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Soundless Wind Chime

Regia di Kit Hung vedi scheda film

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La recensione su Soundless Wind Chime

di spopola
8 stelle

Struggentemente poetico fino dal titolo, Soundless Wind Chime (traducibile in italiano come Il silenzioso rintocco del vento), è lo straordinario debutto nel lungometraggio di Wing Kit Hung, giovane regista cinese da tenere ben in evidenza per la prepotenza quasi febbrile delle immagini  e per l’inusuale complessità della costruzione narrativa adottata per raccontare  un’appassionata e  appassionante storia d’amore che, così come accadeva molti anni fa per il Resnais di Hiroshima mon amour, riemerge e si rivela ai nostri sguardi, ubbidendo  soltanto agli insondabili flussi della memoria,  con i suoi innumerevoli, piccolissimi frammenti accumulati e dispersi nel cervello che si ricompongono per assonanze e analogie richiamati all’improvviso da un gesto, da un movimento, dal doloroso pulsare di un sentimento che si brucia in un ricordo che vibra di doloroso rimpianto.
“Mi ripeti come si dice TI AMO in tedesco?”
dimmi quale è il tuo nome tedesco?
sono le altre “corrispondenze”  narrative  che accanto alla forma, alla  “ricostruzione”  atemporale del  passato recuperato a brandelli che si mescola al presente e al  bruciante desiderio di ritrovare per lo meno qualcosa di un amore perduto, mi sembra rimandino direttamente, “ispirativamente” parlando, proprio al capolavoro francese. Non ci sono però altri contatti a partire dal fatto che l’opera di Kit Kung non appoggia quasi mai (come invece accade a Resnais) anche sulle parole la forza esplicativa del narrato. In questo film infatti diventano anzi spesso quasi un contributo “accessorio” rispetto alla parte visiva e sonora (intesa come supporto musicale) perché sono soprattutto da questi  due ultimi  elementi, oltre che dall’espressività dolente dei volti, degli sguardi,  che il film  trae  ed emana la sua commovente e straziata forza vitale.
Con Soundless Wind Chime presentato con successo alla Berlinale del 2009 e poi transitato da moltissimi altri festival come il Torino GLBT Film Festival Internazionale  (dove nella sezione Nuovi sguardi ha ricevuto il premio per la regia e una menzione speciale della giuria come miglior lungometraggio in concorso), il LesGaiCineMad – Madrid International Gay & Lesbian Film Festival 2009 (si è aggiudicato in questa rassegna ben due premi, quello per la migliore regia e quello per la migliore interpretazione maschile assegnato a Lu Yulai); il Queer Vancouver Film Festival (anche qui con un prestigioso riconoscimento finale), e l’Image+Nation Festival del cinema GLBT di Montreal (premio della giuria per il miglior lungometraggio), il cinema cinese torna a raccontare con strepitosa potenza espressiva (è lì che sta soprattutto ils uo fascino), l'insicurezza della giovinezza (di quell'età particolare in cui niente è ancora definito), l'ambiguità dei sentimenti fra amicizia e amore, la necessità di un rapporto stabile e duraturo, e soprattutto la  ricerca di  una interiorità  che aiuti a ritrovare e riconoscere una effettiva  “e condivisa”  identità di tendenze sessuali, di vita e di nazionalità (i due protagonisti infatti – e non a caso - sono stranieri in terra straniera).
La sapiente costruzione narrativa di Kit Hung che aveva alle spalle solo un mediometraggio sentimentale passato quasi inosservato, conferma il meticoloso, quasi certosino lavoro preparatorio che ha preceduto la realizzazione della pellicola, durato ben cinque anni, utilizzati  nella estenuante ricerca della perfezione “formale”, dell’”inquadratura perfetta”, perché per questo importante debutto per lui ogni immagine non solo doveva essere “compiuta” come un quadro, ma  capace anche allo stesso tempo di mettere a nudo e “raccontare” le pulsioni, l’anima, i sentimenti e i pensieri dei protagonisti della storia, ed esporre così senza compiacimenti o sottolineature “drammaturgiche”  un pò pompate, il loro disagio, il loro dolore, persino il loro amore impossibile e conflittuale che è il fulcro centrale di tutto il racconto
Direi che è riuscito perfettamente nell’impresa, soprattutto sotto il profilo tecnico, sfiorando quasi il capolavoro: se solo fosse stato capace di “asciugare” un po’ di più la copiosa alluvione delle immagini, ad essere meno allusivo ed ermetico in alcuni passaggi,  lo avrebbe davvero avuto “a portata di mano” questo risultato, perché pur con qualche insistente ripetitività e qualche difficoltà valutativa proprio in relazione al fluire del tempo, si esce comunque commossi ed estasiati da come è stata trattata la materia e da come è riuscito a dribblare ogni possibile espediente ricattatorio di più facile approccio sempre in agguato. Dobbiamo in ogni caso considerare che sono a volte tali e pressanti le cose che si vogliono dire, le formule che si intendono sperimentare al primo impatto effettivo col cinema, che non sempre si è capaci di “rinunciare a qualcosa” come verrebbe invece richiesto per conseguire un risultato perfettamente equilibrato. Malgrado quello che potrei definire “un eccesso di cuore”, la classe di questo regista è tuttavia evidente e gli consentirà certamente di affinare col tempo le sue doti  per trovare la giusta misura. Nel caso specifico, ha dimostrato comunque grande coraggio e altrettanta ambiziosa caparbietà nell’esporre tutte insieme e “ad ogni costo” le sue eccellenti doti di narratore, utilizzando forme (e contenuti) che gli hanno consentito di essere assolutamente  autonomo e innovativo  rispetto alle logiche più abusate dal melodramma  cinematografico targato Hong Kong, perché davvero, in questo bellissimo film, non c’è nulla di scontato o di “risaputo” e pochissimo anche di “romanzato” (i drammi d'amore non sempre a lieto fine fanno correre spesso proprio questo rischio).  Poetico e lancinante a dismisura (quasi disperato in qualche momento), ma al tempo stesso assolutamente realista nella esposizione dei fatti, con una fotografia spesso sublime e persino spiazzante in alcuni passaggi, il regista sfodera una tecnica ferrea e pienamente assimilata e dominata che non lascia margini all’improvvisazione, con un soprendente utilzizo della macchina da presa. La colonna sonora poi  è a sua volta eccellente, con passaggi di intensa presa emotiva,  soprattutto nelle “stratosferiche” vette emozionali del finale, dove la musica trova una simbiosi e una complementarietà con la lacerante forza delle immagini che riesce davvero a  commuovere senza sollecitare per forza le lacrime:  è indubbiamente drammatico ma mai "lamentoso".
Il film, se visto dal punto di vista delle vicende che narra, può essere raccontato davvero in pochissime parole. L’ossatura portante dell’opera (come è scritto anche nella presentazione) è infatti l’incontro fra due tormentate solitudini, quella di Ricky un giovane immigrato dalla Cina continentale che ha lasciato a Pechino la madre gravemente ammalata di cancro e vive  a Hong Kong presso una zia prostituta, mantenendosi lavorando precariamente in un piccolo e modesto ristorante, e quella di Pascal, uno svizzero che sopravvive tra esibizioni da giocoliere di strada, qualche piccolo furto e le angherie del suo compagno. Fra i due è amore a prima vista, ma non è soltanto la passione ad unirli: c’è anche il riconoscere l’analogia di un comune disagio di vivere la sofferenza di una “solitudine” dell’anima dentro una città che non appartiene veramente a nessuno dei due, insidiosa e respingente, e che non ci viene mostrata, nemmeno cinematograficamente parlando, accogliente e luminosa come invece di solito accade quando ci si limita all’elegia “illustrativa” dei panorami che assumono la funzione decorativa e un po’ patinata della cartolina.
I due decidono immediatamente di mettersi a vivere insieme per dare un senso di concretezza non solo alla loro relazione, ma anche alla loro vita. Tutto procede così, sullo sfondo di un amore assolutamente totalizzante, tra momenti felici, incomprensioni litigiose, allontanamenti e ritorni sempre più conflittuali che non riescono del tutto a sanare le fratture.
Poi qualcosa succede (che non svelerò) che li divide per sempre. Qualche tempo dopo, morta anche la madre, Ricky raggiunge così le montagne della Svizzera, per ricomporre il suo passato, alla ricerca “impossibile” del suo vecchio e perduto amore, dove, vicino a Lucerna incontrerà un ragazzo che sembra il perfetto sosia di Pascal, ma dalla vita totalmente diversa con il quale sembra poi avere a sua volta una relazione affettiva.
Il finale, che non chiarisce del tutto le cose, dirada solo parzialmente  le nebbie che avvolgono una storia a suo modo quasi emblematica, e forse la spiegazione di tutto va davvero “semplicemente” trovata nell'antica leggenda cinese che parla di morti che tornano, dopo sette giorni dalla loro dipartita, per cancellare i ricordi, prima di reincarnarsi in una nuova vita: “I cinesi credono che quando qualcuno viene a mancare, la sua anima ritorni a casa il settimo giorno dopo la morte. Ad essa viene offerta una zuppa per eliminare i ricordi come preparazione per la rinascita. Dopo aver bevuto la zuppa, tutti i ricordi vengono cancellati e l’anima si reincarnerà ed inizierà una nuova vita” E’ appunto con queste parole che il regista ha voluto fornire una piccola  chiave  per aiutare lo spettatore a leggere e interpretare meglio un’opera stilisticamente raffinata ed elegante dalle atmosfere sospese e delicate come questa, affascinante e a tratti persino un po’ “respingente” per la sua esasperata complessità strutturale che può renderla persino un pò ostica proprio nella sua ostentata frammentarietà.
Ma le cose stanno veramente così o davvero i flussi del tempo e della mente sono tanto insondabili quanto aleatori? Perché non si ha nemmeno alcuna certezza assoluta se il viaggio a Lucerna avviene subito, dopo un anno o quando è trascorso un periodo più lungo, come il “recupero” dello zaino forse appartenuto all’amico rimasto in un deposito ferroviario per oltre un quinquennio potrebbe lasciar supporre e immaginare… e chi è per davvero la presenza enigmatica  di quel “sosia perfetto”,  che a sua volta sembra aver compiuto un viaggio a ritroso per arrivare fino alla madre morente di Ricky? Umbratili presenze disseminate in un percorso dove si mescolano altre struggenti figure come la coppia dei due anziani che si congedano dal mondo e dal loro amore  all’inizio, o la strafottente presenza della sorella del “sosia” di Lucerna.…
Ma è proprio in questa  non assoluta chiarezza che sta il fascino più sottile e inquietante della pellicola, quel suo essere sfuggente rispetto a ogni certezza acquisita… vedi anche i frequenti ritorni che “documentano” l’incomprensibile assenza, risolti magnificamente ricorrendo all’utilizzo della voce del messaggio del cellulare: “l’utente non è al momento rintracciabile. Si prega di riprovare più tardi, che con la sua angosciante reiterazione impersonale e monotona, diventa davvero la straziata sofferenza  “del non sapere” che non aiuta a comprendere l’abbandono.
Tramite un uso del montaggio fatto apposta per scombinare la linearità cronologica dei fatti, la storia si svolge poi su tre linee parallele ma che si intersecano fra loro: in una troviamo i due ragazzi ad Hong Kong;  nell’altra vediamo invece il giovane cinese a Pechino, mentre nella terza è la storia d’amore che si sviluppa in una piccola località nella Svizzera tedesca ad essere centrale proprio perché i protagonisti di quest’ultima, come ho già detto, sono ancora il ragazzo cinese insieme a “quel sosia perfetto” dello scomparso Pascal.
L’interesse di Kit Hung non sembra  però essere quello di  voler puntare sulla facile provocazione di una storia d’amore  omosessuale (che sembra possederee ancora qualche "pririginosità " per la maggioranza degli spettatori), perché anche le piccole concessioni iniziali, sono necessarie per farci comprendere il profondo disagio di Pascal: Per tutto il resto si parla infvece soprattutto dei sentimenti, perché il regista, con  ampio uso di riprese ravvicinate e di primi piani  illuminati da luci calde e un po’ acquose dei volti e dei corpi e accompagnati da un supporto musicale minimalista particolarmente riuscito, accenna senza mai spiegare, ricrea atmosfere e situazioni più che “esplicitare” davvero le cose, suggerisce più che mostrare, lasciando poi allo spettatore, dopo aver ricomposto tutti i pezzi del mosaico, il compito di trarre le proprie conclusioni “ciascuno a suo modo”, un procedimento questo particolarmente indicato per mischiare  fra loro realtà, sogno e ricordo e che risulta  appropriato e affascinante proprio nel  suo essere capace di rendere percettibilmente concreta  e accettabile, la magica oniricità dell’insieme, ma che rischia anche  di esasperare troppo  le trame del racconto, soprattutto nelle estenuanti sequenze finali dilatate quasi fino al limite estremo della tollerabilità, con quel suo opprimente senso di mestizia e di abbandono che crea una sorata di profonda inquietudine.
La scelta del regista di frammentare e disperdere la narrazione  unita al prevalere del non detto (perchè questo è il suo stile, la straordianria bellezza formale del suo lavoro), potrà generare a qualcuno una piccola dose di confusione mentale, che si può evitare se ci si abbandona “felicemente” e senza paura al denso fluire delle immagini di un’opera decisamente superiore alla media che rappresenta – come già detto – un esordio di quelli che lasciano davvero il segno: il regista ha senza dubbio capacità e ispirazione da vendere per poterci regalare in futuro – se il mercato gli consentirà di esprimersi in assoluta libertà – altrettante corpose  emozioni.
Io consiglio poi caldamente la visione a tutti quei “titubanti” registi anche nostrani – e sono la maggioranza - che quando decidono di realizzare opere a tematica gay non hanno il coraggio di uscire delle ovvietà consolidate, e soprattutto dal macchiettiamo “indecente”, che accompagnano l’omosessualità: potrebbero cosi riuscire finalmente a comprendere che prescindendo dalla sessualità del protagonisti, se si parla d’amore non ci si differenzia poi molto da quelle che riguardano il mondo etero, poiché  i sentimenti sono di analoga natura e portata, è solo differente il sesso verso cui si indirizzano, ma non per questo  creano meno dolore i tradimenti e le perdite (forse ne generano ancora di più di quelli dovuto ai pregiudizi):  come la dolce melodia dello scampanio del vento, si svela nel film il segreto di una poetica e delicata storia d’amore, i fatti alla fine sono solo questi, empatici, avvolgenti e perfettamente comprensibili ed accettabili. Questo dunque dovrebbe essere sufficiente per non creare subbugli eccessivi.

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