Delle serie inglesi di qualità puoi dire davvero tutte le cose belle del mondo, e stai sicuro che mediamente non sbagli. Puoi dire non solo che sono scritte in maniera impeccabile, ma anche che si vede proprio il mestiere che ci mettono dentro per far sembrare facili o invisibili le cose che agli altri non riescono; potresti anche aggiungere che il peggiore degli attori inglesi potrebbe rendere credibile qualsiasi altra serie in qualsiasi altra parte del mondo recitando in qualsiasi lingua; e poi, volendo, concludere dicendo che la metà di loro, come questa Reunion, sono patrocinate dal servizio pubblico, però ti sfido a farlo senza piangere. Ma delle serie inglesi, sempre mediamente, fai proprio fatica a dire che siano girate bene, a meno di non chiamarsi Adolescence o Gangs of London, ma sono due casi particolarmente estremi – uno è il più grandioso esempio virtuoso di guarda-mamma-senza-mani del 2025, l’altro è Gareth Evans (il signore di The Raid) che è un matto di quelli belli.

Reunion è una delle rare serie inglesi che cattura la tua attenzione per la qualità della messa in scena ancora prima che per quella della recitazione o della scrittura. Solo dopo il primo quarto d’ora dell’episodio pilota, però, ti accorgi che la regia di Luke Snellin – già autore dell’indispensabile rom-com Netflix Let It Snow: Innamorarsi sotto la neve, ma d’altronde tutti abbiamo un mutuo da pagare – funziona così bene con le sue ostentazioni di bravura proprio perché lavora in maniera idealmente sincrona con la sceneggiatura di William Mager, showrunner esordiente e autore alla seconda esperienza, in grado di restituire con dettagli e sfumature l’esperienza di un protagonista che, come lui, è nato sordomuto.

Il fatto è che, oltre a essere sordomuto, Daniel Brennan è anche terribilmente incazzato. Attenzione: non frustrato per le difficoltà nella comunicazione con persone che non conosce; quella, ci viene suggerito, è una realtà con cui ha fatto i conti per tutta la vita e per la quale ha sviluppato un certo callo. Brennan è furioso da quindici anni di fila, ovvero da quando ha iniziato a scontare la sua sentenza in carcere per l’omicidio dell’amico d’infanzia Ray; reato per il quale Daniel si è dichiarato colpevole senza fornire ulteriori spiegazioni. Di più: preferendo lasciare sole la figlia piccola, Carly, e la moglie piuttosto che tentare di difendersi o, quantomeno, dare la sua versione del litigio che ha portato alla morte di Ray.

Brennan si è fatto tre lustri di gabbio – che dev’essere un’esperienza insensata per una persona sordomuta – e oggi, dopo anni di condotta impeccabile e di attività formative (compreso imparare a scrivere), gli viene concessa a malapena una fragile libertà vigilata. E cosa fa il protagonista di una serie tv quando gli viene concessa a malapena una fragile libertà vigilata? Esatto: va in cerca di un fucile a canne mozze per esigere una misteriosa vendetta, trascinandosi dietro la figlia che, nonostante tutto, lo segue un po’ perché ha bisogno di sapere i motivi per cui la sua vita è stata rovinata, e un po’ perché il suo papà le è mancato proprio un sacco.

Messa così, specialmente fino all’ultima frase arrivata al fotofinish, sembra che Daniel sia un mostro indubbiamente assassino. In realtà la serie, pur riuscendo a mantenere una certa misteriosa ambiguità, lo presenta come un uomo sì testardo, sacripante, bruto e semi-analfabeta, ma anche con un cuore d’oro e, soprattutto, piazzato dalla parte giusta. Merito, oltre che dei dettagli sparsi in giro da Mager, anche dell’interpretazione di Matthew Gurney, che sotto quella maschera da hooligan con un termosifone al posto della mandibola nasconde tic e sensibilità che non sembrano coerenti con la figura di una persona che ha barbaramente trucidato il suo più vecchio amico.

Brennan è un tronco d’uomo che prima spacca bottiglia per ottenere ciò che gli spetta, e poi si scioglie con le parole di un fanciullino per esprimere la contentezza che ha provato nel rivedere la figlia dopo tanto tempo. Ascoltato da fuori sembra un temibile guercio che corre forte sulla sua BMW d’annata-tutta-modificata-marmitta-bucata con i Prodigy a volumi criminali; dal suo punto di vista, percepire le vibrazioni del suono attraverso la pelle è la cosa più vicina che possa esserci a sentire. E questo è un dettaglio che si percepisce grazie alla messa in scena, non perché venga detto ad alta voce dal signor Spiegoni o indicato con il pennarello dalla punta grossa. Se le serie inglesi, oltre che più interessanti ed esaltanti, diventano anche belle da vedere, non c’è più storia.
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