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Francois Truffaut raccontato da Madeleine Morgenstern (una che lo conosceva bene)
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“Non si finisce mai con l’infanzia e le storie d’amore…”  - ripeteva spesso François Truffaut – “Forse perché non ho avuto una vera madre ho sempre considerato le donne come qualcosa di misterioso, magico, inaccessibile. E l’infelicità, la solitudine dei ragazzi è la cosa che mi tocca  di più al mondo  perché la mia adolescenza è stata un disastro. Ma il fatto di aver avuto un’infanzia infelice – tutti gli artisti  dovrebbero averne una così – non è una ragione per farlo pagare agli altri per tutta la vita”.

Così Aldo Tassone apriva la sua intervista a Madeleine Morgenstern, chiamata in causa in occasione di “France Cinema 1993” per  ricordare attraverso le sue parole e le sue memorie, e quindi in maniera più diretta e personale, la vita, i traumi segreti, e il percorso artistico di Truffaut, uno dei più importanti e singolari registi del secolo scorso, e quello che forse meglio di ogni altro ha saputo rappresentare i disagi, le  ferite e i traumi  dell’adolescenza (Les quatre-cents coups, L’enfant savage, L’argent de poche), ma che ci ha regalato anche dei memorabili ritratti  di donne tanto appassionate quanto assetate d’assoluto (Jules et Jim, La Peau douce,  La Mariée était en noir, La Sirène du Mississippi, Les deux anglaises et le Continent, L’Histoire d’Adèle H., La Femme d’à côte) di palpitante impatto emotivo.

 

I quattrocento colpi (1959)

di François Truffaut con Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier

 

 

Il ragazzo selvaggio (1969)

di François Truffaut con Jean-Pierre Cargol, Françoise Seigner, François Truffaut

 

 

Gli anni in tasca (1976)

di François Truffaut con Nicole Felix, Chantal Mercier, Jean-François Stévenin

 

 

Jules e Jim (1962)

di François Truffaut con Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre, Marie Dubois

 

 

La calda amante (1964)

di François Truffaut con Françoise Dorléac, Jean Desailly, Nelly Benedetti

 

 

La sposa in nero (1967)

di François Truffaut con Jeanne Moreau, Michel Bouquet, Jean-Claude Brialy, Michael Lonsdale

 

 

La mia droga si chiama Julie (1969)

di François Truffaut con Catherine Deneuve, Jean-Paul Belmondo, Nelly Borgeaud

 

 

Le due inglesi (1971)

di François Truffaut con Jean Pierre Léaud, Kika Markham, Stacey Tendeter, Irène Tunc

 

 

Adele H., una storia d'amore (1975)

di François Truffaut con Isabelle Adjani, Bruce Robinson, Sylvia Marriott

 

 

La signora della porta accanto (1981)

di François Truffaut con Gérard Depardieu, Fanny Ardant, Henri Garcin

 

Sappiamo che Truffaut non amava rimestare negli anni difficili della sua adolescenza, per altro così pudicamente rievocata proprio con Le quatre-cents coups (le sue parole citate in apertura, ne sono una inoppugnabile testimonianza),  ma proprio perché è stato quello un periodo particolarmente travagliato e per molti versi fondamentale per lo sviluppo evolutivo della  sua personalità anche artistica  e per la definizione della sua poetica (non a caso il suo alter ego Antoine Doinel interpretato da Jean-Pierre Léaud,  dopo Le quatre-cents coups sarà il protagonista di altre quattro pellicole che si svilupperanno progressivamente per seguirne il percorso di vita fino alla maturità) era inevitabile che proprio da quel titolo  e da quella per molti versi drammatica esperienza infantile, prendessero l’avvio le appassionate rimembranze della Morgenstern, la compagna della sua vita, e quindi davvero una “che lo conosceva bene”, che ripongo integralmente qui di seguito (per inciso, ricordo che la Morgenstern era anche la figlia del produttore ebreo di origine ungherese che con il suo sostegno economico, permise a Truffaut di girare il suo  cortometraggio d’esordio e il suo primo film).

 

 

La piccola ladra (1988)

di Claude Miller con Charlotte Gainsbourg, Didier Bezace, Simon de La Brosse, Clotilde de Bayser

 

NeLe quatre-cents coups”, suo film d’esordio, François aveva detto solo una parte della verità e si riprometteva un giorno di ritornarci sopra in maniera molto più cruda, un po’ sulla falsariga de “La Petite voleuse” di cui scrisse la sceneggiatura, e che più tardi il suo allievo Claude Miller portò sullo schermo. Poi per una ragione o per un’altra non lo ha fatto, anche se ha continuato più o meno a girarci spesso intorno.

Nella vita di François, c’è stato infatti un vero e proprio trauma originale, un’autentica “nevrosi d’origine” che riguarda gli anni della sua infanzia, che ha lasciato un segno indelebile nella sua esistenza e nella sua opera di narratore.

E’ un segreto doloroso che François ha voluto nascondere fino alla fine, cioè fino alla morte dei suoi genitori (la madre è morta molti anni fa, a 51 anni come François; il “padre” è scomparso nel 1991). Ora che non ci sono più nessuno dei due e purtroppo non c’è più nemmeno François, non c’è alcuna ragione per  tacere ancora. Ho deciso allora di parlare perché questa rivelazione sui primissimi anni della sua esistenza, proietta una luce nuova sui suoi film, non solo quelli (il ciclo Antoine Doinel) apertamente autobiografici, ma su tutta la sua straordinaria produzione artistica. Avete fatto caso all’importanza che ha nei film di François il problema dell’identità, della ricerca e del rifiuto delle radici?

Adéle Hugo rinnega un padre troppo imponente e distante e firma con un altro nome; Antoine Doinel in “Baisers volés” ripete ossessivamente per ben due minuti di seguito, con una rabbia crescente, il proprio nome guardandosi allo specchio, come a chiedere a se stesso “chi sono?”; la protagonista de “La Sirène du Mississippi” è orfana, esattamente come lo è il personaggio interpretato da  Marie Dubois  in “Tirez sur le pianiste” e il “ragazzo selvaggio” abbandonato dalla nascita in una foresta dell’Aveyron…

 

Baci rubati (1968)

di François Truffaut con Jean-Pierre Léaud, Delphine Seyrig, Michel Lonsdale

 

 

Tirate sul pianista (1960)

di François Truffaut con Charles Aznavour, Marie Dubois, Albert Rémy, Nicole Berger

 

Avete notato come Antoine Doinel e altri protagonisti maschili siano sempre alla frenetica ricerca di una donna ideale che prenda il posto di una madre evidentemente assente o latitante? La spiegazione va ricercata nel ruolo svolto da Janine de Monferrand, la madre di François, prima e dopo la nascita di  quel figlio indesiderato e dimenticato. Dunque il “Rosebud” del “cittadino” François (Truffaut è un cognome “abusivo” come ormai sappiamo) si chiama Janine.

Janine de Monferrand  (François aveva  usato qualche volta quel cognome per firmare i suoi primi articoli come  critico cinematografico) era una ragazza formosa e provocante. A diciott’anni, nel 1932, rimase incinta. Avrebbe voluto abortire, ma i Monferrand – una famiglia di militari conservatori – si opposero. Come si faceva all’epoca con le ragazze madri nella buona società, Janine venne per questo internata in una sorta di convento per “traviate”, mentre François, immediatamente separato dalla madre, fu spedito in campagna dalla nonna subito dopo la nascita. La madre non lo vedrà dunque più per ben cinque anni, con le conseguenze che si possono ben immaginare, anche perchè due  anni dopo la venuta al mondo di quel bambino indesiderato, Janine si sposerà, ma non con il padre del bambino, bensì con un bravo disegnatore (Roland Truffaut), ben visto dai Monferrand e da loro designato a tale scopo per coprire lo scandalo.

Per non destare sospetti  nel ragazzo però, sulle carte ufficiali la data della sua nascita venne posticipata di due anni, e quando più tardi François scoprirà la verità sarà un trauma, una ferita che nulla e nessuno potrà mai rimarginare del tutto, quell’immaginarsi  figlio di qualcun altro.

E’ nel 1937 che la nonna materna muore, e François viene così catapultato nella famiglia Truffaut, ma ormai abituata alla sua assenza, la madre continuerà a considerarlo come un estraneo. François non viene ovviamente maltrattato come Davide Copperfield, ma l’indifferenza della madre avrà un effetto addirittura peggiore di quello delle percosse: non lo chiama mai per nome (dice “le petit, le grosse”, il pupo), sparisce nei week-end lasciando François solo e spesso senza provviste (per mangiare e procurarsi gli spiccioli per andare al cinema – autentico sostituto della famiglia – François deve ingegnarsi come può, vedi appunto certe sequenze de “Le quatre-cents coups), non fa misteri delle sue avventure con altri uomini nemmeno col marito (uomo comprensivo e conciliante) che è innamorato pazzo di lei e tutto accetta, spesso gira per casa mezza nuda sotto gli occhi del figlio come per provare a se stessa che quell’ingombro  non esiste proprio (c’è una scena analoga ne “L’Homme qui aimait les femmes” che rimanda direttamente a questa esperienza).

