Quando in Zabriskie Point Daria raggiunge finalmente la villa del suo boss in Arizona, è sconvolta per aver appena appreso della morte di Mark. Come in trance, la ragazza entra nella proprietà da un ingresso secondario, supera una piscina, si introduce in uno stretto passaggio tra le rocce, poi raggiunge la passerella sospesa attraverso cui accederà agli interni della struttura.

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Quella casa da cui Daria prima fuggirà e che poi immaginerà esplodere, è una costruzione tardo modernista sita alla periferia di Carefree, a nord-est di Phoenix, ispirata alla celeberrima Fallingwater di Frank Lloyd Wright.

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Sorge su una collina così alta da sembrare un punto di osservazione, in un luogo anticamente utilizzato come accampamento dalle tribù native della zona, e la sua struttura si compone per circa il 60% di massi vecchi 1,6 miliardi di anni.

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È la Boulder Reign House firmata da Hiram Hudson Benedict, un architetto poco noto, privo di istruzione universitaria ma dotato di grande fiuto commerciale, che lavorò per alcune celebrità dell’epoca (tra cui Sidney Chaplin e Joanne Dru) e che, in società con John Ireland, realizzò un enorme complesso residenziale il cui concept sembra rifarsi a quello dello spot della compagnia immobiliare che il personaggio di Rod Taylor ammira nel film: sontuosi alloggi nel deserto circondati da piscine, campi da tennis e da golf e completi di cucine attrezzate.

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Infaticabile costruttore di grandi magazzini e centri commerciali, Benedict – che con lo scenografo Dean Tavoularis contribuì a sviluppare gli esterni del modello in scala che viene fatto detonare nel film – non era evidentemente Wright, e anzi ogni paragone sarebbe ingeneroso. Lo si nota da soluzioni estetiche di dubbio gusto, quando non addirittura cheap: come la già citata passerella con il passamano in legno retta da incongrui sostegni in acciaio; o la facciata d’ingresso decorata con pietre banalmente levigate, che cozzano con la maestosità delle enormi, ancestrali rocce da cui è circondata (e su cui si regge) l’abitazione; come l’arco a tutto sesto che conduce all’interno o, ancora, come il tremendo timone posto sulla rampa di scale che immette alle stanze interrate.

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La Boulder Reign – che fu in seguito acquistata dal proprietario del più grande supermercato di Phoenix – è l’interpretazione, smaccata e volgare, di un capolavoro dell’architettura da parte di un self made man privo di istruzione. Pura chincaglieria progettuale che Daria sogna legittimamente di veder deflagrare da ogni angolazione possibile.

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Il discorso potrebbe esaurirsi qui, se non fosse che, in rete, alcuni articoli attribuiscono la paternità della casa a un architetto (e scultore, scrittore, urbanista, teorico, artista) che da Benedict non potrebbe essere più distante: l’italiano Paolo Soleri, il quale, dopo la laurea al Politecnico di Torino, si trasferì in Arizona (da qui forse l’equivoco), dove lavorò per due anni nella scuola di Wright a Taliesin West prima di abbandonare il Maestro per divergenze legate a concezioni urbanistiche inconciliabili.

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Leone d’Oro alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia nel 2000, Soleri realizzò pochissimi progetti (tra cui la Fabbrica di Ceramiche Artistiche Solimene a Vietri sul Mare), ma fu un attivissimo utopista, che prima creò, nel 1965, nei pressi di Scottfield, la Cosanti Foundation (una scuola/cantiere in cui studenti e architetti tentarono di dare vita a una comunità che potesse vivere dei manufatti da loro stessi prodotti); quindi, rifacendosi ai dettami del concetto di arcologia (da lui stesso coniato contraendo i termini ‘architettura’ ed ‘ecologia’), diede vita nel 1970 a una vera e propria città sperimentale. Battezzata Arcosanti, si tratta di un campionario di edifici che sorgono in un’area desertica a circa 100 chilometri da Phoenix; un’anti-metropoli pensata per essere totalmente sostenibile e in armonia con l’ambiente, dove Soleri ha vissuto fino all’anno della sua morte, il 2013. E se è vero che, nel 2020, era stato realizzato appena il quattro per cento degli ambienti pensati per accogliere i cinquemila residenti auspicati dall’architetto, è anche vero che la sua utopia è stata potente e immaginifica, tanto da ispirare artisti come Moebius, George Lucas e Coppola, con cui ha collaborato in qualità di consulente per il suo Megalopolis. Così, dalla più classica delle fake news da web è nato un gigantesco what if: come sarebbe stata l’opera realizzata da Soleri per Zabriskie Point? E Antonioni avrebbe fatto esplodere anche quella?

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Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina Zabriskie Point

Zabriskie Point

Drammatico - Italia/USA 1970 - durata 112’

Titolo originale: Zabriskie Point

Regia: Michelangelo Antonioni

Con Mark Frechette, Daria Halprin, Rod Taylor, Paul Fix, Bill Garaway, G.D. Spradlin

in streaming: su Apple TV