Espandi menu
cerca
Variazioni Goldberg

Regia di Ferenc Grunwalsky vedi scheda film

Recensioni

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 506
  • Post 97
  • Recensioni 1202
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Variazioni Goldberg

di spopola
8 stelle

La morte si sconta vivendo…questi sono i versi conclusivi di una delle più intense, straordinarie composizioni poetiche di Giuseppe Ungaretti che racchiudo in sé una molteplicità di significati tutti  strettamente connessi con quella che vorrei definire come  “la tragedia della vita di fronte al mistero della morte”. Versi dunque intessuti di una penetrante, dolorosa verità che potrebbero benissimo costituire anche la paradigmatica premessa a questo Variazioni Goldberg (Goldberg variációk in originale), misconosciuta pellicola ungherese del 1992 marginalmente distribuita anche in Italia, con la quale il regista Ferenc Grunwalsky, che l’ha realizzata con una “speciale” sensibilità empatica, tratta il tema della “perdita”, quella irreparabile di un figlio, tanto più insanabile se a causarla non è un evento naturale o un incidente, ma un “volontario suicidio” come in questo caso, compiuto per altro all’età di 13 anni.

Non si conosce molto di questo regista da noi, ma a giudicare dal risultato di quest’opera (sua, oltre che la regia, anche la sceneggiatura e la fotografia, che ha un merito non secondario, come vedremo poi, nella riuscita positiva della narrazione filmica) proprio per come riesce a fissare in immagini la “morte dei vivi”, di coloro cioè che sono giocati dal destino crudele di chi non fa più parte di questo mondo e diventano per questo incapaci di “sopravvivere” - o di trovare una ragione plausibile per tentare di continuare a  farlo - è certamente un nome che avrebbe meritato maggiore visibilità e interesse.

Grunwalsky con questo film pieno di sofferenza e di pathos, ha infatti la capacità di rappresentare come meglio non sarebbe possibile, le ferite che si aprono nei “superstiti”, anche in funzione dei pesanti sensi di colpa che derivano dal non aver capito né compreso in tempo, dal non essere stati in grado, insomma, di aiutare e prevenire.

La raffigurazione che ci da il regista di queste lacerazioni, è di una potenza inusuale per come veicola e ci fa percepire il senso di quel disorientamento che annulla ogni positività di pensiero: un dolore talmente forte (e così ben “sintetizzato” grazie alla collaborazione di un team di interpreti di tormentata aderenza anche figurativa) da dissugare progressivamente l’anima di coloro che inevitabilmente si sentono (co)responsabili dell’atto, fino a travolgerne violentemente e completamente la struttura progettuale dell’esistenza e a far saltare persino le sicurezze dell’ordinamento razionale della mente.