 

L'uomo che amava le donne (1977)

di François Truffaut con Charles Denner, Brigitte Fossey, Leslie Caron

 

Ci si domanda spesso come mai nei film di François i protagonisti leggano tanto: leggere era l’unica cosa che François poteva fare da bambino: la madre gli impediva di giocare, di parlare, di muoversi.

A contatto con una madre così bella e indifferente, è naturale che François si sia fatta una immagine della donna molto particolare: e infatti i suoi film pullulano di donne “magiche”, inaccessibili, ovvi sostituti o surrogati della figura materna (Delphine Seyrig in “Baisers volés”, è una di queste tanto per citare un esempio). Come fa Charles Denner ne “L’Homme qui aimait les femmes”, anche François cercherà per tutta la vita nelle donne “della porta accanto” una figura sostitutiva di sua madre, una madonna dolce e comprensiva che gli consenta magari persino di continuare ad andare a caccia di altre magiche creature….

Il padre? Beh… è evidente che il dubbio sull’identità del padre tormentò François durante tutta la sua adolescenza. Se ne preoccupò un po’ meno a partire dall’epoca dello sfortunato ingaggio nell’esercito (per sfuggire a una pena d’amore, vedi ancora “Baisers volés”) e dall’incontro provvidenziale con André e Janine Bazin, che lo prenderanno in casa per due anni sostituendo egregiamente la famiglia. In una lettera dell’epoca, François scriveva così: “Hanno fatto di più per me i Bazin in quindici giorni che i miei in tutta la vita!”,

Un giorno, all’epoca di “Baisers volés”, e quindi intorno al 1968, deciso a svelare definitivamente l’enigma del padre, François incaricò un detective privato di un’agenzia (curiosamente aveva lo stesso nome – Blady – di quella in cui in quel film lavorava Antoine Doinel), e così scoprì la verità: suo padre faceva il medico in provincia, era divorziato, ed era ebreo! Ho ancora negli archivi il referto dell’Agenzia Blady. I Monferrand non avevano voluto un ebreo in casa, e così inguaiarono Janine e François per tutta la vita…

Il fatto di avere un padre ebreo non dispiaceva a François, anzi la scoperta lo riempì di soddisfazione: tutto, tranne una famiglia come i Monferrand!. “Se tuo padre l’avesse saputo, non si sarebbe opposto così a lungo al nostro matrimonio” commentò ridendo. I miei – è vero – avrebbero voluto che sposassi un ebreo. Il destino ha esaudito i loro voti.

Dopo lunghe esitazioni (una volta lo seguì da lontano) François decise però di non allacciare i rapporti con il padre ritrovato e non si “rivelò”: era davvero troppo tardi per pensare di poter costruire qualcosa, e poi non voleva creare dei problemi al padre legale Roland Truffaut.

E’ un vero peccato che il padre ebreo di François non abbia mai saputo di avere un figlio come lui… Certo, a mia figlia Ewa – fotografa – dà un po’ fastidio portare un cognome fittizio, chiamarsi Truffaut invece che Lévy (il cognome del padre vero). Ma Truffaut è ormai nella storia del cinema…. Facciamo finta allora che sia un nome d’arte” e ci sentiremo così un po’più riappacificati.

 

La camera verde (1978)

di François Truffaut con François Truffaut, Nathalie Baye, Jean Dasté, Jean-Pierre Moulin, Antoine Vitez

 

Volevo anche sfatare un luogo comune: “La chambre verte” non è un film che preconizza la sua prematura dipartita, anche se per il troppo fumo aveva già qualche serio problema di respirazione, e ripeteva spesso frasi come “non morirò vecchio” che pronunciava  però  senza alcun tono tragico o rammaricato. Il film gli fu dettato invece dal bisogno di “sentirsi vicino” a certi grandi amici scomparso (Hitchcock, Rossellini, Cocteau, mio padre…), persone che avevano contato molto per lui, e che in  qualche modo facevano davvero parte della sua famiglia molto più di quella naturale, ma riteneva anche che il tema della fedeltà al ricordo dei morti non fosse stato molto trattato nel cinema fino a quel momento. Era colpito dal fatto che sul suo carnet d’adresse vedeva allungarsi ogni anno la lista dei morti e aveva un assoluto bisogno di confrontarsi con tale argomento… Tenne proprio per questo a impersonare lui stesso il ruolo del protagonista, quasi a sottolineare che il tema lo toccava da vicino. Si rendeva conto della difficoltà di un’impresa del genere,tanto che mise l’aggettivo “verte” nel titolo non solo  per scaramanzia, ma anche nel tentativo di sollevare il morale dello spettatore e di rendere meno arduo l’approccio. Nonostante  il tema funebre (la lotta fra sentimenti passeggeri e definitivi) posso assicurare però che si è divertito molto a realizzare questo film, che poi andò malissimo come incassi, ma che resta uno dei suoi più personali risultati.

