Guardare il finale di Vivere e morire a Los Angeles (1985), uno dei capi d’opera di William Friedkin, scomparso lo scorso 7 agosto, e guardarlo avulso dal resto del film è come guardare la seconda metà di Psyco: significa ignorare chi sia il protagonista. Ma se Janet Leigh, nel classico hitchockiano, muore a storia già avviata, molto prima della fine, in Friedkin il detective Chance (William Petersen) si perde solo gli ultimi fondamentali attimi della sua inarrestabile vendetta personale, e viene ucciso con uno sparo in faccia in una scena anti-climatica, decisamente agli antipodi rispetto all’omicidio nella doccia compiuto da Perkins en travesti.

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Vivere e morire a Los Angeles

Da lì in poi To Live and Die in L.A. (questo il titolo originale) dona centralità a Vukovich (John Pankow), collega di Chance, fino a quel momento personaggio alquanto marginale e all’apparenza lontano dallo spirito selvaggio e anarchico che serpeggia nelle vite degli altri abitanti della città degli angeli. Vukovich compie la vendetta di Chance uccidendo il luciferino artista falsario Eric Masters (Willem Dafoe) in una ecpirosi che non ha il sapore della redenzione né della purificazione.

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Vivere e morire a Los Angeles

Dopo l’omicidio guida verso casa dell’amante di Chance, informatrice della polizia, e le comunica che d’ora in poi lei “lavora” per lui. Il suo sguardo eccitato dalla scoperta del Male (tema cardine del cinema di Friedkin) si sovrappone alla figura di Chance, e l’unico poliziotto ancora puro si corrompe diventando l’esatto doppio del suo ambiguo e animalesco sodale; così si compie ancora una volta il ciclo e il film sembra avere un finale aperto: la morte e la vendetta a Los Angeles non avranno mai fine, così come non avevano un principio.

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Vivere e morire a Los Angeles

In pochi salienti minuti tutto il nichilismo che pervade l’opera divampa in una lingua di fuoco, come il cadavere di Masters, ma solo per illuminare della sua saturata luce rossa tutto l’orrore consumatosi fino a quel momento, poi torna il buio e non possiamo che immaginarne il prosieguo illimitato.

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L’identificazione con l’altro è la faccia speculare della produzione di doppi, arte nella quale eccelle Masters alle cui abilità Chance vuole mettere fine una volta per tutte, e non per senso di giustizia ma per vendicare la morte del suo anziano collega-padre Jim Hart; e il loro rapporto richiama in parte il confronto tra Pacino e De Niro in Heat - La sfida: tanto sobrio, calmo e affettivamente soddisfatto il criminale, quanto disadattato e emotivamente caotico il poliziotto. Eppure la martellante violazione delle regole e dell’etica sia professionale che umana, radice di quel nichilismo che per tutti i critici è lo spirito portante del film, a ben vedere mantiene intatte le norme tribali che regolano la selvaggia esistenza di chi vive in un mondo ormai votato all’anarchia.

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Difatti nessuno tradisce nessuno: Cody (John Turturro) non tradisce Masters nonostante egli tenti di ucciderlo, le donne-oggetto di Masters, attrici dei suoi porno amatoriali, sono congiunte da un legame di sorellanza e complicità inossidabile, anche nei confronti del loro “master” (nomen omen), lo stesso Vukovich non tradisce Chance pur non approvando i suoi metodi, e l’unico tradimento che sembra compiersi, quello dell’avvocato Grimes, si scopre essere un doppio gioco del falsario, l’ennesima contraffazione. La lealtà sembra quindi l’unico valore inalterato nel caos che scorre “contromano” (emblematica la corsa in macchina con polizia che insegue ignara altra polizia). Lealtà che nel finale si spinge fino alla totale identificazione tra i due detective caratterialmente agli opposti.

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Vivere e morire a Los Angeles

È lecito allora chiedersi, in un salto concettuale “oltre” il testo, con chi potrebbe mai identificarsi l’autore, nel marasma di doppi creato adattando il romanzo iperrealistico di Gerald Petievich. Come nota acutamente Alberto Libera su Lo Specchio Scuro, il nome di Friedkin nei titoli di testa appare nel momento in cui Masters, pittore prima ancora che criminale, srotola una delle sue tele sul pavimento dello studio. Il personaggio di Dafoe odia e ama la sua arte, che siano quadri o denaro è disposto a bruciarli quando non ne è soddisfatto e persino se sono finiti e compiuti: in una scena, completamente nudo, brucia centinaia di banconote perché sono state “toccate” da persone che lo disgustano, e alla fine dà fuoco al suo intero magazzino morendo insieme ai suoi artefatti.

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Vivere e morire a Los Angeles

Masters sembra quindi respingere l’idea che le sue opere possano sopravvivere nel mondo senza esserne inquinate, fornisce una idea di mondo come qualunque artista, idea molto vicina a quella dello stesso Friedkin. Distrugge l’arte perché la ama e non solo perché la odia. E produce denaro forse proprio perché vuole dichiararne l’assenza di valore, ci lotta come un regista lotta coi finanziamenti necessari per raccontare le sue storie, vittima di eros e thanatos (l’ultima volta che lo vediamo è in uno dei suoi filmini erotici, attraverso uno schermo, nell’atto di metteur en scene) se non di hybris, ed è destinato a soccombere nella ricerca della perfezione. Vivere e morire a L.A. si chiude con una tripla identificazione: Vukovich con Chance, Masters corpo morto tra i cadaveri della sua arte, e Friedkin con lo stesso Masters. Un po’ come se Hitchcock si fosse sdoppiato in Norman Bates.

Autore

Dario Denta

Nato a Bari nel 1994, ha studiato Matematica e Filosofia tra Perugia e Firenze, caporedattore de Lo Specchio Scuro, è uno dei conduttori del podcast di cinema Salotto Monogatari. Ha scritto su Shiva Produzioni, L’inutile, Ghinea, La Chiave di Sophia, agit-porn e Immoderati e ha dato un piccolo contribuito al Dizionario Mereghetti 2022. Si interessa di estetica del cinema e della videoarte.

Il film

locandina Vivere e morire a Los Angeles

Vivere e morire a Los Angeles

Noir - USA 1985 - durata 114’

Titolo originale: To Live and Die in L.A.

Regia: William Friedkin

Con William Petersen, Willem Dafoe, John Pankow, John Turturro, Debra Feuer, Darlanne Fluegel