Un ragazzo di 13 anni si è suicidato, dunque, e questo è l’inconfutabile dato di partenza,  terribile e irreversibile, da cui prende le mosse il racconto. che si snoda però nel visualizzare il vissuto di quei genitori distrutti e ancora quasi increduli, proprio nella giornata che segue quella dei funerali, il momento in cui, passato lo sbigottimento immediato che è quasi di inconsapevole incoscienza, e una volta terminati gli indispensabili movimenti che occupano il cervello per le pratiche anche burocratiche che precedono e si concludono con il momento della sepoltura, si inizia davvero a comprendere il baratro che si è spalancato davanti, poichè la morte di un figlio è un comunque più inaccettabile di altre, anche se non esistono scale capaci di misurare e mettere in raffronto fra loro le intensità di sofferenze così totalizzanti e similari (dovrebbe far riflettere in ogni caso che se uno perde un genitore, è un orfano, si chiama vedovo/vedova chi vede morire il proprio  compagno o la propria compagna, ma non esiste alcun termine identificativo per definire ciò che si diventa, se ad andarsene prematuramente, è un figlio, il che significa che si tratta di un fatto talmente innaturale  e spaventoso, da non poter essere non solo immaginato, ma nemmeno codificato). Sono, all’apparenza, fatti di “ordinaria amministrazione” quelli che passano sullo schermo, che seguono a una notte insonne (quella del padre) trascorsa a porsi domande che non trovano risposte, contrassegnati dalle visite dei conoscenti venuti a testimoniare la loro “compassionevole” partecipazione, da quel girovagare inquieto e senza meta per le vie della città fino a ritornare  con ossessiva reiterazione, al forno crematorio, per “vedere” come vengono bruciati i morti, ed “acquisire”  davvero il senso straziante del “non ritorno” di chi ormai non è più fra noi… Ma c’è anche nel mezzo di tutta questa quotidianità drammatica e sanguinante, anche l’arrivo inaspettato della polizia che sta indagando su quel suicidio ed ha necessità di rovistare “dentro” gli oggetti del ragazzo per “violare” l’intimità  del suo passato e tentare di scoprire le motivazioni di quel gesto,  che rintraccerà così proprio fra le sue carte, una lettera che racconta in pratica le origini del malessere esistenziale che ha generato quell’atto innaturale, fornendo persino la testimonianza di un precedente, fallito tentativo di togliersi la vita, una “verità” questa  che rende ancor più terrificante l’accaduto, poiché “quel” messaggio, oltre che una indotta invocazione al padre per essere compreso, è anche, e al tempo stesso,  una sotterranea richiesta di aiuto, la dichiarazione di un profondo disagio di vivere, che nessuno però è stato in grado di recepire  davvero, non solo perché il foglio è rimasto nascosto fra i quaderni, ma soprattutto perché non si è voluto (o potuto, ma non c’è poi molta differenza di risultato) leggerne la portata devastante dentro i  suoi occhi impauriti e inquieti… e allora davvero, soprattutto per l’uomo, destinatario  indotto della missiva, quella voragine che già aveva davanti, diventa un incolmabile precipizio nel quale annullarsi, e a quel punto non potrà esserci che una conclusione possibile, e qualcuno dovrà pure aiutarlo a prenderla, quella decisione, a realizzarla praticamente, se non c’è più la forza di “andare avanti”, ma nemmeno quella di mettere da soli in pratica la “soluzione finale”, anch’essa a suo modo discutibile e altrettanto traumatizzante….

Messa così, sembra una cupa, insostenibile tragedia senza speranza, un fosco dissolversi dell’esistenza, dal quale forse sarebbe meglio stare lontano, e indubbiamente la partecipazione emotiva ai fatti è intensa e straziata, quasi insostenibile a tratti, come sempre accade quando si è chiamati confrontarsi con i problemi connessi con il buio dell’anima. Singolarmente però, il film è pieno di luce, ed è proprio nel giocare su questa contrapposizione fra il tema oppressivo e lugubre del racconto e la forma scelta per riprodurlo, che il regista gioca le sue carte migliori, attraverso una rappresentazione visiva che è spesso percossa da improvvisi squarci di luce, una luce accecante, sfacciatamente esasperata, che a volte entra inaspettata per il semplice aprirsi di una persiana, ed assume quasi il senso di un bagliore abbacinate ed offensivo che infrange l’intimità della sofferenza e mette prepotente a nudo il pudore segreto di quelle esistenze ferite, di quei corpi che sono i fragili involucri di un patimento senza fine, facendoci così diventare partecipi – non più soltanto semplici spettatori – di una prostrazione senza fine.…  la luce “indecente” della consapevolezza, si potrebbe dire, arrivata però troppo tardi,  che si riverbera a volte persino attraverso il riflesso giocato sui vetri del finestrino del camion con il quale il padre del ragazzo sta compiendo le sue peregrinazioni senza senso in giro per le strade, componendo angoscianti ghirigori esornativi che coprono e annullano i volti e la scena che si sta osservando, spostandola così in una dimensione quasi irreale, che sbilancia ancor più, quasi annullandola, direi, (spingendola cioè verso il “nulla” inevitabile della decisione finale) quella spasmodica ricerca di un perché certo, di una verità più consolante, nel tentativo di ricomporre mnemonicamente l’impossibile identità “sconosciuta”  di un’esistenza incompresa e trascurata definitivamente smarrita e per questo diventata impalpabile e di nuovo sfuggente, proprio come quel riflesso un po’ evanescente che fissa l’esterno, ma non fa vedere davvero cosa c’è dentro, e assume così il senso metaforico dell’oggettiva incapacità di penetrare i movimenti segreti delle anime.

Fra  gli interpreti i più tormentati, coloro che riescono meglio a sposare l’idea del regista e a riprodurne le drammatiche proporzioni, sono Sándor Gáspár , Erzi  Csérhalmi e Károly Nemecsák.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati