Ciò che era mancato in Adagio, soprattutto coesione e respiro narrativi, riesce in Il Mostro, miniserie scritta da Leonardo Fasoli e Stefano Sollima, diretta da quest’ultimo, sui crimini efferati del cosiddetto “Mostro di Firenze”. Ogni episodio della serie - la più vista al mondo su Netflix, al momento in cui scriviamo - si incentra su un diverso sospettato, i due fratelli Mele e i due fratelli Vinci, facenti parte della comunità sarda presente a Firenze e dintorni. Questo perché il sostituto procuratore Silvia Della Monica (Liliana Bottone) ha l’intuizione di retrodatare le indagini al delitto Locci-Lo Bianco, nel 1968, amanti adulteri, freddati in auto con le stesse modalità dei futuri crimini del Mostro. La presenza del piccolo Natalino sul sedile posteriore, testimone oculare, fa del duplice omicidio la scena primaria della scia di sangue a seguire. Una didascalia dichiara che tale è infatti il racconto da cui tutto ebbe inizio.

Più che un crime, ci si trova di fronte a un folk horror. Il Mostro è un boogeyman, l’Uomo nero in agguato: un fantasma, il significante di una catena di senso che proviene dalle oscurità della società contadino-patriarcale. Le due coppie di fratelli sospettati incrociano voyeurismo e necrofilia, riducendo a turno Barbara Locci (Francesca Olia), moglie di uno dei Mele, al patibolo di vittima predestinata. La figura tetra e feroce del Mostro è così solo l’immagine scaturita dall’immaginario primitivo dei Mele e dei Vinci, per cui il sesso è questione esclusiva di potere, potere che prevede l’esecuzione sommaria di chi non si allinea alla filiera delle sottomissioni. Il piccolo Natalino assiste dunque a una scena primaria horror, in cui la madre fa l’amore con un padre sostitutivo, mentre una sfilza di altri padri e zii, a seconda delle versioni possibili del crimine, trucida a freddo i fedifraghi traditori. Né famiglia né tribù, ma la religione ancestrale del potere al servizio della specie animale maschile.

Al solito paesaggio-Italia, fatto dei segni storici del miracolo economico, Fasoli/Sollima sostituiscono un’Italia-paesaggio, fatta di cimiteri sperduti, sentieri sul nulla, canne tremule, attraverso cui, come ha scritto Fabio Camilletti, le classi subalterne, ovvero la sfera del folk, decontaminano le scorie massificanti della cultura di massa, ossia il pop. I cantanti d’epoca, da Antoine a Mina, servono qui solo a coprire urla che non ci sono. Nessuno infatti qui grida, se non per errore. Il folk può annichilire il pop, allora, perché nessuna civiltà dell’immagine sarà in grado di ascoltare davvero l’orrore primitivo, che non è massificabile perché muto e assoluto: in breve, dittatoriale. Il luogo in cui il voyeurismo assume l’autorità di chi muto guarda e, a specchio, la necrofilia la violenza di chi può, perché muto ha guardato. Una violenza senza parola, inascoltabile e dunque inconfessabile a qualsiasi polizia, intesa quale ordine primitivo e eterno delle cose. La fine, o l’inefficacia, del linguaggio come strumento di civiltà. Il Mostro di Sollima/Fasoli è insomma un’opera politica come si deve assolutamente oggi.


Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta