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Isabelle

Regia di Ben Sombogaart vedi scheda film

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La recensione su Isabelle

di OGM
6 stelle

Questo film non ce la fa. Né a costruire il mito della bellezza, né a distruggerlo. Il contrasto tra le due protagoniste, Isabelle Bos, un’avvenente attrice di grande successo e Jeanne Birot, una barista di paese dall’aspetto mostruoso, non basta a mettere in discussione l’effimero, benché accreditatissimo valore dell’apparenza. Non sappiamo se dal romanzo di Tessa de Loo si potesse tirar fuori di più, quanto a sostanza; però il cinema ha il potere di arricchire anche i contenuti più convenzionali con la potenza delle immagini, avvalendosi di quella terza dimensione che si estende oltre la parola, ed è la profondità del non detto. In questo caso, però, il messaggio è troppo esplicito e scontato. Il brutto anatroccolo rapisce per invidia lo splendido cigno, lo tiene segregato in una cantina e lo fa lentamente morire di fame. E intanto lo dipinge: lo costringe a posare quotidianamente, per ritrarre i vari stadi del suo deterioramento fisico. La prigioniera cerca di salvarsi convincendo la sua carceriera che essere attraenti è una disgrazia, perché induce gli altri a fermarsi al fascino della superficie, anziché apprezzare la persona in quanto tale. Senza contare che far innamorare gli uomini a prima vista può avere conseguenze fatali, rovinando amicizie e rapporti familiari. Sono i classici retroscena della vita della diva unanimemente acclamata ma infinitamente infelice. Inutile riproporceli in questa salsa dal sapore indeciso, striata di un maledettismo artistico che calca un po’ troppo la mano sugli stereotipi del filone (l’infanzia segnata dalle tragedie, l’amore per la tassidermia, l’interesse per i processi post mortem). Peccato, soprattutto, per quel confronto tra gli estremi opposti della femminilità affidato ad un chiacchiericcio donnesco che non attinge al pensiero e non arriva a farsi dramma. Eppure la storia aveva in sé le potenzialità dirompenti della follia creativa, della tensione tra vittima e carnefice, dello splendore che, vedendosi sfiorire e venendo umiliato, finisce per riflettere sulla reale consistenza della propria fortuna. Invece la sceneggiatura di Marieke van der Pol si accontenta di parlarci di odio (passeggero) e di (finto) amore, con qualche cenno al tema dell’ossessione come effetto collaterale della solitudine. Il chiaroscuro è malinconico e decadente, però poco pregnante, come fosse la lontana proiezione di una vecchia favola. Di questa rimane soltanto il triste duello fra le due regine, una buona e una cattiva, entrambe segnate dalla stanchezza e dalla convinzione di essere ugualmente sventurate ed incomprese, in un mondo che si limita a guardarle, senza mai andare a fondo della questione. Il loro comune problema suona un po’ démodé, forse perché risulta troppo semplicistico in un’epoca in cui i conflitti tra i sessi si sono trasferiti, dalla primitiva competizione tra il bianco della lungimiranza e il nero della miopia, al complesso gioco di sfumature in cui si articola il variegato spettro delle ambizioni individuali. I mezzi toni rimangono fuori dalla scena, poiché questo film ci vuole appassionare ai consueti, ormai logori paradossi: donna desiderabile ma incapace, donna repellente però talentuosa. Tali cliché, a onor del vero, sono portati sullo schermo con grande vigore espressivo, scolpiti nella carne e sostenuti dalle incisive interpretazioni di Halina Reijn e Tineke Caels: la regia di Ben Sombogaart spreme il testo fino all’ultima goccia, cercando di fornire la dignità di icone universali a quei personaggi dai ruoli rozzamente plasmati nel pregiudizio. È questa l’unica, non trascurabile, forza di un’opera che, per il resto, si adagia sul ritmo della solita ballata del bene e del male, con una morale che si risolve nell’invito a cancellare tutto, inneggiando al miracolo di saper ricominciare da zero.

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