un taglio di luce. Il mondo là fuori, dopo la via, è pressoché ignoto per Bud. Lui sembra soffrirne, mentre lo immagina sedendosi alla finestra o aggrappandosi alla ringhiera del proprio sottoscala.

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Il lungo giorno finisce

Quando dondola ancora vestito con la divisa di scuola, e con le mani salde alla sbarra lancia i piedi in avanti, pare che la sua anima si proietti al di fuori, alla ricerca dei propri amori o in fuga dai propri destini. In un dolce carrello orizzontale il buio del sottoscala si trasforma allora nella luce soffusa di una sala cinematografica, con il pulviscolo luminoso che sorpassa le teste degli spettatori, abbracciando il timido fumo prodotto dalle sigarette;

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Il lungo giorno finisce

poi nella navata di una chiesa gremita, dove gli stessi spettatori si inginocchiano al suono della campanella più sacra e nella consolazione domenicale dell’ostia; infine nella corsia di un’aula scolastica, impaurita dalla voce del severo professore che mette in riga e consiglia la buona notte.  Per poi tornare al solito sottoscala.

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Il lungo giorno finisce

Bud lo guarda dalla finestra, e nel suo sguardo c’è un nuovo abbandono: il suo amico corre via insieme ad un altro bambino verso il cinema, e, come confida triste alla madre, lui non li seguirà. Mentre la donna inizia a cantare per allietare le faccende di casa (“If I had my life to live over, I would still do the same things again, I would still want to roam near the place we called home, where my happiness never would end”), lui si ritira nella cantina, piangendo.

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Il lungo giorno finisce

Nel buio minerale rilasciato dal carbone anche l’ultimo spiraglio di luce si assottiglia, trasformandosi in una serie di susurri: quello di Orson Welles in L’orgoglio degli Amberson, narratore delle punizioni subite dal personaggio di George Minafer; del militaresco professore d’accademia, intento a spiegare il quarto tipo d’erosione della materia; della Signora Havinsham, distrutta dalla delusione in Grandi speranze di David Lean. Come trasportato in aria dalle voci distanti, Bud ora sembra sospeso sulla seggiola di una sala cinematografica, da cui guarda un cielo notturno assieme al suo amico Albie.

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Il lungo giorno finisce

Una  luna “solo sveglia a metà” è davanti al loro sguardo e non è facile sostenerne il candore, che sembra spegnersi proprio quando pulsa con forza. “Alcune di quelle stelle sono morte, la loro luce è nata quando Gesù era vivo”, dice il protagonista al suo compagno ritrovato. Non sembra più un bambino, quanto piuttosto un adulto che guarda indietro all’interezza della propria infanzia come fosse una sola giornata. Ed è così che Terence Davies rappresenta i propri ricordi, stelle implose nella lontananza di un silenzio d’oro. Non c’è rabbia o disillusione nei suoi occhi. Per capirlo però bisogna tornare lì, al sottoscala.

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Il lungo giorno finisce

Se si riavvolgesse il carrello che chiude Il lungo giorno finisce, se si spingesse l’anima di Bud all’indietro di nuovo verso la finestra, l’orizzonte della luna sarebbe infatti lo stesso dell’alba invece del tramonto; il pianto del bambino il segno della nascita e non dell’erosione; il rimbombo in cantina delle voci il fondamento della casa e non il suo riparo illusorio; quella casa non più un luogo oscuro di rimpianto ma un ventre materno; il canto della madre una promessa di ritorno e non la certezza del distacco; l’ostia innalzata ai fedeli non un comando ma il segno che qualcosa attraversa il tempo; la luce del proiettore la prova che ciò che attraversa il tempo lascia una traccia. La finestra, lo schermo del cinema, non sarebbe un nostalgico scudo inspessito dalla timidezza dello sguardo, ma un varco di passaggio per la comprensione del mondo. E il film di Davies non solo una ricollezione crepuscolare o un affresco sociale, un’elaborazione cristologica e una rivendicazione queer, ma anche e forse soprattutto l’attestazione del cinema come ultima scrittura della reminiscenza - ultima possibilità per tornare a scrivere come Proust dopo che la psicanalisi sembrava averlo reso impossibile (perchè coscienza e memoria non sempre coincidono) e la teoria critica di Francoforte futile (perché gli stimoli dei nuovi media non generano ricordi). Tornare allo sguardo amorevole di Bud, in fondo, significherebbe anche augurarsi che negli ultimi momenti della sua vita, alla fine di un giorno finito troppo presto, Terence Davies, voce bianca del cinema inglese, abbia guardato ancora una volta dalla finestra.

Autore

Leonardo Strano

Leonardo Strano si è laureato in Filosofia dell’Esperienza Estetica con una tesi sull’inconscio ottico in Walter Benjamin e Jacques Tati (il suo regista preferito). Mentre prosegue gli studi in Teoria dell’immagine scrive per Filmidee, Pointblank e DinamoPress.

Il film

locandina Il lungo giorno finisce

Il lungo giorno finisce

Drammatico - Gran Bretagna 1992 - durata 85’

Titolo originale: The Long Day Closes

Regia: Terence Davies

Con Marjorie Yates, Leigh McCormack, Anthony Watson, Nicholas Lamont, Ayse Owens, Tina Malone