Nonostante una ricchezza scenografica che lascia stupefatti a ogni visione – tra case romane, piazze e hotel parigini (ma il Palais d’Orsay che apre il film è un’invenzione: l’insegna indica un accesso secondario alla gare d’Orsay) e una Ventimiglia reimmaginata nei locali di una villa di Santa Marinella – quando si pensa ai luoghi di Il conformista la memoria cinefila corre immediatamente all’EUR. Eppure le scene ambientate nel complesso urbanistico della Capitale sono in realtà poche e piuttosto brevi: quella in cui Marcello Clerici/Trintignant si reca al Ministero perché gli venga ratificato l’incarico di uccidere il professor Quadri, e quella della visita al padre internato.

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Il conformista

Entrambe sono girate in uno degli edifici più straordinari del quartiere (originariamente battezzato E42 perché fu scelto per costruirvi la sede dell’Esposizione Universale di Roma del 1942, mai svoltasi a causa della guerra), il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi progettato da Adalberto Libera e realizzato tra il 1938 e il 1954. Nato da un compromesso – le esigenze del regime erano quelle di divulgare un’idea architettonica monumentale e neoclassica che rinverdisse i fasti della Roma imperiale, quelle di Libera di consegnare un’opera che tenesse conto di istanze contemporanee quali quelle delle avanguardie razionaliste – il Palazzo dei Congressi è un capolavoro capace di superare di slancio ogni moda e tendenza. E questo nonostante presenti concessioni alla grandeur fascista, espresse per esempio dal colonnato frontale che l’architetto riuscì a contenere attribuendovi una funzione di sostegno piuttosto che meramente ornamentale. 

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All’interno del Palazzo sono presenti diversi spazi con svariate destinazioni d’uso: il Salone della Cultura, concepito come un cubo sovrastato da una cupola a crociera e con al fianco gli Ambulacri della Pittura e della Letteratura (nel film sono i luoghi in cui è ricostruito il Ministero), i foyer Kennedy e dell’Arte, l’Auditorium e la Terrazza, quest’ultima scelta come immaginifico set per il sanatorio in cui è costretto il padre di Clerici.

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Nella prima delle due scene in cui si riconosce la struttura dell’EUR, una ripresa leggermente dall’alto mostra Marcello percorrere un vasto pavimento di marmo fino a raggiungere un’enorme scrivania che troneggia al centro del locale. L’inquadratura successiva permette di notare come la forma cubica del Palazzo generi al suo interno un volume libero, in cui le scale e i ballatoi sono collocati in prossimità delle sue pareti interne. Nel percorso compiuto dall’uomo all’interno del Ministero, spicca la presenza asfissiante del travertino, impiegato per rivestire pareti, scalinate e pavimenti.

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Pietre e marmi tornano a occupare l’orizzonte visivo nella sequenza del manicomio ricreato nella citata Terrazza, dove la successione a perdita d’occhio delle panche su cui riposano i pazienti definisce uno spazio quasi metafisico. Bertolucci utilizza i volumi squadrati dell’estetica di regime sia per contrapporli agli interni caldi, scapigliati e bohémien della Parigi del Fronte Popolare, sia per conferire a quei volumi una valenza che si direbbe psicanalitica.

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Perché è proprio a quella geometria, così rigida e limpida, che si affida Clerici nel tentativo di raggiungere una ‘normalità’ che non sa definire (e di cui chiede infatti conto all’amico Montanari) e che gli viene continuamente negata: da un padre pazzo, da una madre dissoluta, dalla sua possibile omosessualità repressa, da una moglie libertina che addirittura lo sposa da ‘non vergine’. Normalità come concetto oscuro, inafferrabile e frustrante, a cui il protagonista aspira per diventare un uomo invisibile, il conformista del titolo, e che rincorre vanamente nel nitore ‘ortogonale’ di una serie di rette che si rincorrono, parallele e perpendicolari.

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Come quelle presenti nell’incipit sulle pareti dell’EIAR, alle spalle di un terzetto che si esibisce in una canzonetta mentre l’uomo attraversa lo schermo da una parte all’altra, come se camminasse su un binario (ancora una retta) invisibile. Normalità come sinonimo di una simmetria in grado di ingabbiare il caos, di trattenere la follia ed espungere il fuori norma. Una simmetria che si smarrisce già nel passaggio da Roma a Parigi, e che poi si sgretola fino a deragliare nel finale, in una Capitale tutt’altro che imperiale, vitale ma marcescente. Una città di rovine, di pareti che sorreggono solo se stesse, di gradoni sbeccati, dove una folla festante ‘attraversa’ letteralmente Clerici lasciandolo solo, poggiato a un graticcio mentre si volta a rivolgere uno sguardo (desiderante?) a un ragazzo di borgata intento a far suonare un grammofono.

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Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina Il conformista

Il conformista

Drammatico - Italia 1970 - durata 116’

Regia: Bernardo Bertolucci

Con Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Pierre Clementi, Gastone Moschin, Enzo Tarascio

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