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Libri A(ni)mati / 70: “Souvenirs Entomologiques - Sixième Série” di Jean-Henri Fabre (1899) – “De omni re scibili (et quibusdam aliis).”
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Libri A(ni)mati / 70: “Souvenirs Entomologiques - Sixième Série” di Jean-Henri Fabre (1899) – “De omni re scibili (et quibusdam aliis).”

Giunti alla Sesta Serie dei Ricordi Entomologici un’indomita, furibonda e smagliante meraviglia s’accampa e s’incista, col suo sorprendentement’eterno rinnovars’imperituro, nella mente del lettore ideale, venendoglin aiuto e conforto con la propria bellezz’architravata "su ogni cosa conosciuta (e alcune altre)" e lanciat’a guisa d’uno strale intellettivo contro l’ottusità pervasiva che l’umana società propugna e promuove gettandosel’addoss’ogni giorno quale un autoimmune stigmatico smacco a sé stessa, ed è sempre con duale ed estremo piacere e dolore che si affronta l’opera di Jean-Henri Fabre: piacere per la prosa cristallina e avvincente [gli ultimi capitoli dedicati agli esperimenti sull’urticazione velenifera dovuta ai bruchi di due noctuidi - la processionaria del pino, Thaumetopoea (Chetocampa) pityocampa, un notodontide, e quello che l’autore chiama col generico nome di Liparis, da me identificato come l’Euprottide (falena/bombice dal ventre/culo/coda marrone/bruno), ovvero l’Euproctis chrysorrhoea, un erebide - e veicolata dai loro peli seghettati ed uncinati sono di quanto più avvincente, poetico, scientifico e semplicemente bello si possa immaginare] e dolore per l’impossibilità (anche finanziaria: i più recenti e validi tomi dell’a lui coeva letteratura scientifica a sua disposizione erano limitati), più che l’incapacità, da parte dello scrittore e naturalista/etologo autodidatta, di riuscire a comprendere, a monte, la teoria evoluzionistica darwiniana, prim’ancora insomma che il rifiutarne a priori la limpida chiarezza.

Di certo questa Sixième Série contiene forse due fra i capitoli letterariamente migliori (sono il III il IV e s’intitolano “L'Atavismo” e “La Mia Scuola”) di tutti i Souvenirs Entomologiques letti sin’ora e fino ad allora pubblicati (e che alla fine saranno in numero di dieci), una duplice divagazione su sé stesso ch’è un autentico capolavoro balzac-proustiano, oltre che un “corpo estraneo” all’interno di probabilmente tutta l’opera del nostro. Di questo doppio racconto eccone un vasto florilegio (sommat’insieme raggiungono le 30 e più pagine di lunghezza, e non posso certo copia-incollarle tutte, non tanto per questione di poca fattibilità/praticità, perché Google Lens & C. aiutano e molto in questo, ma se non altro per via del fatto ch’esiste una cosa chiamata diritti d’autore/editore) che riporto qua sotto, suddiviso fra De Seta e Philibert, senz’alcuno scopo di lucro che non sia quello che per conseguenza indiretta potrebbe riversarsi nelle casse di Adelphi. E così inizia il secondo, quello dedicato alla prima educazione scolastica ricevuta, ovvero con la (in)solità capacità fabresca di catturare l’attenzione con quell’esca irresistibile ch’è l’empatia: «Eccomi di ritorno al paese, a casa mia. Ho sette anni: è arrivato il momento di andare a scuola…».

Souvenirs Entomologiques - Sixième Série - 1899” di Jean-Henri Fabre, contenuto in “Ricordi di un Entomologo - Volume Terzo”, Adelphi, 2023, collana Biblioteca, n. 746 (traduzione di Francesco Bergamasco; brossura rilegata a filo refe, copertina flessibile a quattro alette; 742 pagg., € 42.00).

 

 

Volumi sin qui pubblicati e trattati:

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume I - Prima Serie) di Jean-Henri Fabre (1879): “La vita, ci dice la fisiologia, è una continua distruzione.”
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume I - Seconda Serie) di Jean-Henri Fabre (1882): “Un Harmas, un Fazzoletto di Terra: Hoc Erat in Votis.”

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume II - Terza Serie) di Jean-Henri Fabre (1886): “Dulces (moriens) reminiscitur Argos.”
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume II - Quarta Serie) di Jean-Henri Fabre (1891): “Mens Agitat Molen” (et Vice Versa).

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume III - Quinta Serie) di Jean-Henri Fabre (1897): “Tutto muore affinché tutto viva.” 
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume III - Sesta Serie) di Jean-Henri Fabre (1899): “De omni re scibili (et quibusdam aliis).”          

Playlist film

Monsieur Fabre

  • Biografico
  • Francia
  • durata 90'

Titolo originale Monsieur Fabre

Regia di Henri Diamant-Berger

Con Pierre Fresnay, Elina Labourdette, André Randall, Georges Tabet, Espanita Cortez

Monsieur Fabre

 

La vita di Jean-Henri Fabre, un professore liceale di matematica dal modesto stipendio, insofferente verso le rigide regole scolastiche d'indottrinamento del luogo e del tempo, la Provenza (la Francia, l'Europa, il Mondo) della seconda metà del XIX secolo, credente cattolico, baudelairesco flâneur e naturalista (entomologo, ornitologo, biologo, chimico, eccetera) autodidatta che non accettò mai la teoria dell'evoluzione, ma fu elogiato da Charles Darwin per il suo indomito e pervicace spirito di osservazione e deduzione verso il comportamento - governato dall'istinto - del regno animale, riassunta in questa transalpina pellicola in B/N del dopoguerra.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Jean-Henri Fabre

  • Biografico
  • Italia

Titolo originale Jean-Henri Fabre

Regia di Massimo Scaglione

Con Vincenzo De Toma, Ennio Balbo, Toni Barpi, Wanda Benedetti, Anna Caravaggi

Jean-Henri Fabre

 

La vita di Jean-Henri Fabre, naturalista ed entomologo francese autodidatta, attivo nella seconda metà dell'ottocento, il secolo della rivoluzione francese e di quella industriale, e celebre per il suo contributo sugli studi riguardanti il comportamento degli insetti che gli valsero riconoscimenti accademici, condensata in questo (introvabile?) sceneggiato RAI in B/N degli anni settanta.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Zero in condotta

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 41'

Titolo originale Zéro de conduite

Regia di Jean Vigo

Con Jean Dasté, Louis Lefebvre, Gilbert Pruchon, Robert Le Flon, Coco Golstein

Zero in condotta

 

[Pag. 341...]

Dove vivo io, il sisyphus [Sisyphus schaefferi, un coleottero scarabeide; NdR] è rarissimo; non sarei mai riuscito a procurarmi il numero di esemplari necessari ai miei scopi senza un assistente che è bene presentare al lettore, perché comparirà più di una volta in questi racconti.
Si tratta di mio figlio, il piccolo Paul, un bimbetto di sette anni, mio assiduo compagno di caccia che conosce come nessuno dei suoi coetanei i segreti della cicala, della locusta migratoria europea, del grillo e soprattutto dello scarabeo stercorario, il suo preferito. La sua vista acuta distingue a venti passi di distanza le montagnole di terra che segnalano le tane da quelle che si sono formate per caso; il suo orecchio fine percepisce il sottile stridio della cavalletta dove per me non c'è che silenzio. Mi presta la sua vista, mi presta il suo udito; in cambio, io gli do l'idea, che lui accoglie attentissimo, alzando verso di me i suoi grandi occhi azzurri interrogativi.
Oh, com'è incantevole il primo fiorire dell'intelletto! Com'è bella l'età in cui si risveglia la candida curiosità che vuole sapere tutto! Il piccolo Paul ha dunque la sua gabbia in cui lo scarabeo gli fabbrica pere; il suo mini-giardino, grande come un fazzoletto, in cui crescono i fagioli che dissotterra spesso per vedere se la minuta radice si allunga; la sua piantagione di alberi dove si ergono quattro querce alte poco più di venti centimetri, con ancora attaccata al fianco la ghianda nutritiva a doppia mammella. Sono distrazioni dall'arida grammatica, che peraltro non ne risente.
Quante cose belle e buone la storia naturale potrebbe introdurre nella testa dei ragazzi, se la scienza si degnasse di rendersi loro gradevole; se le nostre caserme universitarie osassero integrare il morto studio dei libri con il vivo studio dei campi; se le pastoie dei programmi cari ai burocrati non soffocassero ogni iniziativa di buona volontà! Piccolo Paul, amico mio, studiamo il più possibile in campagna, fra i rosmarini e i corbezzoli. La campagna darà vigore al nostro corpo e alla nostra mente; vi troveremo più bellezza e verità che nei libri.
Oggi la lavagna non lavora; è festa.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

L'albero degli zoccoli

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 170'

Regia di Ermanno Olmi

Con Francesca Moriggi, Luigi Ornaghi, Antonio Ferrari, Carmelo Silva

L'albero degli zoccoli

 

[Pag. 355…]

Se lo scarabeo cornuto limita la sua prole a pochi individui, non lo fa certo per la poca fertilità delle ovaie, ma per timore della carestia.
Non accade lo stesso nel nostro paese minacciato dallo spopolamento, stando a quanto riporta la statistica? L'impiegato, l'artigiano, il funzionario, l'operaio, il piccolo bottegaio costituiscono da noi una moltitudine in continua crescita; e tutti, avendo appena di che vivere, evitano, finché possono, di invitare troppi ospiti alla loro tavola così mal imbandita. Il copris fa bene a ridursi quasi al celibato quando manca la pagnotta. Con che diritto condanneremmo i suoi emuli? In entrambi i casi, si tratta di prudenza. Meglio starsene da soli che essere circondati da bocche affamate. Chi si sente abbastanza forte per lottare contro la propria personale povertà arretra spaventato davanti alla povertà di una famiglia numerosa.
Nel buon tempo antico, il lavoratore della terra, il contadino, colonna portante della nazione, trovava in una prole numerosa un mezzo per accrescere la ricchezza. Tutti lavoravano e portavano il loro pezzo di pane al pasto frugale. Mentre il primogenito guidava i buoi che tiravano l'aratro, il più piccolo inaugurava il suo primo paio di calzoni conducendo allo stagno la covata di anatroccoli.
Queste usanze patriarcali stanno diventando rare. Così vuole il progresso. Certamente è un destino invidiabile quello di dimenarsi su due ruote con gesti da ragno disperato; ma il progresso comporta un rovescio della medaglia: porta con sé il lusso, crea bisogni costosi.
L'ultima operaia del mio paesino guadagna venti soldi al giorno e la domenica indossa spalline a sbuffo ricamate e cappello con pennacchi come le grandi signore; ha un ombrellino con il manico d'avorio, un grosso chignon, scarpe di vernice decorate con rosette e merletti. Ah! Io, con la mia giacca di tela, non oso guardare voi, guardiane di tacchini, sfilare davanti alla mia porta, sulla strada maestra divenuta la vostra passeggiata di Longchamp. Mi umiliate con la vostra elegante toeletta.
Dal canto loro, i giovani frequentano assiduamente il caffè, molto più lussuoso dell'antica taverna. Vi trovano vermut, bitter, assenzio, amaro Picon, insomma tutta la collezione delle droghe che abbrutiscono. Gusti simili rendono la terra troppo bassa, la zolla troppo dura. Poiché le entrate non sono proporzionali alle spese, costoro abbandonano i campi per la città, dov'è più facile, credono, far soldi. Ahimè, qua è impossibile risparmiare come là. Il lavoro in fabbrica, assediato da infinite occasioni per spendere, arricchisce ancor meno dell'aratro. Ma è troppo tardi: l'abitudine è presa, e si resta poveri abitanti di città che temono di avere figli.
Meraviglioso per clima, fertilità e posizione geografica, il paese è tuttavia invaso da una valanga di uomini provenienti da tanti luoghi diversi, imbroglioni, profittatori di ogni risma. Un tempo aveva attratto il sidoniano, che correva i mari; il pacifico greco, che ci ha portato l'alfabeto, la vite e l'ulivo; il romano, spietato dominatore che ci ha lasciato in eredità crudeltà difficili da estirpare. Su questa ricca preda si sono gettati cimbri, teutoni, vandali, goti, unni, burgundi, svevi, alani, franchi, saraceni, orde venute dai quattro angoli del mondo. E questo strano miscuglio si fuse, assorbito dalla nazione dei galli.
Oggi lo straniero si insinua lentamente fra noi. Siamo minacciati da una seconda invasione barbarica, pacifica, certo, tuttavia preoccupante. La nostra lingua, improntata a chiarezza e armonia, diventerà un idioma oscuro, fatto di esotici suoni rauchi? Il nostro carattere generoso sarà disonorato da rapaci mercanti? Il paese dei padri cesserà di essere una patria per diventare un caravanserraglio? È da temere, se il vecchio sangue gallico non sarà in grado di avere ancora una volta la meglio su questa invasione.
Speriamo che lo sia. Ascoltiamo ciò che ci insegna lo scarabeo cornuto. Una prole numerosa necessita di viveri. Ma il progresso porta con sé nuove esigenze, costose da soddisfare; e le nostre entrate sono ben lontane dal progredire allo stesso modo. Non avendo abbastanza risorse per sei, né per cinque, né per quattro, si vive in tre, in due, o addirittura si resta soli. Con tali principi, una nazione si incammina di progresso in progresso verso il suicidio.
Torniamo dunque indietro, eliminiamo i bisogni artificiali, frutto malato di una civiltà sovreccitata; riportiamo in auge la rustica sobrietà dei nostri padri; restiamo nei campi, dove trarremo dalla terra nutrimento sufficiente, se i nostri desideri sono misurati. Allora, e soltanto allora, rifiorirà la famiglia; allora, libero dalla città e dalle sue tentazioni, il contadino ci salverà.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore

  • Commedia
  • USA
  • durata 95'

Titolo originale Moonrise Kingdom

Regia di Wes Anderson

Con Kara Hayward, Jared Gilman, Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Tilda Swinton

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore

In streaming su Now TV

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[Pag. 366...]

 

Da quando Darwin mi ha definito «un osservatore inimitabile», questa qualifica mi è stata applicata molte altre volte qua e là, senza che ne abbia ancora capito il motivo. Interessarsi a tutto ciò che brulica attorno a noi è così naturale, mi sembra, così alla portata di tutti, così appassionante! A ogni modo sorvoliamo, e ammettiamo pure che il complimento sia fondato.
Ma se devo affermare che sono curioso di tutto ciò che riguarda l'insetto, non ho più alcuna esitazione. Sì, sento di avere il pallino, l'istinto che mi spinge a frequentare questo mondo singolare; sì, mi riconosco capace di dedicare a simili studi tempo prezioso, che sarebbe impiegato meglio nel prevenire, se possibile, la povertà della vecchiaia; sì, confesso di essere un appassionato osservatore dell'animale. Come si è sviluppata questa inclinazione caratteristica, allo stesso tempo croce e delizia della mia vita? E, soprattutto, che cosa deve essa all'atavismo?
Il volgo non ha storia: soffocato dal presente, non può pensare a conservare ricordi del passato. Tuttavia le scartoffie di famiglia sarebbero archivi quanto mai istruttivi, oltre che motivo di conforto e compassione, perché ci rivelerebbero chi erano i nostri antenati, ci parlerebbero delle loro pazienti lotte contro l'amaro destino, dei loro caparbi sforzi per costruire, un granello dopo l'altro, ciò che noi siamo oggi. Nessuna storia avrebbe altrettanto valore per il singolo. Ma per forza di cose il focolare viene abbandonato e, una volta partita la nidiata, il nido resta ignorato.
Umile operaio nell'alveare dei laboriosi, conservo dunque pochissimi ricordi di famiglia. I dati che possiedo arrivano ai miei ascendenti di secondo grado, oltre i quali regnano le tenebre. Mi soffermerò su di loro qualche istante per due motivi: primo, per informarmi sull'influenza dell'atavismo, e poi per lasciare ai miei cari una pagina in più che li riguarda.
[...]
Vi devo molto, cara nonna; sulle vostre ginocchia ho trovato conforto alle mie prime pene. Mi avete trasmesso forse un po' del vostro vigore, un po' del vostro amore per il lavoro; ma certamente voi, come il nonno, siete estranea alla mia passione per gli insetti.
Non meno estranei sono i miei genitori. Mia madre, completamente analfabeta e la cui unica istruzione si riduceva all'amara esperienza di una vita di sofferenze, era l'esatto opposto di ciò che avrebbe dovuto favorire lo sviluppo dei miei interessi. Ci metterei la mano sul fuoco: l'origine della mia inclinazione va cercata altrove.
Forse in mio padre? Nemmeno. Lavoratore di robusta complessione come il nonno, l'ottimo uomo da giovane era andato a scuola. Sapeva scrivere, ma con grandi libertà non approvate dall'ortografia; sapeva leggere e capire, a patto che il testo non presentasse difficoltà letterarie superiori a quelle delle storielle dell'almanacco. Cedette, primo della sua stirpe, alla tentazione della città. Mal gliene incolse.
Tirava a campare, Dio sa come, con pochi averi e non molto spirito d'iniziativa, e conobbe tutte le tribolazioni del campagnolo divenuto abitante di città. Perseguitato dalla cattiva sorte che lo schiacciava con il suo fardello nonostante tutta la buona volontà che egli ci metteva, era lontano, lontanissimo, dall'avviarmi all'entomologia. Aveva altri pensieri, più immediati e urgenti. Un bello scapaccione quando mi vedeva fissare con lo spillo un insetto su un tappo di sughero: ecco l'incoraggiamento che ho ricevuto. Forse non aveva tutti i torti.
La conclusione non ammette repliche: niente nell'atavismo spiega il mio gusto dell'osservazione. Qualcuno potrebbe obiettare che non risalgo poi troppo indietro nel tempo. Che cosa troverei prima dei nonni ai quali si fermano i miei dati? In parte lo so. Troverei avi ancora più incolti, gente di campagna, contadini, seminatori di segale, bovari, tutti per forza di cose assolutamente ignari delle delicatezze dell'osservazione.
Eppure già in tenera età cominciava a formarsi dentro di me l'osservatore, il curioso. Perché non dovrei raccontare le mie prime scoperte? Sono estremamente ingenue, ma tali tuttavia da illuminarci un po' sullo sbocciare delle inclinazioni.
Avevo cinque o sei anni. Per alleggerire la povera famiglia di una bocca da sfamare, ero stato affidato, come ho appena raccontato, alle cure della nonna. Fu là, in solitudine, tra oche, pecore e vitelli, che si destarono i primi lumi del mio intelletto. Ciò che precede resta per me avvolto in tenebre impenetrabili. Nasco alla vera vita nel momento in cui sorge l'alba nel mio intimo, un'alba abbastanza sgombra dalle nubi dell'inconscio da lasciarmi ricordi durevoli. Mi rivedo chiaramente, vestito con un saio il cui orlo sporco di sterco oscillava sui miei talloni nudi; conservo il ricordo del fazzoletto appeso alla cintura con uno spago, fazzoletto che perdevo o spesso e sostituivo con il risvolto della manica.
Un giorno, eccomi bambino pensieroso a guardare il sole con le mani dietro la schiena. Quella luce sfolgorante mi affascina. Sono la falena attirata dal bagliore della lampada. Quell'istante di splendore radioso lo godo con la bocca o con gli occhi?
È questa la domanda posta dalla curiosità scientifica che stava nascendo in me. Non sorridere, lettore: il futuro osservatore si sta già esercitando, sta già sperimentando. Spalanco la bocca e chiudo gli occhi. Lo splendore svanisce. Apro gli occhi e chiudo la bocca, lo splendore ricompare. Riprovo. Stesso risultato. Ci siamo: so per certo che vedo il sole con gli occhi. Oh, bella scoperta! La sera lo comunico a tutta la casa. La nonna sorrise con tenerezza della mia ingenuità; gli altri mi presero in giro. Cosi va il mondo.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Diario di un maestro

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 135'

Regia di Vittorio De Seta

Con Bruno Cirino, Massimo Bonini, Luciano Dal Croce

Diario di un maestro

 

[Pag. 376...]

 

Eccomi di ritorno al paese, a casa mia. Ho sette anni: è arrivato il momento di andare a scuola. Non potevo essere più fortunato; il maestro è il mio padrino. Come chiamare il locale in cui avrei fatto conoscenza con l'alfabeto? Il termine giusto sarebbe introvabile, perché quella stanza serviva a tutto. Era al tempo stesso scuola, cucina, camera da letto, refettorio, e in certi momenti pollaio, porcile. A quel tempo non si pensava granché agli edifici scolastici; un misero riparo era più che sufficiente.
Da questa stanza si saliva al piano superiore attraverso una larga scala fissa. Nel sottoscala, un letto matrimoniale in un'alcova formata da assi di legno. Che cosa ci fosse lassù non l'ho mai saputo di preciso. Vedevo il maestro calare a volte una bracciata di fieno destinata all'asina, a volte un cesto di patate che la moglie gettava nel paiolo in cui veniva preparato il pastone dei maialini. Doveva essere un granaio, un deposito di provviste per uomini e animali. Quei due locali costituivano tutta l'abitazione.
Torniamo alla stanza in basso, la scuola. A mezzogiorno una finestra, l'unica della casa, così stretta e bassa che si poteva toccarne contemporaneamente ogni lato con la testa e le spalle. Questa apertura esposta al sole è l'unico punto allegro del luogo; domina la maggior parte del villaggio disteso sulle pendici di una valle a imbuto. Il vano della finestra inquadra la piccola cattedra del maestro.
Nel muro di fronte è scavata una nicchia nella quale luccica un secchio di rame pieno d'acqua, da cui chi ha sete, quando ne ha voglia, può attingere con una tazza messa alla portata. Nella parte superiore della nicchia brillano su alcune mensole le stoviglie di stagno, i vassoi, i piatti e i bicchieri che vengono tirati giù dal loro tabernacolo soltanto nei giorni di festa grande.
[…]
Contro la parete in fondo c'è il camino, un vero monumento per dimensioni, uguale a quello di mio nonno. La sua cornice a volta occupa tutta la stanza nel senso della larghezza perché quello spazio è destinato a vari usi.
In mezzo c'è il focolare, ma a destra e a sinistra, all'altezza del gomito, si aprono due nicchie, metà di legno e metà di muratura, ognuna delle quali è un letto con un materasso di scaglie di pula di grano. Due assi che scivolano lungo scanalature fungono da scuri e chiudono il locale se chi dorme vuole isolarsi. Questo dormitorio, riparato dal mantello del camino, offre il suo doppio giaciglio ai privilegiati di quella casa, i due pensionanti. Si deve star bene là dentro, di notte, con gli scuri chiusi, quando il vento di tramontana soffia sull'imboccatura del nero canale e fa vorticare la neve.
Il resto è occupato dal focolare e dai suoi accessori: sgabelli a tre gambe; una saliera appesa al muro per conservarne asciutto il contenuto; un pesante badile che bisogna maneggiare con entrambe le mani; infine un soffione simile a quello con cui mi cimentavo a casa del nonno. È formato da un robusto ramo di abete, scavato per tutta la lunghezza con un ferro incandescente: questo canale permette di indirizzare a distanza il soffio della bocca sul punto che bisogna riaccendere. Appoggiate a due pietre ardono la fascina di ramaglie messa dal maestro e il ceppo che ciascuno di noi deve portare al mattino, se vuole avere diritto alla sua parte di piacere accanto al camino.
D'altra parte il fuoco non veniva acceso proprio per noi, ma soprattutto per scaldare una fila di tre paioli in cui cuoceva lentamente il pastone dei maialini, un miscuglio di crusca e patate. Erano loro i veri destinatari del calore delle fiamme, nonostante noi contribuissimo con il nostro ceppo. I due pensionanti nei posti migliori, sui loro sgabelli, e noialtri seduti sui talloni, formavamo un semicerchio intorno alle grandi marmitte colme da cui uscivano facendo puf, puf, puf, piccoli getti di vapore.

 

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Essere e avere

  • Documentario
  • Francia
  • durata 104'

Titolo originale Être et avoir

Regia di Nicolas Philibert

Con Georges Lopez, gli allievi di Saint-Etienne sur Usson

Essere e avere

 

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Quando il maestro guardava da un'altra parte, i più audaci infilzavano con la punta del coltello una patata cotta a puntino e la accompagnavano al loro tozzo di pane; perché va detto che se nella mia scuola si studiava poco, almeno si mangiava molto. Era consuetudine rompere qualche noce e sgranocchiare un po' di pane mentre scrivevamo o mettevamo in fila i numeri.
Per noi piccoli, a questa consolazione di studiare con la bocca piena se ne aggiungevano a momenti altre due non inferiori alla noce rotta. La porta sul fondo comunicava con una corte in cui la gallina, circondata dai suoi pulcini, grattava il mucchio di letame, e i maialini, che erano una dozzina, sguazzavano nel loro trogolo di pietra. Questa porta si apriva spesso per delle uscite di cui noi abusavamo. Si apriva, ma i più furbetti fra noi si guardavano bene dal richiuderla.
Subito, in fila uno dietro l'altro, entravano i maialini attirati dall'odore di patate bollite. La panca dei più piccoli, la mia, addossata alla parete sotto il secchio di rame da cui andavamo a bere quando la noce ci aveva messo sete, era proprio sulla loro strada. Arrivavano trotterellando, grugnendo, con la sottile coda arrotolata; ci sfioravano le gambe; infilavano il loro fresco muso rosa nel cavo delle nostre mani per prendere un pezzetto di pane; ci interrogavano con i loro occhietti vispi per sapere se avessimo in tasca qualche castagna secca da dargli. Finito il giro tornavano alla spicciolata nel cortile, bonariamente scacciati dal fazzoletto del maestro.
Poi veniva la visita della gallina, che ci portava i suoi pulcini ricoperti di una lanugine vellutata. Tutti si affrettavano a sbriciolare un po' di pane per quei graziosi ospiti. Ciascuno faceva a gara di premure con gli altri per attirarli a sé e accarezzare con la punta delle dita la morbida peluria sul dorso. No, le distrazioni non ci mancavano proprio.
Che cosa potevamo imparare in una simile scuola? Parliamo innanzitutto dei piccoli, di cui facevo parte. Ciascuno di noi aveva sottomano, o meglio avrebbe dovuto avere, un libretto da due soldi, l'abbecedario, stampato su carta grigia. Sulla copertina c'era un piccione o qualcosa di simile. Poi veniva una croce, seguita dalla serie delle lettere. Voltando pagina, si presentava il terribile «ba, be, bi, bo, bu», uno scoglio per i più. Superata quella temibile pagina, si presumeva che sapessimo leggere e passavamo fra i grandi.
Ma per usare il libretto il maestro avrebbe dovuto almeno occuparsi un po' di noi e mostrarci come fare. Al brav'uomo, troppo impegnato con i grandi, mancava il tempo. Il famigerato abbecedario con il piccione ci veniva imposto soltanto per darci una parvenza di alunni. Dovevamo meditarlo sul nostro banco, decifrarlo con l'aiuto del vicino, se per caso a lui qualche lettera era nota. Le nostre meditazioni non portavano a granché, continuamente disturbate dalla visita alle patate nei paioli, da una biglia contesa fra compagni, dall'invasione dei maialini con i loro grugniti, dall'arrivo dei pulcini. Con l'aiuto di queste distrazioni, aspettavamo pazientemente l’ora di tornare a casa. Era questo il nostro lavoro più impegnativo.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Microcosmos. Il popolo dell'erba

  • Documentario
  • Francia
  • durata 65'

Titolo originale Microcosmos

Regia di Claude Nuridsany, Marie Pérennou

Microcosmos. Il popolo dell'erba

In streaming su Amazon Prime Video

vedi tutti

 

[Pag. 396…]

Attraversare il mondo da un polo all'altro, per terra e per mare; interrogare la vita e l'infinita varietà delle sue manifestazioni sotto ogni clima: questa è di certo, per chi sa vedere, una fortuna straordinaria. È il magnifico sogno dei miei anni giovanili, quando Robinson era la mia grande passione. Alle rosee illusioni, ricche di viaggi, è presto seguita l'uggiosa realtà domestica. La giungla dell'India, la foresta vergine del Brasile, le alte cime delle Ande amate dal condor si sono ridotte a un terreno d'esplorazione formato da un quadrato di sassi chiuso da quattro mura.
Mi guardo bene dal lamentarmene. La ricerca nel campo delle idee non ha bisogno di spedizioni in paesi lontani. Jean-Jacques per studiarle prelevava le erbe nel mazzo di mordigallina destinato al suo canarino; Bernardin de Saint-Pierre scopriva un mondo su una pianta di fragole arrivata per caso fino a un angolo della sua finestra; Xavier de Maistre compiva intorno alla sua camera uno dei viaggi più celebri con una poltrona a mo di carrozza.
Questo modo di vedere il mondo rientra nelle mie possibilità, eccezion fatta per la carrozza, troppo difficile da guidare attraverso le sterpaglie. Faccio e rifaccio cento volte il giro del recinto, a piccole tappe; mi fermo ora da questo, ora da quello; rivolgo paziente le mie domande e di tanto in tanto ottengo qualche frammento di risposta.

 

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Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

A Bug's Life. Megaminimondo

  • Animazione
  • USA
  • durata 95'

Titolo originale A Bug's Life

Regia di John Lasseter

A Bug's Life. Megaminimondo

In streaming su Disney Plus

vedi tutti

 

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Anche il più piccolo villaggio mi è divenuto familiare; conosco ogni ramoscello su cui si appollaia la mantide religiosa; ogni cespuglio in cui, nella calma delle notti estive, stride piano il pallido grillo arboricolo; ogni erba rivestita d'ovatta che viene rastrellata dall'Anthidium, fabbricatore di sacchetti di cotone; ogni folto di lillà sfruttato dalla Megachile, tagliatrice di foglie.
Se il piccolo cabotaggio fra angoli e angolini del giardino non è sufficiente, un grande contributo mi viene dal viaggio di lungo corso. Doppio il capo delle siepi vicine, e dopo un centinaio di metri mi trovo a contatto con lo scarabeo sacro, il cerambice, il geotrupe, il copris, il dettico, il grillo, la tettigonia verde, insomma così tanti popoli da occupare la vita intera di chi volesse studiarne la storia approfonditamente. Certo ho già abbastanza, sin troppo da fare con i miei vicini, senza avventurarmi in regioni lontane.
E poi, attraversare il mondo, disperdere la propria attenzione su una moltitudine di argomenti non è osservare. L'entomologo che viaggia può riporre nei suoi contenitori molte specie che faranno la gioia del nomenclatore e del collezionista, ma raccogliere documenti circostanziati è tutt'altra cosa. Ebreo Errante della scienza, non ha il tempo di fermarsi. A volte, per indagare questo o quel fatto, dovrebbe prolungare il soggiorno, ma già lo attende la tappa successiva. Date le condizioni, non chiediamogli l'impossibile. Continui pure a fissare con lo spillo insetti su tavolette di sughero, a farli macerare in vasi di ratafià, e lasci ai sedentari l'osservazione paziente che richiede tempo. 

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Darwin

  • Biografico
  • Francia
  • durata 52'

Titolo originale Darwin

Regia di Peter Greenaway

Con Bert Svenhujsen, Jacques Bonnaffé, Barbara M. Messner, Germain Pengel, Yannick Pengel

Darwin

 

[Pag. 418...]

 

Nulla di più comodo dell'influenza dell'ambiente per far subire all'animale cambiamenti che concordino con le nostre teorie. È generica, duttile e non richiede precisione; riveste l'inesplicabile di una parvenza di spiegazione. Ma è davvero un'influenza così potente come si sostiene?
Concedo che essa possa modificare un po' le dimensioni, il manto, il colore, gli elementi secondari esteriori, ma spingersi oltre significherebbe chiedere ai fatti di mentire. Se l'ambiente diventa troppo duro, l'animale protesta contro le violenze subite e soccombe piuttosto che cambiare. Se l'ambiente si modifica a poco a poco, l'animale si adatta in un modo o nell'altro, ma rifiuta assolutamente di smettere di essere ciò che è. Vivere secondo lo stampo da cui si è usciti o perire: non ci sono altre vie.
L'istinto, caratteristica superiore, non è meno ribelle ai dettami dell'ambiente di quanto possano esserlo gli organi di cui si serve per agire. Innumerevoli corporazioni si spartiscono il lavoro del mondo entomologico; e ogni loro membro sottostà a regole che non mutano a causa del clima, né della latitudine, né dei più profondi sconvolgimenti del regime alimentare.

 

[No. L’istinto è codificato nel DNA: se muta il DNA a volte muta anche l’istinto, e quando avviene un cambiamento ambientale radicale gli esemplari mutanti, che durante un periodo di calma ambientale perivano, ora in minuscola parte sopravvivono e producono altre specie. NdA.] 

 

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[Pag. 468…]

Per giorni e giorni [i necrofori] si affaticano intorno al cadavere, lo scrutano da capo a piedi, senza prestare attenzione al fermo mobile, causa della loro sventura. Per quanto a lungo li sorvegli, non vedo mai uno solo spingere il fermo con la zampa o premerlo con la fronte.
Il motivo del loro insuccesso non è la mancanza di forza. Come i geotrupi, i necrofori sono robusti sterratori. Raccoglietene una manciata: si insinueranno fra un dito e l'altro e vi lacereranno la pelle al punto da farvi ben presto abbandonare la presa. Con la loro fronte, robusto vomere, potrebbero molto facilmente far cadere l'anello dal suo corto sostegno, ma non riescono perché non ci pensano, e non ci pensano perché non possiedono ciò che l'insana generosità dell'evoluzionismo attribuisce loro per sostenere la sua tesi.
Divina ragione, sole dell'intelletto, che maldestro schiaffo al tuo augusto volto, quando gli esaltatori del rozzo animale ti avviliscono con tale ottusità!

 

[Ma quando mai! Questo è uno dei purtroppo non pochi passaggi esemplari da cui si evince l’incomprensione totale di Fabre - vuoi per pregiudizio, vuoi per linsufficiente disponibilità di fonti autorevoli dovute alle ristrettezze economiche - nei confronti della teoria evoluzionistica darwiniana. NdA.]

 

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[Pag. 501…]

In questa genesi dei suoni, impossibile vedere un cammino progressivo in cui al pessimo segua il discreto, al discreto l'ottimo. Vi si riconoscono soltanto salti bruschi, pause, regressioni, sviluppi improvvisi senza che nulla li preannunci e nulla li segua; nient'altro che un enigma indecifrabile con le sole potenzialità della cellula, un comodo guanciale per chi non ha il coraggio di scrutare più a fondo.
[…]
Alcuni vanno oltre. Se l'esistenza riserva bei momenti, non risparmia nemmeno sofferenze. La locusta sellata delle vigne sa esprimere gli uni e le altre. Con una melopea strascicata racconta ai cespugli le sue gioie; con una melopea simile, leggermente modificata, sfoga il suo dolore e le sue paure. La femmina, anche lei strumentista, condivide questo privilegio. Esulta o si lamenta con due cimbali di diverso tipo.
Dopotutto, il timpano a cremagliera non è da disprezzare. Anima il prato, sussurra le felicità e le traversie della vita, diffonde tutt'intorno il suo richiamo amoroso, rende piacevoli le lunghe attese dei solitari, esprime il pieno rigoglio dell'animale. Il suo colpo di archetto è quasi una voce.
E questo magnifico dono, pieno di promesse, è stato concesso soltanto alle razze inferiori, nature grossolane, imparentate con i rozzi tentativi del Carbonifero. Perché l'insetto superiore, se discende, come si dice, da antenati che si sono lentamente evoluti, non ha conservato la bella eredità di quella voce capace sin dall'inizio di cantare?
Non sarà la teoria delle acquisizioni progressive soltanto un colossale abbaglio? Dobbiamo rinunciare alla crudeltà del più forte che schiaccia il debole, del più dotato che schiaccia il meno dotato? È meglio dubitare quando l'evoluzionismo ci parla della sopravvivenza dei meglio equipaggiati? Altroché, e molto!
Così ci consiglia una libellula del Carbonifero (Megaura mony) che ha un'apertura alare di più di sessanta centimetri. È scomparsa la damigella gigante che con la sua mandibola a sega terrorizzava il piccolo popolo degli alati, mentre la debole Coenagrion, con il ventre bronzeo o blu, volteggia ancora sui giunchi dei nostri ruscelli.
Sono scomparsi i suoi contemporanei, i mostruosi pesci sauroidi, rivestiti di smalto e temibilmente armati. I loro rari successori sono degli aborti. La splendida serie dei cefalopodi dalla conchiglia suddivisa da setti trasversali, tra cui alcune ammoniti larghe come la ruota di un carro, è rappresentata nei mari attuali soltanto dal nautilo, fornito di un modesto casco da operaio di fonderia. Il megalosauro, sauro lungo venticinque metri, faceva nel nostro paese ben altra impressione che la lucertola muraiola. Un contemporaneo dell'uomo, il mammut, animale gigantesco, lo conosciamo soltanto dai suoi resti; e il suo immediato vicino, l'elefante, che al confronto è un'umile pecora, prospera ancora. Che eccezioni alla legge della sopravvivenza del più forte! I più imponenti sono scomparsi, e i deboli ne hanno preso il posto.

[...]

Per esigenze di simmetria, vengono talvolta dipinte sui muri delle case finestre finte che fanno da pendant a finestre vere. Così vuole l'ordine, condizione suprema del bello. Anche la vita ha le sue simmetrie e replica a modo suo un modello generale. Quando sopprime un organo divenuto inutile, ne lascia qualche traccia onde preservare l'equilibrio fondamentale.

[No. L’evoluzione non è senziente, non porta a magnifiche sorti, e progressive, ma solo alla sopravvivenza del più adattabile, non del più forte/grande/bello, anzi! NdA.]

 

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A tal proposito ecco il link a un bell’articolo di Pangea che presenta la situazione/questione, senza risolverla: https://www.pangea.news/jean-henri-fabre-darwin-entomologo/.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

2022: i sopravvissuti

  • Fantascienza
  • USA
  • durata 97'

Titolo originale Soylent Green

Regia di Richard Fleischer

Con Charlton Heston, Edward G. Robinson, Joseph Cotten, Chuck Connors, Dick Van Patten

2022: i sopravvissuti

In streaming su Amazon Video

vedi tutti

 

[Pag. 449…]

Un fatto piuttosto singolare richiama allora la mia attenzione. Tutti i becchini che risalgono in superficie sono monchi, privi di un arto, chi più in alto, chi più in basso. Vedo uno storpio che conserva integra solo una zampa. Con questo arto scompagnato e i moncherini degli altri, si affatica sulla distesa polverosa, penosamente lacero, ricoperto di pidocchi come squame. Spunta un collega, più in salute, che dà il colpo di grazia all'invalido e gli svuota il ventre. Questa è la fine che fanno i tredici necrofori che mi restano, semidivorati dai loro compagni o perlomeno amputati di qualche arto. Ai pacifici rapporti iniziali è seguito il cannibalismo.
La storia ci dice che certi popoli, come i Massageti o altri, uccidevano gli anziani per risparmiare loro la decadenza senile. Una mazzata sul capo canuto era ai loro occhi un gesto di pietà filiale. I necrofori hanno la loro parte di questi antichi costumi selvaggi. Sazi di giorni, ormai inutili, stremati, si uccidono reciprocamente. Perché prolungare l'agonia dell'invalido e del rimbambito?
Il Massageta poteva addurre a difesa della sua atroce usanza la scarsità di viveri, cattiva consigliera; i necrofori no, perché, grazie alla mia generosità, le vivande abbondano, sopra e sottoterra. La carestia non c'entra nulla con questa carneficina. Si tratta della degenerazione provocata dal venir meno delle forze, della morbosa furia di una vita sul punto di prosciugarsi. Come vuole la regola generale, il lavoro conferisce ai becchini costumi pacifici, mentre l'inattività sollecita i loro gusti perversi. Non avendo più niente da fare, il necroforo rompe le zampe al suo simile, lo divora, senza preoccuparsi di finire amputato e divorato a sua volta. Cosi avverrà la liberazione definitiva dalla sordida vecchiaia.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Raw - Una cruda verità

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 95'

Titolo originale Grave

Regia di Julia Ducournau

Con Garance Marillier, Ella Rumpf, Rabah Nait Oufella, Joana Preiss, Laurent Lucas

Raw - Una cruda verità

In streaming su Netflix

vedi tutti

 

[Pag. 483…]

Alla fine il dettico esausto tocca appena il cibo, cerca un riparo tranquillo, si accascia spossato, stira i trampoli in un'ultima convulsione e muore. La vedova che passa di là per caso lo vede e - rimorso che durerà in eterno - ne rosicchia un cosciotto.
Così si comporta la tettigonia verde. Sottopongo una coppia rinchiusa nella campana da sola a una sorveglianza speciale. Assisto alla fine dell'accoppiamento, quando la futura madre porta, fissato sotto la base della sciabola, l'elegante lampone di cui ci occuperemo fra poco. Fiaccato dagli eventi, il maschio è silenzioso. Il giorno dopo, recuperate le forze, eccolo cantare con più fervore che mai. Stridula, mentre la femmina sparge le sue uova a terra; continua a cantare quando la deposizione è ormai terminata da un pezzo e la conservazione della specie non esige più nulla.
Il perdurare del canto non è, chiaramente, un richiamo amoroso, perché tutto si è ormai concluso, e concluso bene. Prima o poi insomma la vita viene meno e la cetra tace. L'appassionato cantore è morto. La femmina gli fa un funerale simile a quello del dettico: gli divora le parti migliori. Lo amava tanto da mangiarselo.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Ode to the Dawn of Man

  • Documentario
  • USA
  • durata 39'

Titolo originale Ode to the Dawn of Man

Regia di Werner Herzog

Con Ernst Reijseger

Ode to the Dawn of Man

 

[Pag. 497…]

In natura troviamo suoni superbi, non musica.
Ululare, ragliare, grugnire, nitrire, muggire, belare, guaire: a questo si limita la fonetica degli organismi a noi più vicini. Uno spartito composto per tali elementi si chiamerebbe «schiamazzo ». Per una eccezione sorprendente, l'uomo, al vertice della serie di questi grossolani esseri rumorosi, pensò di cantare. Una capacità che nessuno condivide con lui, la capacità di coordinare i suoni, dalla quale deriva lo straordinario dono della parola, lo spinse verso i corretti vocalizzi. In mancanza di modelli, l'apprendistato dovette essere faticoso.
Che cosa poteva uscire dalla rozza laringe del nostro preistorico antenato quando festeggiava il ritorno dalla caccia al mammut e si ubriacava con un distillato di lamponi o di prugne? Una melodia con tutti i crismi? No di certo, ma suoni rochi capaci di far tremare la volta del suo riparo roccioso. Il valore del grido risiedeva nella sua forza. Oggi il canto primitivo lo ritroviamo nelle taverne anziché nelle caverne, quando le gole sono accese dal vino.
E questo tenore che emetteva suoni così grezzi sapeva già usare benissimo la punta di selce per incidere sull'avorio l'immagine del mostruoso animale che aveva appena catturato; sapeva abbellire con sanguigna le gote del suo manitù; sapeva pitturarsi da solo con grassi colorati. La forma e il colore avevano numerosi modelli, il suono controllato nessuno. Con il progredire delle abilità tecniche, ai tentativi gutturali si uni lo strumento musicale. Si cominciò a soffiare in tubi ricavati da un pezzo di ramoscello verde; si fece risuonare lo stelo dell'orzo e fischiare il cilindro della canna. Il guscio della chiocciola tenuto fra due dita del pugno chiuso imitò il richiamo della pernice; la tromba formata da un largo nastro di corteccia arrotolata a mo' di corno produsse il muggito del toro; alcune fini strisce di budello tese sulla pancia vuota di una zucca diedero le prime stridenti note degli strumenti a corda; una vescica di stambecco fissata su una robusta cornice fu il primo tamburo; due ciottoli piatti che cozzavano fra di loro con movimento ritmato fecero conoscere il clicchettio delle nacchere. Dovettero essere questi gli strumenti musicali primitivi, materiale conservato dal bambino che con la sua arte ingenua ricorda il bambinone di un tempo.
L'antichità classica non ha conosciuto molto altro, come testimoniano i pastori di Teocrito e di Virgilio. «Silvestrem tenui musam meditaris avena»¹ dice Melibeo a Titiro. Che cosa aspettarsi da questo «fuscello di avena», da questa «leggera cannuccia», come ci facevano tradurre quando ero giovane? Con «avena tenui» il poeta ha voluto soltanto usare una figura retorica o ha descritto una realtà? Propendo per la seconda ipotesi avendo sentito io stesso un concerto di cannucce.
Accadde in Corsica, ad Ajaccio. Alcuni ragazzini del vicinato vennero un giorno a farmi una serenata per ringraziarmi di una manciata di confetti che avevo regalato loro. All'improvviso, mi giunse a ondate un'aspra armonia formata da suoni strani, di rara dolcezza. Mi precipitai alla finestra. I coristi erano laggiù, alti un soldo di cacio, tutti seri e disposti in cerchio, con il corifeo al centro. La maggior parte aveva alle labbra un gambo verde di cipolla, gonfio come la pancia di un fuso; altri un culmo, un pezzo di canna ancora tenero.
Soffiavano li dentro, o piuttosto cantavano un vocero, su un modo grave, eredità forse dei Greci. Certo non era musica come la intendiamo noi, ancor meno rumore indistinto, era una melopea incerta, ondeggiante, con scorrettezze ingenue; un miscuglio di bei suoni in cui il sibilo della paglia metteva in risalto il tremolo dello stelo panciuto. Quella sinfonia con gambi di cipolla mi lasciò a bocca aperta. Pressappoco in quel modo doveva no suonare i pastori dell'egloga, avena tenui, pressappoco in quel modo doveva essere stato cantato l'epitalamio della sposa nel Paleolitico.
Si, la cantilena dei miei bimbi corsi, autentico ronzio di api sul rosmarino, ha lasciato in me un ricordo duraturo. L'ho ancora negli orecchi. Mi ha insegnato il valore degli zufoli di campo, tanto celebrati da una letteratura oggi fuori moda. Come siamo lontani da quelle ingenuità! Ai giorni nostri per allettare il popolo sono necessari oficleide, flicorni, trombone, corno a pistoni, tutti gli ottoni immaginabili, con tamburo e grancassa, e a coronamento del tutto un colpo di cannone. Ecco il progresso.
Ventitré secoli fa, la Grecia si riuniva a Delfi per le feste del sole, Febo dai capelli d'oro. Ascoltava, in preda a un'emozione religiosa, l'inno di Apollo, melodia di poche misure, appena sostenuta qua e là da sparuti accordi di flauto e cetra. Capolavoro acclamato, il canto sacro fu inciso su tavole di marmo che gli archeologi hanno recentemente portato alla luce.
Le venerabili strofe, le più antiche degli archivi musicali, sono state interpretate al teatro romano di Orange, rovina di pietra degna di quelle rovine di suoni. Non fui presente alla festa solenne, a causa della mia abitudine di correre a occidente quando a oriente vengono sparati i fuochi artificiali. Vi assistette uno dei miei amici, dotato di un orecchio assai raffinato. «Dubito molto» mi disse «che fra i diecimila ascoltatori che poteva contenere l'enorme anfiteatro uno solo abbia capito quella musica di un altro tempo. A me, poi, sembrava la litania di un cieco, e tanto che non riuscivo a evitare di cercare con lo sguardo il cagnolino che teneva il piattino per l'elemosina».
Ah, barbaro! Considera il capolavoro greco come una stupida litania! La sua era irriverenza? No, ma inettitudine. Al suo orecchio educato secondo altre regole non potevano risultare gradevoli quelle ingenuità che il passare dei secoli aveva reso strane, persino urtanti. Mancava al mio amico, manca a noi tutti, il senso delle raffinatezze primitive, soffocate dal tempo. Per assaporare l'inno di Apollo bisognerebbe tornare a quella semplicità d'animo che un giorno mi fece trovare deliziosi i sussurri di un gambo di cipolla. Non ci riusciremo mai.

1. Virgilio, Bucoliche, I, 2 (N.d.T.).

 

Recensione.

 

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2001. Odissea nello spazio

  • Fantascienza
  • Gran Bretagna
  • durata 141'

Titolo originale 2001: A Space Odyssey

Regia di Stanley Kubrick

Con Keir Dullea, Gary Lockwood, William Sylvester, Daniel Richter, Leonard Rossiter

2001. Odissea nello spazio

IN TV Sky Cinema Drama

canale 308 vedi tutti

 

[Pag. 557…]

Anche il grillo campestre e i suoi congeneri usano la sordina grazie all'accostamento del bordo delle tegmine al ventre, più in alto o più in basso; ma nessuno ne sa ricavare effetti così ingannevoli come il grillo arboricolo.
All'illusione di un canto proveniente da varie distanze, fonte di piccole sorprese che si rinnovano al minimo rumore dei nostri passi, si aggiunge la purezza del suono accompagnato da un dolce tremolo. Non conosco verso di insetto più grazioso e più limpido nella profonda calma delle sere di agosto. Quante volte, «per amica silentia lunae»,¹ mi sono sdraiato a terra, al riparo di una siepe di rosmarino, per ascoltare il delizioso concerto dell'harmas!
Il giardino pullula di grilli notturni. Ogni ciuffo di cisto con fiori rossi ha il suo corista; ogni mazzo di lavanda possiede il suo. I fitti arbusti e i terebinti diventano orchestre. E con la sua gentile voce chiara tutto quel piccolo mondo si interroga e si risponde da un arbusto all'altro; o piuttosto, indifferente alle cantilene altrui, celebra la propria gioia solo per sé.
Lassù, proprio sopra la mia testa, la costellazione del Cigno stende la sua grande croce sulla Via Lattea; qui in basso, tutt'intorno a me, si propaga a onde la sinfonia dell'insetto. Il corpuscolo che esprime la sua felicità mi fa dimenticare lo spettacolo delle stelle. Non sappiamo niente di questi occhi celesti che ci guardano, placidi e freddi, con scintillii simili a battiti di palpebra.
La scienza ci parla della loro distanza, della loro velocità, della loro massa e dei loro volumi; ci schiaccia sotto numeri enormi, ci sbalordisce con l'immensità, ma non riesce a smuovere in noi una sola fibra. Perché? Perché le manca il grande segreto, quello della vita. Che cosa c'è lassù? Che cosa riscaldano quei soli? Mondi analoghi ai nostri, ci dice la ragione; terre su cui la vita si sviluppa con una varietà infinita. Superba concezione dell'universo, ma dopotutto mera concezione, non basata su fatti lampanti, testimoni supremi, accessibili a tutti. Il probabile o molto probabile non è l'evidente, ciò che si impone senza discussione e non lascia margini al dubbio.
Invece in vostra compagnia, miei cari grilli, sento palpitare la vita, anima della nostra zolla di fango; ed ecco perché, al riparo della siepe di rosmarino, concedo solo uno sguardo distratto alla costellazione del Cigno e rivolgo tutta la mia attenzione alla vostra serenata. Un po' di albume animato, capace di provare piacere e dolore, è più interessante dell'immensa materia bruta.

1. Virgilio, Eneide, II, 255 [N.d.T.].

 

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Okja

  • Avventura
  • Corea del Sud, USA
  • durata 120'

Titolo originale Okja

Regia di Joon-ho Bong

Con Ahn Seo-Hyun, Tilda Swinton, Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Steven Yeun, Lily Collins

Okja

In streaming su Netflix

vedi tutti

 

[Pag. 620...]