Gli scrittori che hanno avuto maggiore influsso sul suo cinema, sono stati certamente Jacques Audiberti e Henri-Pierre Roché,  di cui adattò addirittura be due romanzi per lo schermo (“Jules et Jim”, “Les deux anglaises”). E di Lèautaud conosceva bene il voluminosissimo “Journal”: ne parla con ammirazione Antoine Doinel all’inizio de “L’amour en fuite” mentre riceve i dodici volumi del “Journal” in regalo dall’amante Sabine.

 

L'amore fugge (1979)

di François Truffaut con Jean-Pierre Léaud, Marie-France Pisier, Claude Jade

 

Questi autori li sentiva vicini perché nella loro vita la donna aveva avuto un’importanza capitale e la consideravano come qualcosa di magico e trovava molte affinità con il suo sentire. La compagna di Aznavour in “Tirez sul le pianiste”, interpretata da Marie Dubois, ha il nome – Lena – di un personaggio di Audiberti.  La “tirade” sulle donne che fa il patron del bistrot in una pausa della sua lotta con Aznavour in cortile (che non ha nulla a che vedere con l’azione, e sembra  cadere inopinatamente proprio dal cielo) è puro François e puro Audiberti, qualcosa che li fa avvertire come “complementari”. Nella “Siréne du Mississippi”, Catherine Deneuve abita in” square Audiberti” (e François aveva pensato a un certo punto di mettere addirittura in scena  una sua pièce), mentre ne “La chambre verte”, tra i ritratti appesi nella cappella, c’è anche il suo (accanto a quelli di Maurice Robert, Cocteau, Radiguet, Proust, Jeanne Moreau da piccola, Henry James… e di altri che sono volutamente falsi, non si riferiscono a personaggi effettivamente esistiti). Esattamente come ha fatto Audiberti, anche François ha passato la sua vita a cercare di verificare se le donne erano davvero magiche, vive, e forse era proprio questo considerarle magiche, che gli permetteva di avere un buon successo con loro.

Anche Roché, così come il protagonista di “L’Homme qui amait les femmes”, teneva un diario. In quelle pagine, solo in parte pubblicate, Roché  era a volte così crudamente fisico che a un certo punto la dattilografa  si rifiutò di continuare a ricopiarle (un episodio che François ha riportato pari pari proprio nel succitato titolo). Roché registra anche brevemente il suo primo incontro con Truffaut avvenuto nel 1956 con questo sibillino commento: “J’ai rencontré F.T., jeune, joli, vivace” (quei tre aggettivi descrivono perfettamente il giovane Truffaut: io l’ho conosciuto proprio in quel periodo a Venezia dove ero stata mandata da mio padre per vedere la Mostra, e François era lì come critico: qualcuno ci presentò e più tardi ci rincontrammo a Parigi… ed era proprio così come lo ricorda Roché, con quei termini sintetici e “pertinenti”). Roché ha scritto anche  un romanzo rimasto incompiuto che aveva molto colpito la fantasia di Truffautl cui protagonista era ispirato a Marcel Duchamp.

Trai registi si sa invece (e io posso solo confermarlo) che le sue predilezioni andavano a Chaplin, Renoir, Ophuls, Hitchcock al quale dedicò un bel libro di interviste, Rossellini, Bergman, Pagnol… Di Hitchcock però non condivideva l’austera visione puritana (Charles Laughton che dice freddamente alla moglie: “No, la signora Paradine va impiccata” tanto per fare un esempio cincreto): François era più innamorato della vita, meno pessimista.

 

Il caso Paradine (1947)

di Alfred Hitchcock con Gregory Peck, Alida Valli, Charles Laughton, Ann Todd

 

 Direi  che Hitchcock  non ha comunque avuto alcuna influenza sul cinema di François a livello tematico, forse  proprio perché François non aveva le ossessioni né il senso di colpa che turbavano i sogni e le fantasie di Alfred. Di Hitchcock  ammirava soprattutto  il magico “savoir-faire”, la capacità che aveva di raccontare per immagini, di giocare con il pubblico e prenderlo per mano con dei sistemi tanto semplici quanto intelligenti. Dilatando i tempi, anche barando a volte, nel suo cinema, le cose finivano per imporsi per la sola forza delle immagini, sia pure sofisticate, e questo lo trovava straordinario. Se Hitchcock sapeva così bene giocare con la paura è segno che era uno che la conosceva mi ripeteva spesso…

Forse ripensandoci qualche traccia c’è:  il film più hitchcockiano che François ha fatto  senza dubbio è “La peau douce”: lo ricorda nel taglio, nella costruzione… purtroppo non gli è andata bene però, perché è stato uno dei sui maggiori insuccessi”.  (Madeleine Morgenstern).

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