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Jazz in un giorno d'estate

Regia di Bert Stern vedi scheda film

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La recensione su Jazz in un giorno d'estate

di spopola
4 stelle

E’ consigliata soprattutto agli appassionati di Jazz questa pellicola del 1960, girata in diretta dal fotografo (allora trentenne) Bert Stern, aderente alla corrente del “new american cinema”, ma certamente non ascrivibile ai più significativi risultati di quel movimento che ha spesso avuto stretti legami proprio con tale tipo di musica per attinenze anche metodologiche  di approccio (l’improvvisazione sul campo, l’estemporaneità dell’azione), ma con ben altri esiti  sotto il profilo della qualità artistica (vedi The Connection di Shirley Clarke) e del coinvolgimento emozionale dello spettatore.

 

Se me ne occupo allora, è principalmente perché anche con i suoi palesi difetti (che mettono in evidenza più i limiti che le qualità  di quel movimento di rottura nato a New York intorno alle teorizzazioni dei Fratelli Meckas e della rivista Film Culture da loro fondata), rimane in ogni caso un interessante documento che caratterizza un’epoca, che ha soprattutto il pregio di riunire in un insieme tutt’altro che “antologico”, il fior fiore del settore colto in esecuzioni dal vivo di assoluta e vitale autenticità.

Jazz in un giorno d’estate è infatti la registrazione  del festival di musica Jazz  tenuto in quell’anno a Newport, con i suoi artisti e il suo pubblico, un evento però che qui non viene raccontato nella sua esatta scansione temporale (per altro c’è da considerare che si articolò in un periodo più lungo di una sola giornata come si può ben immaginare), bensì “rimontando” in studio i pezzi e le esecuzioni  con l’intento non tanto di fornircene una “sintesi”, quanto invece di creare e mostrare le connessioni e i rapporti fra esecutori (e le loro esecuzioni)  e il variegato pubblico presente in sala – a sua volta protagonista - colto nelle sue  disomogenee reazioni spesso anche discordanti fra il fanatismo e la noia. L’ambizione evidente, era quella di riuscire a  “costruire” così un quadro non solo musicale ma anche – e soprattutto - sociologico dell’evento, un proposito per altro che viene chiaramente enunciato dal commento parlato,  che dichiara esplicitamente (e testualmente) che il film vuole essere lo specchio fedele dello spirito (e la sottolineatura non è mia) del festival e dell’atmosfera che si respirava intorno: veri gli spettatori, veri gli artisti, vere (cioè registrate dal vivo e in diretta) le esecuzioni. Una specie di “cinema verità” insomma, ma più elaborato e complesso. E’ una posizione e una “scelta” che penso nessuno, anche nel caso non la condividesse del tutto, potrebbe rifiutare a priori, se poi le cose risultassero corrispondenti, e il film totalmente all’altezza  di tale pomposa “enunciazione teorica”, cosa che invece a mio avviso accade solo marginalmente, purtroppo.

Il grosso lavoro di “taglio e cucito” che il montatore e il regista hanno operato per cercare di raggiungere questo obiettivo è in ogni caso evidente, lo sta a dimostrare ampiamente il fatto che degli oltre quarantamila metri di pellicola girati, ne sono poi stati utilizzati soltanto quelli strettamente necessari per un film che dura meno di 90 minuti e che lascia per altro ampio spazio ai gesti e ai movimenti degli spettatori, un’opzione oggettivamente necessaria proprio per “evidenziare” il clima e il “gradimento” della cornice. La buona volontà e l’impegno però non sono mai da soli sufficienti, e forse sarebbe stata necessaria ben altra mano e un  più consumato mestiere perché le ambizioni trovassero poi effettivamente sullo schermo una pratica ed effettiva conferma.

Nell’affrontare infatti una materia così stratificata, Bert Stern, sia pure tra felici intuizioni di suggestiva bellezza che non possiamo negare e che restano ancora a testimoniarne il valore, alla fine sembra davvero che abbia dimenticato per strada quelli che erano i risultati che intendeva conseguire col progetto iniziale, perché visionando il girato  questi risultano quasi del tutto ignorati (o meglio disattesi). Ma ancora più grave è il fatto che il regista non sia riuscito nemmeno a far emergere quelli che dovevano essere in quegli anni gli autentici umori, oltre che i riflessi e il profondo significato di una manifestazione tanto significativa e importante. Il risultato è dunque soprattutto “formale”, come se il regista (credo per inesperienza e soprattutto per un retaggio derivante dalla sua professione ufficiale) fosse rimasto “impaniato” (incantato) dalle suggestioni offerte dalla cinepresa,  che lo hanno così dirottato verso una estenuante ricerca finalizzata a realizzare  effetti sorprendenti per ricavarne immagini preziose ed elaborate, sia pure costruite sulla “verità “ delle riprese in diretta anche di piccoli momenti “accessori” come quelli dell’ironizzazione di un gesto, di una smorfia, di un atteggiamento, o  di visualizzare le  acrobazie sonore dei  prestigiosi  esecutori in campo.

