Di questi tempi, e nel contesto di questi media, parlare di 2010 è come tirare fuori l’anteguerra con gente cresciuta nei primi anni 2000. Il 2010 era talmente tanto tempo fa che ancora – quasi – non esisteva Instagram (sarebbe stato lanciato solo a ottobre). Il 2010 è così obsoleto che all’epoca eravamo ancora abbastanza speranzosi da fare il tifo per il parlamento europeo, che ci ha tenuto a renderlo l’anno della lotta alla povertà e all’esclusione sociale e come sappiamo è andato tutto molto bene e oggi è tutto risolto; ma allo stesso tempo, per la gioia dei complottisti a posteriori, nel 2010 comunque qualcuno si preparava al peggio, organizzando in Valle d’Aosta la 1ª edizione dei Giochi mondiali militari invernali, una roba che puoi metterla giù in qualunque maniera ma in ogni caso continua a suonare male.
Il 2010, soprattutto e per quanto ci riguarda, giace in tutt’altra epoca storica televisiva, una in cui non esisteva lo streaming o il COVID, e Netflix spediva ancora i DVD a casa. Quello, guarda caso, è stato anche l’anno in cui è uscita l’ultima serie creata e realizzata da J. J. Abrams. Tecnicamente, egli è più che giustificato per la successiva assenza: i 15 anni lontano dal piccolo schermo gli sono serviti a diventare ricco e immortale al cinema con la doppia doppietta di Star Trek e Star Wars. Però uffa. Per ben tre lustri secchi, gli amanti della tv bella (e delle parabole di carriera simmetriche e coerenti) si sono dovuti accontentare: l’ultima serie creata da Abrams – uno che, nel bene o nel male, ha fatto la storia della tv a più riprese con Felicity, Alias, Lost e Fringe – sarebbe stata, forse per sempre, quell’insulsaggine sfaticata e un po’ a mezzo servizio di Undercovers.

Poi chissà. Forse, dopo avere affrontato per ben due volte l’estenuante amore dei fanatici di Guerre stellari, lavorare per mesi nel deserto dell’Arizona per le riprese di una serie tv insieme a un amico di vecchia data – Josh Holloway, il Sawyer di Lost – dev’essere sembrata in effetti una prospettiva molto più rilassante del solito. E allora ecco che Abrams torna a fare quello che gli riesce meglio, la tivvù d’intrattenimento che cerca di coniugare spettacolo, rilevanza pop e qualità, tentando di ripetere gli stessi numeri che nei primi dieci anni di nuovo millennio gli hanno consegnato in mano le chiavi di Hollywood.
La serie in questione si intitola Duster, ed è un’esclusiva max – il quale servizio di streaming, storia vera, ha recentemente annunciato di voler tornare a essere chiamato con il nome che aveva fino a due anni fa, HBO Max, dimostrando una volta per tutte (se ce ne fosse ulteriore bisogno) che per ottenere il titolo di amministratore delegato non è necessario essere particolarmente brillanti. L’episodio pilota di Duster tocca tutte le corde giuste, ed effettivamente imbastice le premesse per essere una grande serie, di quelle ad ampio respiro narrativo che disegnano per i loro personaggi principali parabole dalle traiettorie ampie ma chiare, da costellare di eventi rocamboleschi già ben apparecchiati.

La zona sono gli Stati Uniti sudoccidentali, questi posti polverosi e vasti fatti di Arizona, Nuovo Messico, Nevada e cose così. L’anno è il 1972. Da una parte della barricata c’è Nina Hayes: fresca di diploma a Quantico, è una delle rare, se non l’unica!, donna nera agente dell’FBI in tempi non particolarmente accomodanti (“Hoover odiava voi negri, ma vi voleva per farvi infiltrare nei gruppi radicali. Ora che è lui morto non sappiamo cosa farcene di voi”), ma riesce comunque a farsi trasferire all’ufficio di Phoenix. È la sede più comoda per quello che ha in mente di fare: smantellare l’operazione criminale di Ezra Sexton, boss dei boss della zona, con cui Hayes ha un conto in sospeso.

Dall’altra parte della barricata c’è Jim Ellis, affascinante incrocio fra Troy McClure e Brad Pitt, che da anni è il galoppino più fidato di Sexton. Che detta così può suonare male, ma provate a pensare quanto è importante un galoppino per un’associazione criminale che deve coprire tutto quel territorio lì. Non a caso, i Pony Express erano i veri boss del Far West. Dunque Ellis è uno sgherro di lusso, quasi un braccio destro; tanto che è lui a occuparsi del trasporto del cuore acquistato al mercato nero necessario alla sopravvivenza del figlio primogenito di Sexton. Lo fa, come sempre, a bordo della sua Plymouth Duster – perennemente fiammante nonostante il deserto, i miracoli della coolness di Hollywood – e con addosso 130 denti di sorriso smagliante da gentiluomo che nasconde la malinconia con fascino mellifluo e cortesia, mentre la sua lunga chioma bionda garrisce nel vento.

Viene fuori che Hayes vorrebbe assicurarsi la collaborazione di Ellis come infiltrato, per raccogliere le prove necessarie a far crollare l’impero criminale di Sexton. Utilizza come leva Luna, figlia adolescente di Jim alla quale è stato fatto credere di essere sua nipote, ma anche il dubbio che Ezr possa essere il responsabile per l’omicidio del fratello di Jim. Nel pilota di Duster, tutto viaggia a velocità sostenuta – ma entro i limiti – per stendere le premesse di una serie che preannuncia di essere estremamente divertente e ben realizzata, con un lieve tocco di locura che promette cose matte: prima di accettare di restare a Phoenix per aiutare Hayes nelle sue indagini su Sexton, Jim si era accordato per lavorare al servizio di un messicano che si fa chiamare Mad Raoul e fa firmare i contratti ai suoi collaboratori con il sangue. Presumiamo sia un signore che non gradisca particolarmente essere ghostato.
La serie tv
Duster
Poliziesco - USA 2025 - durata 51’
Titolo originale: Duster
Con Rachel Hilson, Keith David, Josh Holloway, Sydney Elisabeth, Greg Grunberg, Camille Guaty
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