 

Diffidiamo dell'alambicco quando si immischia in cucina; lasciamolo pure ottenere il burro dal sego di candela o il cognac dalle patate, e quando ci dice che i prodotti sono identici, rifiutiamo quegli orrori. La scienza, straordinariamente ricca di veleni, non ci darà mai nulla di commestibile perché, se la sostanza bruta rientra in larga misura nel suo campo, la stessa sostanza sfugge ai suoi mezzi nel momento in cui essa deve essere organizzata, divisa e suddivisa all'infinito dal lavoro della vita, secondo i bisogni dello stomaco, che non possono certo essere dosati dai nostri reagenti. Forse un giorno sarà possibile produrre artificialmente la materia della cellula e della fibra, ma la cellula e la fibra mai. Ecco lo scoglio dell'alimentazione tramite alambicco.

 

Recensione. 

 

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La legge - La Costituzione recitata dagli animali con la voce del padrone

  • Sperimentale
  • Italia
  • durata 78'

Regia di Flavia Mastrella

Con Luca Ferri, Flavia Mastrella, Antonio Rezza, Elisabetta Sgarbi, Giovanni Spagnoletti

La legge - La Costituzione recitata dagli animali con la voce del padrone

 

[Pag. 626…]

Uno per tutti e tutti per uno. Così dice la processionaria, che ogni sera consuma il suo piccolo capitale di seta per ingrandire un rifugio a volte nuovo per lei. Che se ne farebbe da sola della sua povera matassa? Quasi niente. Ma fila con centinaia e centinaia di compagne, e l'unione delle loro dotazioni da nulla in una stoffa comune dà vita a uno spesso riparo capace di far fronte all'inverno. Lavorando per sé, ciascuna lavora per le alre; e, dal canto loro, queste lavorano con pari zelo per ciascuna. Oh, animali fortunati che non conoscono la proprietà, madre della lotta! Oh, invidiabili cenobiti che praticano con rigore un comunismo perfetto!
[…]
Tutti hanno le stesse dimensioni, la stessa forza, la stessa livrea; tutti hanno la stessa capacità di filare, e tutti impiegano, con pari zelo, l'intero contenuto delle proprie ampolle da seta per il benessere di tutti. Nessuno resta in ozio o si trascina indifferente quando è necessario lavorare. Senza altro stimolo che la soddisfazione del dovere compiuto, ogni sera, con la bella stagione, tutti filano con la stessa alacrità ed esauriscono fino all'ultima goccia i serbatoi di seta che hanno riempito nel corso della giornata. Nelle loro tribù non ci sono a bili e inetti, forti e deboli, morigerati e ingordi, energici e pigri, parsimoniosi e scialacquatori. Ciò che fa l'uno, lo fanno anche gli altri con lo stesso zelo, né meglio né peggio. Magnifico mondo veramente egualitario, ma, purtroppo, mondo di bruchi!
Se dovessimo imparare da lei, la processionaria del pino ci mostrerebbe la vacuità delle nostre teorie egualitarie e comuniste. Uguaglianza: bellissimo slogan politico, ma non molto di più! Dov'è questa uguaglianza? Saremmo in grado di trovare nelle nostre società anche solo due persone esattamente uguali per forza, salute, intelligenza, attitudine al lavoro, lungimiranza e tante altre qualità che sono i fattori principali del benessere? Dove potremmo scoprire l'equivalente dell'assoluta uguaglianza che esiste fra i bruchi? In nessun luogo. La disuguaglianza è il nostro destino. E per fortuna.
Se anche ripetiamo innumerevoli volte un suono sempre uguale non otteniamo un'armonia. I suoni devono essere diversi, deboli e forti, gravi e acuti; sono necessarie perfino le discordanze, perché con la loro a asprezza mettono in risalto la dolcezza degli accordi. Allo stesso modo le società umane sono armoniose proprio per la presenza di differenze. Se i sogni egualitari potessero realizzarsi, ci ridurremmo alla monotonia delle società formate dai bruchi; arti, scienze, progresso, slanci elevati resterebbero a sonnecchiare all'infinito nella calma piatta della mediocrità.
Del resto, una volta conseguito il livellamento generale, saremmo ancora molto lontani dal comunismo, per arrivare al quale sarebbe necessario eliminare la famiglia, come ci insegnano i bruchi e Platone; sarebbe necessario disporre di cibo in abbondanza senza alcuna fatica. Finché un tozzo di pane sarà una difficile conquista, frutto di un'abilità e di un'applicazione di cui non tutti siamo capaci in egual misura, e finché la famiglia sarà la sacra motivazione della nostra lungimiranza, la generosa teoria dell'uno per tutti e tutti per uno è assolutamente impraticabile.
E poi, sarebbe un vantaggio eliminare la fatica con cui procuriamo il pane quotidiano a noi stessi e ai nostri cari? Ne dubito molto. Aboliremmo le due grandi gioie di questo mondo, il lavoro e la famiglia, le sole a dare qualche valore alla vita; soffocheremmo ciò che per l'appunto costituisce la nostra grandezza. Il risultato di tale bestiale sacrilegio sarebbe un falansterio di bruchi umani. Questo ci dice con il suo esempio la processionaria del pino.

[Dal Fabre anti-evoluzionista al Fabre capitalista, razzista ed anti-comunista il passo è breve, per l’inetto. (Non l’insetto: l’inetto.)

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione [ch’esiste strutturalmente e costitutivamente; NdR] di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.» - Articolo 3 dei Princìpi Fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana. NdA.]

 

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Il malato immaginario

  • Commedia
  • Italia
  • durata 107'

Regia di Tonino Cervi

Con Alberto Sordi, Laura Antonelli, Bernard Blier, Vittorio Caprioli, Marina Vlady

Il malato immaginario

 

[Pag. 686...]

Quanto al modo in cui agisce questo medicamento, confesso di non capirci nulla, non più di quanto mi sia chiaro come agisce il veleno del bruco. L'aspirante medico di Molière spiegava le proprietà soporifere dell'oppio dicendo: «Quia est in eo virtus dormitiva cuius est natura sensus assoupire». Noi diciamo lo stesso: l'erba compressa lenisce l'orticazione perché possiede una virtù lenitiva la cui proprietà è di calmare il prurito.
La battuta è più filosofica di quanto non sembri. Cosa sappiamo noi dei nostri rimedi e di tutto il resto? Conosciamo gli effetti e non possiamo risalire alle cause.

1. Molière, Il malato immaginario, terzo intermezzo [N.d.T.].

 

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Gaza

  • Documentario
  • Irlanda, Territori Palestinesi Occupati
  • durata 90'

Titolo originale Gaza

Regia di Garry Keane, Andrew McConnell

Gaza

In streaming su DocAlliance Films

vedi tutti

 

Check-list dei vertebrati (anfibi, rettili e mammiferi) della Striscia di Gaza (365 km/q, 2.225.000 esseri umani):

 

- https://juniperpublishers.com/artoaj/ARTOAJ.MS.ID.556233.php (ecosistema di Al-Mawasi, nel sud-ovest della Striscia di Gaza);

 

- https://www.researchgate.net/publication/262946620_Wild_Mammals_in_the_Gaza_Strip_with_Particular_Reference_to_Wadi_Gaza (Wadi Gaza, al centro della Striscia di Gaza).

 

Lo wadi è il letto di un torrente non perenne che scorre stagionalmente in una zona arida o semi-desertica.

 

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