Questo però toglie “immediatezza” al contatto che perde non solo d’efficacia, ma anche di credibilità:  è certamente “vero” il Louis Armstrong che si asciuga il volto con l’inseparabile  fazzoletto bianco, così come è “vera” la lentigginosa ragazza sbadigliante che ricopre di un rosso maglione il suo esile petto, su questo non nutriamo alcun dubbio, ma conosciamo però perfettamente  anche il discorso sulla “verità” e sulla “realtà” cinematografica che alla fine è poi proprio un’altra come ben sappiamo: l’esperienza – col tempo diventa certezza – ci insegna infatti che da quando il cinema è nato, spesso sullo schermo ad apparire “falso” (dipende ovviamente non da come è stato girato ma da come poi viene mostrato) è proprio il “vero”,  ed è invece il “falso” – in moltissimi casi e per le stessa corrispondenti ragioni -  a risultare più “vero” del vero. E’ questa particolare peculiarità che Stern sembra ignorare e che lo porta a confondere forse il cinegiornale con il documento, il documento con la testimonianza, la testimonianza con la realtà (anzi con “l’essenza” della realtà) e non si accorge che qui  gli spettatori danno assai frequentemente l’impressione  di essere al corrente, complici del fatto di essere “ripresi”. I loro atteggiamenti che la macchina pazientemente registra  mancano infatti  spesso di spontaneità (o per lo meno così risultano osservandoli a freddo), le loro mute scenette  un po’ ridicole sono troppo “recitate” per risultare del tutto credibilmente autentiche, e persino il loro abbigliamento dai contrasti accuratamente “ricercati” e “predisposti”, risulta artefatto e tutt’altro che casuale. Magari è soltanto una personale impressione, ma credo sia indubbio che in loro c’è in ogni caso ben chiara la presenza di una macchina da presa che riprende i loro gesti e le loro azioni. C’è poi l’effetto straniante di un montaggio particolarmente elaborato, ma alla fine anche questo aspetto “tecnicamente “ ineccepibile e forse persino “necessario”, finisce per aggravare ancor di più la situazione, perchè contribuisce a conferire all’insieme un’ulteriore patina intellettuale, allusiva, maliziosa, non certo ad aggiungere autenticità a immagini non autentiche (non vorrei essere frainteso: Stern probabilmente non bleffa, ma per le ragioni che riguardano il “vero” e il “falso” del cinema che ho esposto più sopra, è proprio così che appaiono le cose).

 

Passando al dettaglio, sul piccolo  palcoscenico si succedono le “vedettes” protagoniste di quell’evento in un  prezioso crescendo di performances di eccezionale presa emotiva (come si può ben immaginare dai nomi, le esecuzioni sono tutte di eccellente livello) e qui non ci piove: si vola alto, ma quanto si può invece apprendere degli onnipresenti, “invadenti” spettatori, non è di altrettanto valore, ci si limita solo ad notazioni troppo generiche ed  in parte scontate o prevedibili: un pubblico inizialmente annoiato, deluso nella sua ricerca di sensazioni che sembrano un po’ latitare e che a volte mostra punte eccessive di insofferenza, impegnato ad “eseguire e riprodurre” le piccole mansioni della sua condizione “passiva” di spettatore (sorbire una bibita, biascicare un panino,  masticare una gomma, fumare una sigaretta, sfogliare svogliatamente un programma). ma che si lascia poi trascinare – con la stessa estrema facilità – a reazioni inconsulte e anche un po’ spropositate che raggiungono punte di fanatismo. Lo vediamo infatti cangiare via via che cambiano gli esecutori, e diventare isterico per Gerry Mulligan, fremente per Chico Hamilton, congestionato per Louis Armstrong e infine soffuso di una devozione a “cliché” un po’ artificiosa quando Mahalia  Jackson intona il suo famoso  Lord’s prayer  (il Pater noster).

Se qualcosa emerge davvero dal loro atteggiamento credo che  ciò che ci arriva  con maggiore chiarezza, è una posizione tutto sommato quasi  di distacco un po’ alienato che si scalda a comando, un processo che qui  si riscontra spesso negli individui osservati, e questo indipendentemente dalle gradazioni anche di “calore” delle loro reazioni.  Troppo poco mi sembra per immaginare davvero che  sia stato colto lo spirito  e la sua essenza (a me sembra proprio che Stern non sia riuscito ad individuarlo e tantomeno a “metterlo in scena”).

Per quanto riguarda infine le caratteristiche proprie delle riprese, (quello che attiene allo “stile”, insomma), devo dire che al di là dei preziosismi, nemmeno qui le cose procedono nella maniera migliore: sembra di assistere a volte a un’antologia fotografica un po’ patinata in stile Life, Look o Esquire (riviste per altro alle quali Stern ha davvero collaborato anche a lungo, e per questo parlavo di problematiche realizzative troppo ancorate e dipendenti dalla  sua professione ufficiale), e a  una serie di fotogrammi dai toni eccessivamente sofisticati zeppi di riflessi violenti, sfumature accentuate spesso anche di grana grossa, asincronismi di colore, con  arzigogolate prospettive e difformi profondità di campo dovute a un  ricercato e  un po’ “fasullo” gioco  di mancate messe a fuoco, oltre che al frequente ripudio di obiettivi panfocali. Non mancano poi nemmeno le esercitazioni da vecchia avanguardia, quell’onanistico dilettarsi con riflessi di acque e aloni di luce, quell’affidarsi al consunto e abusato miracolismo  delle possibilità offerte dalla macchina da presa  che già allora aveva fatto il suo tempo (non a caso, e  significativamente, sull’ultima inquadratura, scende un mascherino a iride che ben evidenzia questa “datata” predilezione).

 

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